Gli affreschi dei Giochi Borromeo si trovano nel secondo
cortile dell’omonimo palazzo milanese, in una sala al piano terreno. Il ciclo
faceva parte di un imponente sistema decorativo voluto da Vitaliano Borromeo,
che comprendeva una serie di affreschi disposti sia all’interno delle singole
stanze che all’esterno, lungo il porticato. Come vedremo in seguito, è certa –
anche se molto dibattuta - la presenza, documentata dai Libri Mastri Borromeo
pubblicati nel 1914 dal Biscaro, del
grande Michelino da Besozzo, all’epoca decano dei
pittori milanesi e tra i più quotati dell’intero panorama lombardo. Dunque
Palazzo Borromeo a metà del XV secolo è uno dei cantiere pittorici privati più
importanti a Milano e il ciclo dei Giochi testimonia del notevole livello
qualitativo e delle notevoli disponibilità economiche della committenza: tale
disponibilità è inoltre testimoniata dalla quasi certa presenza nell’edificio,
in fase di profondo rinnovamento anche architettonico, di Giovanni Solari, che
fu retribuito nel 1450 per dei lavori oggi non identificati.
Gli affreschi, eseguiti probabilmente tra il 1445 e il 1450,
si dispongono su tre delle quattro pareti della sala, lasciando libera la parte
finestrata; la narrazione corre senza interruzione creando un effetto
“avvolgente”. Purtroppo il pessimo stato di conservazione degli affreschi,
consumati sia da una tecnica non perfetta di pittura “a fresco” che da gravi
problemi di risalita di umidità, ha seriamente compromesso la lettura del ciclo.
Anna Lucchini ha identificato solo cinque giornate di lavoro per ogni scena, e
di conseguenza il Maestro dei Giochi ha lavorato in soprattutto a secco,
tecnica che ha contribuito alla perdita di gran parte dei colori; “attualmente
le pitture si presentano agli occhi del visitatore non più nei loro colori
originali, bensì dominano i pigmenti di preparazione, il disegno in ocra su cui
pittore campì i colori definitivi, oggi irreversibilmente perduti.
Fig. 1– Il Gioco della Palmata – Particolare dello stato di degrado.
In particolare la caduta della decorazione finale e
compromette soprattutto la lettura più squisitamente “goticheggiante”
degli affreschi: la stessa Lucchini ipotizza in particolare che gli abiti e i
cappelli fossero decorati con sottili fili in oro, in rilievo, come dimostrano
dei graffiti che emergono dai contorni interessati.
Il visitatore tuttavia viene, ancora oggi, coinvolto nei
giochi e nelle facezie dei giovani
rampolli Borromeo, che esibiscono, nel medesimo tempo, il loro status sociale
attraverso l’esibizione e la ricchezza delle vesti e delle acconciature.
Entrando, sulla parete di sinistra, il cosiddetto Maestro dei Giochi Borromeo,
dipinse il Gioco dei Tarocchi:
sotto tre alberi di melograno e con alle spalle un paesaggio lacustre, cinque
giovani giocano a carte; la saldezza volumetrica dei personaggi, la resa
spaziale del paesaggio e l’equilibrio complessivo della scena si uniscono alla
raffinatezza della decorazione (effetto, come detto, oggi quasi del tutto
perduto) e alla aristocratica attenzione ai particolari.
Fig. 2– Il Gioco dei Tarocchi.
