Capitolo VI
Francesco Sforza (IV Duca di Milano 1452-1467)
Imprese:
Mano divina decussante tronco d’albero. Motto: “Tuto el zoco el va in tape” (oppure “Tuto el tort el va in tache”)
Tre anelli intrecciati con diamante.
Onde grosse montanti dette crescenti o cielo
nuvoloso.
Scopetta. Motto: “merito et tempore”
Veltro tenuto al guinzaglio da mano divina, accosciato sotto pino o
sorbo o nespolo. Motto: “Quietum nemo impune lacesset”
“Monticelli”. Motto: “Mit Zeit”
Mela cotogna. Motto “Fragrantia durat”
Francesco Sforza, grazie al matrimonio con Bianca
Maria, figlia naturale di Filippo Maria, ha garantito la continuità del
potere, fondando una nuova dinastia con sangue visconteo nelle vene. Francesco
era di umili origini: queste dovevano dolergli, e a
ragione, se persino il papa Pio II Piccolomini, riferendosi a lui, poteva dire:
“Ai nostri giorni anche i servi diventan padroni” o Filippo Maria, il futuro
suocero, poteva rinfacciargli di essere di quegli uomini o capitani dei quali
“non sappiamo ancora che sia stato suo padre”. Una volta sposata Bianca Maria
si sentì più volte definire “bastardo marito di bastarda”. Se gli dolevano, non
lo mascherava, contando, da uomo del rinascimento, sul suo genio, sulla sua
creatività personale e su certi inconfutabili segni del destino evidenziati con
mani divine in alcune imprese che segnano tappe
importanti della sua famiglia o della sua vita politica.
Tavola 25 - Le nozze tra Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, avvenute nella chiesa di S. Sigismondo a Cremona il 24 ottobre 1441. Miniatura coeva, Cremona, archivio diocesano.
L’impresa a lui più cara è legata al ricordo della vita dell’antenato
Giacomo Attendolo. Rappresenta una mano divina che colpisce con un’ascia un
tronco d’albero. Accompagna l’impresa il motto “Tuto el zoco el va in tape”,
tutto il ciocco va in scaglie… Stanco di fare il
contadino, Giacomo aveva progettato di cambiare vita. Per questo aveva chiesto
lumi al cielo: se l’ascia, scagliata contro un albero sacro a Marte, vi fosse
rimasta conficcata, avrebbe intrapreso la via delle armi, in caso contrario si
sarebbe ancora dedicato malinconicamente alla vita dei campi. L’ascia restò
conficcata nel tronco e cominciarono così le fortune del casato.
Tavola 26 - La Mano decussante. A sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Ancora una volta la propaganda di famiglia ci vuol convincere che il
destino degli Sforza, successori dei Visconti, è stato deciso molto in alto e
in modo irreversibile. Muzio Attendolo, padre di Francesco ed erede della
tradizione militare di Giacomo, ottenne il soprannome di Sforza dal suo
capitano Alberico da Barbiano. Nel 1401, lo stesso anno in cui nacque
Francesco, si guadagnò da Roberto di Baviera lo stemma raffigurante un leone
d’oro con un ramo di cotogne fra le zampe (gli Sforza sono originali di
Cotignola); divenuto gran conestabile nel regno di Napoli, si assicurò numerosi
feudi. Francesco punta grosso, addirittura alla successione del ducato di
Milano. Marchese di Ancona e Signore di alcune terre
circostanti, duca di Calabria come erede della prima moglie Polissena da
Montalto, si rende conto di quanto precari siano questi possedimenti,
eternamente contesi da vicini agguerriti come Sigismondo Malatesta, familiari
infidi (come suo fratello Alessandro, vice marchese di Ancona e Signore di
Pesaro) ed il papa, sempre pronto ad elargire o revocare vicariati.
Nel nord d’Italia l’inizio del suo potere è da individuarsi nel
possesso della città di Cremona. Porto fluviale di grande importanza
strategica, la città era già entrata nell’orbita viscontea ai tempi di Galeazzo
I e di suo figlio Azzone. Stremata dal peso fiscale impostole da Giangaleazzo,
si era ribellata al successore Giovanni Maria ed aveva sperimentato alcune
signorie locali con i Ponzone, con Ugolino Cavalcabò, e con il capitano delle
sue truppe Cabrino Fondulo. Nel gennaio del 1414 il
Fondulo ospitò in città con grandi onori l’imperatore Sigismondo e il papa
Giovanni XXIII, diretti sulla via di Mantova al concilio di Costanza.
