Mediolanum augustea
di
Maria Grazia Tolfo
Sommario
L'ascesa di Ottaviano
Il piano regolatore augusteo
La classe dirigente
Edilizia civile
La popolazione civile e militare
La religiosità gallo-romana
L’ascesa
di Ottaviano
Mediolanum non perdonò a Cesare le sue ambizioni regali e non appoggiò, almeno inizialmente, il principato di
Augusto, manifestando le sue simpatie repubblicane anche dopo che, con Filippi, le libertà sembravano definitivamente perse. L’ipotesi avanzata da Emilio Gabba è che questa
posizione politica sia stata sollecitata dalla presenza massiccia di membri dei ceti senatorio ed equestre che avevano fatto investimenti terrieri e gestivano attività
commerciali nell’area transpadana. Comunque, volenti o nolenti, è con Ottaviano Augusto che ricomincia la storia di Roma.
Dopo la vittoria di Azio (Grecia Occid.) nel 31 a.C., Cesare Ottaviano riuscì a farsi assegnare tutte le
magistrature dello Stato: con la potestà tribunicia ebbe l’inviolabilità, con la dignità di principe del Senato ebbe il privilegio di parlare per primo e dirigere il Senato;
con la carica di console esercitò il potere esecutivo; come proconsole ottenne il governo delle province e il comando dell’esercito; con quello di censore promosse i
censimenti e le epurazioni del Senato. Il titolo di Augusto (degno di venerazione e onore) che gli conferì il Senato era come il Felix
di Silla o il Magno di Pompeo.
La “rifondazione imperiale”
Molte
volte, nel corso della storia, i Romani hanno conosciuto il terrore di una fine imminente della città, la cui durata - nella loro credenza - era stata decisa nel momento stesso
della fondazione, quando Romolo aveva visto 12 avvoltoi in volo.Il problema era interpretare questo numero. A 120 anni dalla fondazione ci si aspettava la fine (età di Tarquinio Prisco) ma non successe niente e nemmeno dopo un
grande anno (365 anni), che cadde nel 388 a.C. - con l’invasione dei Senoni - Roma scomparve. Augusto instaurò una pax
aeterna e rifondò Roma attraverso l’impero. Ogni città romana venne rifondata e la costruzione di edifici a immagine di quelli di Roma divenne la principale
preoccupazione degli edili, che realizzarono mercati, magazzini, officine, fontane, terme, ninfei, teatri, odeon, circhi, giardini e piscine. Il mantovano Virgilio sostituì l’ultimo saeculum,
quello del Sole, che doveva provocare la combustione universale, con il secolo di Apollo.
Nell’Eneide
(1, 255 e ss.) Giove, rivolgendosi a Venere, le assicura che non fisserà ai Romani nessuna specie di limitazione spaziale o temporale. Solo dopo la pubblicazione dell’Eneide
Roma fu considerata urbs
aeterna e Augusto fu proclamato il secondo fondatore della città.
Il
piano regolatore augusteo
Il circuito delle mura
La pianta di Mediolanum meglio individuata è quella con i
vertici di un quadrato posti lungo i punti cardinali. E’ ritenuta rappresentare il primo piano regolatore, ma a ben guardare questa pianta inscrive quella precedente, con dei
lievi aggiustamenti ai vertici. Il lato di questo nuovo quadrato è di ca. 25 actus
(885 m), con un perimetro approssimativo di quasi 4 km.
In base ai reperti di ceramica individuati negli scavi intorno al perimetro delle mura, il nuovo piano
regolatore è datato tra la fine del I sec. a.C. e l’inizio del I sec. d.C., quindi in epoca augustea, quando per motivi soprattutto catastali il municipio entrò a far parte
della XI
Regio Transpadana (Lombardia Occ. e Piemonte Sett.).