Il linguaggio squisitamente tardo gotico si innesta in un
percorso figurativo più avanzato, che ha come elementi di riferimento sia il
ciclo di Masolino da Panicale
a Castiglione Olona che il nuovo corso della pittura
lombarda capeggiato da Leonardo da Besozzo – in particolare di
vedano gli affreschi di San Giovanni a Carbonara a Napoli -, dalla figura di
Donato de Bardi e naturalmente dal Maestro dei Giochi Borromeo. Scrive a questo
proposito la Bollati: “certo è che tra gli artisti
lombardi della prima metà del Quattrocento, il Maestro dei Giochi Borromeo
sembra il più vicino, stilisticamente a Donato de’ Bardi. Un’ipotesi di lavoro
che preveda contati tra i due prima della partenza di Donato per Genova mi pare
dunque molto allettante”. Meno stringente, anche se in certi passi
indiscutibile, è la influenza del Pisanello che
intorno agli anni Venti del Quattrocento aveva dipinto le sale dal Castello di
Pavia, distrutte nel 1527 dall’esercito francese: “verso il parco […] dipinse con bellissime figure, le quali
rappresentavano caccie et
pescagioni at giostra con altrj vari dipinti”
come descrisse nel 1570 Stefano Breventano. L’approccio iconografico è quasi sicuramente da mettere in
relazione con l’attività pavese dell’artista pisano, mentre attribuire
addirittura gli affreschi di Palazzo Borromeo al Pisanello,
come sostenuto dagli studi – oramai sorpassati – del Consoli,
appare davvero insostenibile. E’ altrettanto certo, in ogni caso, che l’11
maggio 1440 Pisanello era nella città
viscontea anche se non è giunta a noi alcuna sua opera certa in Milano. In ogni
caso sulla dibattuta, e mai risolta, questione attibuzionistica
ritorneremo dettagliatamente nei prossimi paragrafi.
Fig. 3 – Il Gioco dei Tarocchi - Particolare.
Per quanto riguarda il tema iconografico dei Tarocchi,
esso era invece molto diffuso nella corte visoscontea;
in particolare sono giunti sino ai nostri giorni tre eccezionali mazzi
quattrocenteschi: il mazzo Brambila oggi
conservato presso la
Pinacoteca di Brera, il mazzo Colleoni
(fu smembrato e diviso tra la Biblioteca Pierpont-Morgan a New York, l'Accademia
Carrara la collezione privata della famiglia Colleoni
di Bergamo) e infine quello Visconti di Modrone
(presso la Biblioteca
della Yale University di New Haven). Secondo Sandrina
Bandera, dietro un semplice gioco cartaceo si cela un profondo
contenuto esoterico ed alchemico: i cinque giovani Borromeo infatti più che
partecipare ad un semplice “passatempo” sembrano immersi in una atmosfera
filosofica nella quale anche i gesti più semplici sono pensati e meditati. Occorre
ancora rimarcare come “il trionfo petrarchesco di Cupido sugli Dei e sugli Uomini è rappresentato dalle carte della
Papessa, del Papa, dell’Imperatore e dagli Amanti” (Sandrina Bandera); il Petrarca
soggiorna a Milano tra il 1353, voluto da Giovanni Visconti e il 1361, protetto
sia da Galeazzo II che da Bernabò Visconti. Dunque
una figura fondamentale nel contesto culturale della città e che ebbe grande
influenza anche in ambito artistico. Uno dei temi degli affreschi, come
vedremo, di Palazzo Borromeo era proprio quello del Triumphum Cupinidis tratto dai Trionfi del
Petrarca, dipinto da Michelino da Besozzo come
dimostra il pagamento di sedici lire, estratto dai Libri Mastri Borromeo, del
20 dicembre 1445. Non è quindi azzardato pensare ad un filo
conduttore che lega gli affreschi delle varie stanze, filo oggi purtroppo
completamente perduto, ed in particolare che unisca il tema petrarchesco con
quello dei Tarocchi. Rimando in ogni caso all’intervento, su questo volume, di
Cristiano Dognini, sul tema iconologico dei Tarocchi
in ambito visconteo.
La resa volumetrica, unita alla grande raffinatezza dei
personaggi emerge in modo ancora più perentorio nella scena centrale della
stanza, quella dedicata al Gioco della
Palmata ; qui l’elemento
cardine della scena è la bellissima giovane che, posta in posizione
baricentrica, gioca con gli altri giovani Borromeo (i medesimi protagonisti dei
Tarocchi) esaltando il gusto
aristocratico della scena.