Sterminati i Cavalcabò nel castello della Maccastorna, era indispensabile per
il Fondulo, rimasto unico signore, la legalizzazione
del suo potere da parte delle massime autorità. L’impresa dei tre anelli con
diamante intrecciati, incisa su di una moneta d’argento appartenente al
Fondulo, e conservata nel medagliere della Gherardesca di Pisa, molto
probabilmente allude al triplice incontro e alla legalizzazione
di questa dinastia dal destino non felice. Fiaccato dagli attacchi di Filippo
Maria, il Fondulo, per 40.000 scudi oro, vendette al terzo duca di Milano la
città, che d’ora in poi andò a far parte della dote personale di Bianca Maria
insieme a Pontremoli, la porta della Toscana.
Inaffidabile, e diffidando a sua volta di chi si era impadronito del
potere con un bagno di sangue, Filippo Maria si sbarazzò del Fondulo,
sospettato di tramare dal suo feudo di Castelleone coi
Veneziani, facendolo decapitare sulla pubblica piazza. Per matrimonio con
Bianca Maria, quindi, Francesco divenne Signore di Cremona. Testimone di questa ascesa sociale è l’impresa dei tre anelli: assunta
dallo Sforza è visibile in una formella della porta del chiostro di San
Sigismondo a Cremona, la chiesa delle nozze, e su di una bella lastra della
fontana situata nella corte ducale del castello di Milano.
Tavola 27 - La fontana del Castello Sforzesco di Milano (sopra). Oltre ai Tre anelli, vi si nota un’altra impresa di Francesco, il Veltro. Le altre invece (la “Razza”, la Colombina e il Morso) sono imprese tradizionali dei Visconti e testimoniano la continuità che lo Sforza voleva affermare rispetto alla vecchia dinastia. Nel portale della Certosa di Pavia (sotto) la continuità dinastica è stabilita invece dai ritratti: a incorniciare la Pietà troviamo infatti Gian Galeazzo (in alto), Filippo Maria (a sinistra) e lo stesso Francesco Sforza.
Il diamante, freddo, luminoso e tagliente, si presta bene come
allusione alle doti di un politico o di un condottiero. Lo troviamo anche
nell’impresa di Cosimo il Vecchio, fondatore delle fortune di
casa Medici, e sugli stendardi di Muzio Attendolo Sforza come gentile
concessione del marchese di Ferrara per servigi militari resi. Assumendo questa impresa, lo Sforza non si impegnava certo a
continuare la politica di Cabrino Fondulo, subdola e sanguinaria: voleva
probabilmente rassicurare la città sulla legalità del passaggio di potere, da
un legittimo proprietario ad un altro.
Il consolidamento del potere politico sforzesco avviene attraverso
vicende tempestose, ben raffigurate dall’impresa ad “onde grosse montanti”. In eterno
subbuglio le Marche; in più, alla morte di Filippo Maria era sorta a Milano
l’Aurea Repubblica Ambrosiana, animata dall’anacronistica speranza di tornare
alle libertà comunali, ora che l’odiata stirpe dei tiranni si era estinta. La
presa di Milano avviene con un colpo di stato che il nuovo Signore tenterà di
farsi perdonare con l’edificazione del grandioso ospedale per i poveri, meglio
noto col nome di Ca’ Granda. Significativo che sulla
pietra di fondazione dell’edificio sia scolpita l’impresa della “Scopetta” col
motto “Merito et tempore”.
Tavola 28 - La Scopetta. A sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Quello che era accaduto era giusto lo fosse,
il passato andava cancellato, stava per iniziare una nuova era in cui alla
politica espansionistica dei Visconti sarebbe stata opposta una politica di
pace. Ne faceva fede il progetto della Sforzinda, la mirabile città ideale
partorita dalla fervida fantasia del Filarete. Il riconoscimento legale del
potere sforzesco avverrà nel 1454 ad opera delle
maggiori potenze italiane riunitesi per stipulare la pace di Lodi. Nessun
riconoscimento però venne a Francesco dall’imperatore, che avrebbe accordato il
titolo ducale solo a suo figlio Ludovico, e solo perché costretto da impellenti
necessità.