Riprendiamo il nostro ragionamento ipotetico-deduttivo. Al momento dell’entrata nell’orbe romano, Mediolanum
si diede un primo piano regolatore che ricalcava una centuria di 23 actus
di lato ed era in asse con la maglia della centuriazione del territorio. Per inglobare nel pomerio l’oppidum
celtico, dopo che Ottaviano Augusto proibì la religione dei druidi, e per orientare la città secondo le sue coordinate tradizionali lungo gli assi intermedi si optò per un
nuovo piano regolatore, la cui definitiva realizzazione richiese probabilmente parecchi anni.
Nelle mura
si aprirono porte e pusterle, per raccordarsi alle quali le primitive glareate
e le strade romane del primo piano regolatore dovettero piegare leggermente,
conferendo alla rete viaria quel aspetto marcatamente centrifugo, che non si
spiega altrimenti. I vertici del quadrato coincisero grossomodo con i punti
cardinali.
La novità maggiore dal punto di vista del cambiamento culturale consistette nell’inglobamento del santuario
celtico nel pomerio romano. Le mura ora passavano sopra l’ellisse, come fu notato già alla fine dell’Ottocento:
Guardando
la pianta della città si può sospettare che un tratto delle mura corresse da
via Andegari a quella del Morone lungo S. Paolo e S. Martino, e ciò perché
molte vie esterne a tale linea non continuano verso il centro.
L’ellisse copriva un’area simile all’accampamento stabilito da Tiberio e dal suo prefetto del pretorio Seiano tra il 20 e il 23 d.C.: un campo di m 440 x 380 (16,72 h)
capace di contenere circa 6.000 uomini, per cui verrebbe da pensare che, quando Mediolanum fu innalzata al rango di capitale, almeno
una parte delle coorti pretorie fosse sistemata nell’ex oppidum celtico, ma a sostenere questa supposizione c’è solo la frase
sibillina dei nostri storici relativa all’arengo, “capace di contenere tutti i soldati d’Italia”.
Le mura del secondo piano regolatore di Mediolanum
sono in arenaria a spacco di cava e
mattoni; avevano uno spessore di 6 piedi, corrispondente a quello delle mura augustee di Fano: 7 piedi alla base e 6 in alzato. Quelle repubblicane di Aquileia avevano uno
spessore maggiore, 8 piedi; quelle aureliane di Roma del 270-275, raggiungevano addirittura i 12 piedi (3,50 m) ed erano alte 20 piedi (5,85 m). Tutto intorno al perimetro
passava, all’interno delle mura, un pomerio di 20 piedi.
E’ stata fatta notare l’inadeguatezza delle tecniche murarie romane tradizionali rispetto alla natura del
terreno milanese, perché i tratti di mura urbiche conservate si presentano costantemente fuori piombo. Questo dato è interessante come segnale o dell’intervento di maestranze
venute da fuori e quindi poco esperte della geomorfologia milanese o dell’impiego di maestranze locali poco esperte di tecniche edilizie romane. In ogni caso si coglie in atto
il passaggio della cultura della città insubre a quella della città romana. La cultura era rimasta ancora molto celtica e una testimonianza dell’uso del leponzio come scrittura è rimasta da un graffito fatto proprio sulle mura augustee
(via S. Vito 18) che riporta tra l’altro il nome di Mesiolano.
Le porte urbiche
Per capire
come dovevano essere le porte nelle muove mura di Mediolanum possiamo prendere ad esempio la Porta Pretoria di Aosta o quella Palatina di Torino, di età augustea,
poiché esisteva per volontà di questo imperatore una scuola di
architetti-urbanisti che uniformava i modelli, come sotto qualsiasi regime
totalitario.
Le porte erano a due fornici, con torri poligonali ai lati. La chiusura era duplice: una porta a due battenti
all’esterno, una saracinesca all’interno che scorreva dall’alto in basso entro una scanalatura e bloccava subito l’accesso in caso di emergenza. Al primo piano erano le camere di manovra che si aprivano sul camminamento.