Fig 4 – Il Gioco della Palmata.
Fig. 5 – Il Gioco della Palmata - Particolare.
In particolare la straordinaria fattura dell’abito della
giovane rimanda rimanda direttamente ad un altro
fondamentale cantiere pittorico lombardo di metà Quattrocento, di ben maggiori
dimensioni: la decorazione della Cappella di Teodolida
eseguita a partire dal 1445 dalla bottega degli Zavattari.
La fabbrica monzese, nel suo complesso, rappresentava per i Visconti, uno dei
cardini della loro ”politica artistica”: l’ambizioso progetto di Gian Galeazzo
Visconti di conquistare buona parte della penisola, progetto che naufragò con
la morte del gran Duca di peste nel
1402, era rappresentato metaforicamente dalla corona ferra conservata nel Duomo
monzese e per secoli usata per l’incoronazione del Re d’Italia.
Dunque, con la macchina
del Duomo di Milano, ancora in embrione è evidente che il Duomo di Monza
catalizzasse gli interessi degli artisti lombardi, diventando, soprattutto dopo
l’esecuzione del ciclo degli Zavattari un punto di
riferimento imprescindibile per tutta la corte viscontea. Dunque il riferimento
più evidente è tra la dama al centro del Gioco
della Palmata e i tre giovani in primo piano nella scena ventuno del ciclo
monzese, Le nozze di Autari
e Teodolinda vengono festeggiate a Verona. Il confronto tra la veste delle
due dame e i vari personaggi di contorno dimostra una decisa affinità, più che
stilistica sicuramente iconografica: anche dal punto di vista di una ipotesi di
datazione non si può non tenere conto della assoluta similitudine tra le vesti
e le acconciature. Secondo il Consoli, fu il pittore zavatteriano a prendere spunto dal Maestro dei Giochi
(naturalmente secondo lo studioso, essendo il grande Pisanello
l’autore del ciclo Borromeo, si deve applicare la regola ubi
major…), in realtà, secondo il mio parere, il rapporto di dipendenza si deve
capovolgere.
La Algeri, inoltre, attribuisce al cosiddetto II Maestro di Monza la ventunesima scena,
mettendo in evidenza come la formazione di questo maestro sia decisamente più
avanzata di quella del I Maestro (Francesco Zavattari?):
sia passa infatti da una matrice che fa decisamente riferimento a Michelino da Besozzo ad una seconda che invece amplia i propri orizzonti
artistici, includendo anche le novità importate dal Pisanello.
Tale ascendenza viene ulteriormente ampliata dal Maestro dei Giochi,
innestandola su un nuovo binario artistico, allineandosi alla ritrovata
volumetria dell’oramai anziano Michelino, ma soprattutto, come detto seguendo
gli indirizzi di Leonardo da Besozzo e della
miniatura di Belbello da Pavia.
Riamane inoltre da quantificare l’apporto che ebbero gli
affreschi di Castiglione di Masolino
da Panicate su questo contesto in rapida evoluzione: Milva Bollati ritiene che
tale apporto si sia limitato “ad una affinità di costume più che di stile” e tale giudizio viene ribadito autorevolmente dal Boskovits che, in occasione della mostra del 1988, Arte
in Lombardia tra Gotico e Rinascimento scrisse: “ I cicli di Castiglione, pervenutici quasi
intatti, sembrano infatti pesare molto soprattutto perché compaiono in un
contesto dove le testimonianze della contemporanea pittura monumentale sono
ridotte a pochi frammenti. Ma se riusciamo ad immaginarci Milano come doveva
apparire nel 1435, con le sue chiese ancora tappezzate con affreschi di gusto
tardo gotico e con i suoi palazzi signorili ornati di grandiosi cicli murali il
quadro ovviamente cambia”. Dunque una presenza, quella di Masolino, importante ma non fondante che si inserisce in un
contesto in mutamento, ma in ogni caso, già maturo ed originale; tale approccio
è ribadito anche in campo architettonico dove “risulta un quadro di una realtà complessa, con un intreccio di idee e
di fatti che non è possibile ridurre alle schematiche contrapposizioni (care a
studi storici datati) tra conservatorismo e avanguardia; tra espressioni anacroniste ed espressioni aggiornate, tra anticipazioni e
ritardi; tra maniera “gotica” e stile rinascimentale; la continuità e il
rinnovamento non sono stati a Milano scelte antitetiche ma dialettiche” (L.