Tavola 29 - L’ospedale maggiore di Sforzinda e l’ala filaretiana della Ca’ Granda.
Dopo tanto navigare per procellosi mari, finalmente
un po’ di quiete: ecco, accucciato sotto il pino, un veltro tenuto da mano
divina. L’impresa compare anche sulla lastra della fontana del castello
sforzesco, sul portale del Banco mediceo e a Cremona, nella chiesa di san
Sigismondo, sia sugli stalli del coro che, alternato
alle “onde montanti”, sulla cotta del duca nella bella pala di Giulio Campi
collocata sull’altar maggiore.
Tavola 30 - Il Veltro in un capitello del cortile della rocchetta e sulla veste di Francesco Sforza nella pala di S. Sigismondo in Cremona.
Istintivamente l’impresa ci fa pensare a Bernabò Visconti e alla sua
passione per i cani. Pare che ne allevasse cinquemila,
custoditi nella cosiddetta Ca’ d’i can, dietro alla reggia viscontea, affidati
alla cura di rustici e famigli che venivano puniti ogniqualvolta i cani
risultassero, alle periodiche ispezioni, troppo in carne o troppo magri, e
privati addirittura dei loro beni in caso si morte degli animali. “Quietum nemo
impune lacesset”, nessuno turberà impunemente la pace conquistata in modo tanto
faticoso, minaccia il motto di accompagnamento. La
mano divina che regge il guinzaglio del veltro è pronta
a giustificare ogni atto di difesa. Nella pala del Campi
la mano divina ha legato il guinzaglio al tronco dell’albero: poiché questa
pala risale al 1540, quando lo Sforza era morto da un pezzo, ci piace pensare
che il pittore abbia voluto sottolineare come nessuno avrebbe potuto turbare la
pace ormai eterna del Signore.
Tavola 31 - La chiesa di S. Giovanni in Conca in un’incisione di M.A. Dal Re. Sulla destra è ancora in piedi la “Ca’ d’i can”, dove Bernabò allevava i suoi amatissimi cani da caccia.
Alle antiche imprese viscontee, recuperate in blocco per rassicurare i
sudditi sulle capacità di buon governo e sulla legittimità del potere politico
(la porta del chiostro di San Sigismondo a Cremona è un vero trattato) se ne aggiungono, con Francesco, due inconsuete: La Mela Cotogna e i
“Monticelli”, detti anche “Carciofi”. La mela cotogna, già comparsa fra le
zampe del leone sforzesco, doveva essere un gentile omaggio a Cotignola, la
città originaria di tutta la dinastia. Il frutto è di buon auspicio, anticamente
veniva regalato agli sposi e decorava i talami nuziali
con l’augurio che l’amore durasse fresco e a lungo come la fragranza della
cotogna. “Fragrantia durat” auspica infatti anche il
motto sforzesco, ma le energie fisiche ed intellettuali del duca sappiamo che
non dovevano durare ancora per molto.
Tavola 32 - La Mela Cotogna in un clipeo di S. Maria delle Grazie e sulla fontana del Castello Sforzesco.
Anche i “Monticelli” si appellano al tempo. Si
tratta di un basamento con tre monticelli sui quali spuntano tre
carciofi in fiore, i semprevivi, come li chiama Bianca Maria nel privilegio
donato a San Sigismondo, con chiara allusione alla nuova dinastia e alla sua
capacità di generazione continua. Li troviamo ricamati sulla verde veste della
duchessa nella pala del Campi. “Mit Zeit”, col tempo -
ammonisce il motto – sarà possibile vedere quali frutti darà l’operato di Francesco ed esprimere un giudizio.
Tavola 33 - A sinistra: nel clipeo di S. Maria delle Grazie un “Carciofo” è spuntato sull’elmo del Leone Galeato. Si notano anche la corona ducale, una sorta di doppia gassa e lo scudo partito col Biscione e le aquile imperiali: una sintesi d’imprese delle famiglia all’apice della sua potenza. A destra: i “Monticelli” sulla “parlera” di Piazza Mercanti.