Le porte avevano spesso il nome della via su cui uscivano. A Mediolanum
sono note la Porta Comasina per Como, la Romana per Lodivecchio (in direzione per Roma),
la Vercellina
per Vercelli-Novara, la
Ticinese per Ticinum
(Pavia) e l’Argentea
(Orientale) per Argenta (?). Fa eccezione la porta sull’area dell’attuale Castello Sforzesco, che si chiamò Giovia
tradizionalmente in onore di Diocleziano Giovio nel 286 d.C., ma esiste una lapide (C.I.L., V, 5872) che cita un Collegium
iumentariorum portae Vercellinae et Ioviae
che può fornire un’indicazione per la datazione. Lo stesso discorso vale per la porta Erculea,
in onore di Massimiano Erculeo, aperta sull’area dell’attuale Verziere in direzione di Lambrate. La porta mutò nuovamente nome alla fine del IV secolo, quando si aprì sulla
strettoia derivata dalla costruzione dell’antemurale di Stilicone e si chiamò Tonsa
(Tagliata).
Cambia anche il sistema di rapporti con l’esterno: la Porta Ticinese, prima aperta sulla strada che
conduceva all’area cultuale di S. Vincenzo-S. Calogero e da qui verso Vigevano, si orienta ora verso Pavia. Considerazioni analoghe andrebbero fatte anche per altre porte.
Il
Versum de civitate Mediolani,
composto nel secolo VIII, descrive la città come si presentava in quel
momento:
E’ circondata da torri elevate e coperte con tetti. All’esterno sono decorate con sculture di grande pregio, mentre verso l’interno vi si
trovano addossati vari edifici. La larghezza delle sue mura misura 12 piedi [4,5 m]: l’ampio basamento consta in pietre squadrate, mentre nella parte superiore le rifiniture
sono elegantemente eseguite coi mattoni. A ridosso delle mura la città possiede nove
pregevoli porte, bloccate da ingegnosi sistemi di chiusura in ferro; davanti ad esse si trovano particolari opere di difesa a baluardo dei ponti elevatoi.
Le mura mediolanensi mandarono in visibilio gli storici patrii, che le
attribuirono senza ombra di dubbio al console Marcello. Seguiamo la narrazione
del Besta:
Venuto poi a Milano in poder de’ Romani l’anno 1150 dalla fondazione sua [dal diluvio universale], per ordine di quel senato da Marco Marcello
console di questa provincia, non sole le fu restaurata quella muraglia, ma fu et aggrandita et abellita di publici edificii e chiamata la seconda Roma. Il circuito di questa
nuova cinta e muraglia fu di quindici miglia; era la sua grossezza di trenta piedi, alta chi scrive ventiquattro, chi settantaquattro et altri ottanta et li erano compartite
trecentosessantacinque torri et secondo altri trecentodieci, alte rotonde e con molta vaghezza et artificio fatte; et vi si entrava per trentasette porte. Dentro questo circuito
fu fatta una cittadella di sito non più che due miglia, con mura non molto grosse né alte. Questa haveva sei porte et ciascuna di esse un palazzo rotondo et sopra un’alta
piramide un idolo: al qual ogn’un ch’entrava nella città doveva inchinarsi e far riverenza sotto pena della vita. Nanti a queste porte furono fatte alcune difese triangolari
et alte, che chiamarono anteportali.
All’epoca di Marc’Aurelio, quando Quadi e Marcomanni presero d’assalto Aquileia, si ritenne opportuno
rinforzare le mura. Anche Gallieno aveva condotto ben cinque campagne contro i nuovi invasori, tra il 254 e il 259, utilizzando una difesa elastica poggiata non più su di un limes ma
su Milano, Verona e Aquileia. Datano a quest’epoca le torri
quadrate del perimetro murario rinvenute in via Monte di Pietà, una delle quali divenne il campanile del monastero longobardo detto di S. Maria d’Aurona o Orone.