Patetta).
Il tema iconologico della Palmata è, insieme a quello del Gioco
della Palla, una tipica “facezia”; gioco aristocratico che coinvolgeva
soprattutto i giovani rampolli e che ha una lunga tradizione medioevale: nel
1548 Ludovico Domenici pubblica un “bel libretto” nel quale
racconta una di queste facezie in casa de’ Medici. Si tratta di una palmata (in pratica una specie di
schiaffo del soldato) che aveva come protagonisti Piero di Lorenzo (figlio del
Magnifico), Ginevra de’ Benci (rimasta famosa per uno
straordinario ritratto del giovane Leonardo) e il maestro di Lorenzo (con ogni
probabilità il Poliziano). Dunque in Palazzo Borromeo gli ospiti venivano
coinvolti in un gioco “confidenziale” nel quale, non è superfluo ricordarlo,
emerge ancora una volta lo status sociale e l’importanza nel ducato visconteo,
della famiglia Borromeo.
L’ultimo affresco, sulla parete di destra ha come soggetto
il Gioco della Palla e
protagoniste sono le dame Borromeo; in questo caso assistiamo ad una vera e
propria parata di volti, abiti e acconciature.
Fig. 6– Il Gioco della Palla.
Il Gioco in se stesso passa volontariamente in secondo piano
rispetto alla maestosità e alla magnificenza di queste dame; è davvero grande
il rammarico di non poter vedere l’affresco con i colori e con le decorazioni
originali.
Il centro della scena, questa volta, è occupato da un altro
paesaggio lacustre; probabilmente il riferimento più probabile è alla città di
Arona, sul Lago Maggiore che venne donata a Vitaliano Borromeo, per i servigi
resi a Filippo Maria Visconti, nel 1440, feudo di cui lo stesso Vitaliano
divenne conte nel 1445. Inoltre, dopo la morte di Filippo Maria,
durante il breve interregno della Repubblica Ambrosiana, Vitaliano acquistò,
nel 1447, anche la Rocca
di Angera, proprio di fronte ad Arona: quindi
l’affresco, probabilmente, oltre a descrivere una facezia, voleva anche celebrare la straordinaria carriera del
Borromeo. Il possente impianto stereometrico delle figura, i loro gesti
ieratici, il tondo dei volti fanno pensare ad una ispirazione più masoliniana rispetto alle due scene presenti. Nel lontano
1927, Roberto Longhi scrisse: “si noti
persino come , nelle vicinanze di Masolino, un
pittore forse lombardo, appoggiandosi a null’altro che alle fogge di costume e
al cerimoniale dei giochi di società ci desse, negli affreschi di Palazzo
Borromeo a Milano, scene di una tale spaziosa gravità da precorrere, senza pur
renderne ragion d’arte, alcuni modi degli affreschi di Arezzo”.
Un riferimento audace ma di indubbio fascino, tra il gruppo di dame di casa
Borromeo e alcuni passi della Leggenda
della Vera Croce, dipinta da Piero della Francesca nell’abside della chiesa
di San Francesco ad Arezzo. Naturalmente, in questo caso, il modello di
partenza, per entrambi i cicli, sono gli affreschi di Masolino
da Panicale nella Collegiata e nel Battistero di Castiglione Olona.
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