Il fossato navigabile
Il muro a sud dovette fare i conti con il letto del Seveso e si scese a un compromesso: ne seguì la
curva, assecondando la quota altimetrica, ma il fiume venne canalizzato e reso navigabile da piccole imbarcazioni. Per non disperdere l’acqua, si dovettero bonificare i pantani
meridionali e creare un fossato che circondasse tutta la città. Finora sono emerse le banchine su palizzate di piazza Fontana e di via Larga. La banchina era larga m 2,50, in lastre di serizzo posate su palificazioni di rovere alte m 2,50, conservate al
Museo del Legno presso il Museo della Scienza e della Tecnica. La banchina di via Larga distava circa 14 m dalle mura, delle quali era parallela. Sul porticciolo prospettava una torre, adibita forse alla sorveglianza delle barche ormeggiate o a magazzino di derrate statali.
In piazza S. Babila all’acqua del Seveso si aggiungeva anche l’Acqualunga, derivata con un canale forse
dal Lambro. Da nord venne derivato il Piccolo Seveso, che al Ponte Vetero si immetteva nel fossato delle mura.
Il foro augusteo
Se Cesare istituì il modello del foro, fu con Augusto e i suoi architetti-urbanisti che questo modello si
diffuse in tutte le province. Nascono con lui i progetti di pianificazione urbana con foro, campidoglio, templi, luoghi di cultura e spazi ludici. Le altre città devono
rispecchiare, in scala ridotta, l’immagine di Roma. Il foro di Augusto fu iniziato a Roma nel 31 a.C. e inaugurato nel 2 a.C.. Misurava 125 m x 85 m e il suo santuario era
dedicato a Marte Vendicatore. Una delle principali caratteristiche di questo foro risiede nelle due ampie esedre semicircolari ai lati della facciata del tempio, con funzione di
basiliche per occasioni onorifiche, con sale di funzione commemorativa. Le statue dei grandi antenati collocate nelle esedre vengono quasi ad assumere il ruolo di programma
politico: a sinistra Enea, il padre Anchise e il figlio Ascanio; a destra Romolo.
Il secondo piano regolatore di Mediolanum, augusteo, ebbe il suo
foro all’incrocio dei due nuovi assi viari principali: l’antica via in uscita da Porta Ticinese, che verrà definita impropriamente
cardo, e la più recente via S. Maria Fulcorina-corso di Porta Romana, che verrà chiamato decumano. La via glareata per Laus
Pompeia venne ampliata, passando da 20 a 27 piedi e lastricata con basoli. L’incrocio avvenne sull’area dell’attuale piazza
S. Sepolcro, fatta oggetto di recenti scavi per la sistemazione dell’Ambrosiana.
Il
modello del foro augusteo richiedeva portici
sui due lati lunghi, che affiancavano di solito il decumano. Su uno dei lati corti era la basilica con un’abside all’estremità,
che da noi non è stata neppure rintracciata. La basilica era dotata di una fila di uffici sul retro, un tribunal
talora absidato a ciascuna estremità e un solo ingresso sul foro.
Sul foro prospettava la curia, identificata in via ipotetica con l’edificio
rinvenuto nel 1938 tra piazza S. Maria Beltrade e via Torino in occasione della costruzione del palazzo della RAS. E’ un edificio rettangolare di 35 m x 20 m nella parte
riaffiorata, ma di dimensioni notevolmente maggiori, datato intorno al I sec. d.C. La tecnica edilizia è caratterizzata da ciottoli fluviali allettati a mano nella malta a
formare bande alternate con mattoni. Secondo altre ipotesi - per noi più interessanti, perché la curia dovette rimanere sempre al Cordusio - l’edificio poteva essere anche un mercato,
articolato su un grande cortile centrale. Davanti all’edificio era emerso nel 1898 il basamento di una colonna di marmo di 1,20 m di lato con un diametro di 85 cm all’origine
del fusto, quindi una colonna colossale. La struttura era comunque affiancata da una costruzione rotonda che nel 687 venne dedicata a S. Maria dal re longobardo Bertarido, da cui il titolo di S. Maria Bertheradi (Beltrade). Il fatto che qui si accendessero i ceri al 2 febbraio alla festa della Candelora fa ritenere che anche l’edificio originario fosse un tempio
dove si conservava il fuoco sacro della città, dedicato a Vesta. L’aedes di Vesta aveva sempre una pianta circolare perché non poteva essere orientata. La casa di Vesta era vicino alla
curia cittadina, perché “la forza mistica delle virgines
- la sospensione indefinita del meccanismo della fecondità, che portano in sé, una repressa e pertanto concentrata maternità”, era la garanzia della durata delle funzioni degli amministratori della res publica.
Sul foro
prospettava altresì una tribuna
per i comizi. La piazza era pavimentata con lastre di marmo di Verona, una
parte delle quali è conservata nella cripta della chiesa del S. Sepolcro. A
una di queste costruzioni appartiene il frammento di fregio in cui si vedono
Mercurio e Minerva che seguono un corteo, dove erano forse anche gli altri
dei.
Via S.
Maria Fulcorina che immetteva nel foro venne anche adeguatamente fornita di
portici. Le strade porticate di per
sé non erano sinonimo di eleganza, ma di ampiezza e quindi di importanza sì.
Gli eleganti reperti di pavimenti musivi rinvenuti nella zona intorno alla via
porticata indurrebbero a credere che qui si trovassero i quartieri più
aristocratici.
La classe dirigente
La magistratura municipale
I consigli
municipali erano un Senato, detto curia,
formato da decurioni, il cui numero
variava a seconda della grandezza di ogni municipio. I decurioni costituivano
un consiglio di magistrati che controllava la vita pubblica della comunità.
Poiché la ricchezza tendeva a restare sempre nelle stesse famiglie, i
notabili municipali divennero una classe ereditaria. Ogni città aveva i duo-viri
annuali sul modello del consolato per la presidenza della curia e quelli
quinquennali per mansioni speciali, come il censimento. Fino a tutto il II
sec. la plebs cittadina elesse i magistrati con normali elezioni, poi solo
su designazione imperiale. I magistrati si occupavano della realizzazione
delle opere pubbliche, che spesso rimanevano incompiute per carenza di fondi.
Fra le magistrature ce n’è una che è particolarmente rappresentata nel materiale epigrafico e si riferisce
ai seviri, una carica pubblica modesta ma di prestigio per i rampanti liberti.
I seviri seniores e gli augustali
Il
sevirato era una magistratura municipale onoraria, per liberti arricchiti, che dava un certo lustro nelle città di provincia e comportava l’organizzazione di pubbliche feste,
tra cui i giochi
gladiatori, il cui alto costo diveniva una testimonianza tangibile di ascesa sociale. I
seviri erano eletti annualmente dai decurioni, dietro deposito di un'ingente summa
honoraria ed erano organizzati in un collegio e il quaestor
gestiva la cassa comune (arca). Il problema del sevirato è piuttosto complesso, perché la carica era mista con altri uffici, quali l’augustalità.
Augusto ammise i liberti all’augustalità per potenziare la propaganda imperiale nei municipi, favorendo una commistione fra
sevirato e augustalità. Capita inoltre di trovare magistrati che esercitano a Milano e anche in altre città, come C. Cornelio Rufo, seviro a Milano e quattuorviro a Lodi (CIL
5856) o Q. Audasius Acmazon seviro augustale
c(ultor) d(omus) d(ivinae) Mediolani e a Foro Popilii (CIL 5749). Il sevirato fu in gran voga in età augustea e declinò verso la fine del I sec. d.C., scomparendo del tutto nella prima metà del II sec.,
per cui le epigrafi ritrovate sono di facile datazione.
Il seviro
prefetto iure dicundo era un funzionario
incaricato di prendere occasionalmente il posto dei VI-viri
fino alle nuove elezioni.
I seviri iuniores
L’organizzazione degli iuvenes
evoca una sorta di milizia locale: queste associazioni raggruppano figli di notabili e giovani di più umile condizione ai quali è stata data un’educazione sportiva tinta di
militarismo. Onoravano in maniera particolare Marte. I seviri iuniores
milanesi pervenivano con una certa frequenza alle magistrature municipali, come ad esempio L. Valerio Virillione, la cui lapide (CIL, V, 5896) è stata rinvenuta presso S. Marco
nel fossato urbano.
Legato ai
seviri iuniores è da interpretare
lo spectaculum che i nostri
storici hanno posto al Prato comune di Monforte:
Spectaculum
erat quedam magna platea ad quam pueri parvi confluebant certis temporibus, ad
diversos ludos peragendos, aut archu sagittas emitendo vel astas librato
pondere iaciendo, vel laterum complexu se prosternendo, vel saltu altiori, vel
longiori prosiliendo. Et erat iste locus ubi nunc est pratum comune.8]
L’amicus Augusti
Da
S. Protaso ad
monachos è emersa la lapide di C.
Sentio Quadrato, detto clarissimus
vir e amicus Augusti.Era un personaggio molto in vista, al quale era permesso di intrattenere con l’imperatore rapporti personali e di essere ammesso al ricevimento del mattino. Nel suo consilium
principis, fatto per togliere sempre più il potere esecutivo dalle mani dell’ordine senatorio, Augusto fece entrare parecchi amici. Dalla cerchia degli amici venivano
scelti i comites.
Gli amici che accompagnavano l’imperatore dimoravano con lui, partecipavano anche senza invito alla mensa imperiale, venivano salutati con un bacio, portavano un anello d’oro
con il ritratto dell’imperatore; era invalso l’uso che, morendo, lasciassero un legato all’imperatore (abolito con Costantino).
Comes indica inizialmente il “compagno di viaggio” e diventa nel IV secolo sinonimo di minister.
I governatori delle province incaricati della giurisdizione civile e criminale portavano seco dei compagni (comites) che li assistevano.
Da ciò l’uso di formare una specie di coorte di giovani di buona famiglia, che finiti gli studi di diritto facevano così i primi passi della carriera pubblica. Nell’impero
appartenevano alla classe degli equites, ma vi si trovavano anche giovani di ordine senatorio. Non avevano attribuzioni speciali, né
poteri, ma erano solo consiglieri. le spese del loro mantenimento erano a carico dei comuni, sotto l’impero vennero pagati dallo Stato. Dai governatori delle province
derivarono i comites
Augusti, titolo che indicava uomini esperti negli affari.
Gli
edifici pubblici
Il teatro
All’età augustea risale anche la costruzione del primo teatro in muratura, collocato nella maglia di questo
primo piano regolatore NS-EO. Il prof. Mirabella Roberti sostiene che il teatro fu forse voluto dallo stesso senato della città, l’ordo
decuriorum, per festeggiare la recente promozione sociale della città nel mondo romano.
Pompeo fu il primo a finanziare nel 54 a.C. a Roma un teatro in muratura, fermo restando che
continuarono ad esistere teatri meno monumentali e in legno. Sul modello del teatro pompeiano si provvide un po’ ovunque a innalzare, a spese della comunità o di qualche
munifico personaggio, un teatro in muratura. Di quello mediolanense ne restano visibili solo le imponenti fondazioni dei muri radiali nei sotterranei della Borsa in piazza degli
Affari, dalle quali si ricavano le misure: diametro di 320 piedi (93,6 m), profondità di 245 piedi (71,6 m), alto almeno 20 m sul piano dell’orchestra e con una capienza di
7-8.000 persone. I pilastri che reggevano le arcate non hanno né lesene né semicolonne e sono in ceppo o puddinga della Brianza. Della scena sono rimasti solo spezzoni di colonne
scanalate; si può riconoscere il fossato per l’aulaeum (il sipario che saliva dal basso) e qualche traccia del porticus
post scaenam, il porticato che orlava la facciata dell’edificio. Il teatro rimase in funzione almeno fino alle distruzioni del
Barbarossa, poi i pezzi vennero utilizzati come materiali da costruzione, ritrovati negli scavi delle vie adiacenti.
L’edificio aveva annesso il deposito dei velari
(toponimo ad linteum), non solo perché a teatro ci si andava di giorno ed era indispensabile ripararsi dalla pioggia o dal sole
inclemente, ma anche per regolare gli effetti acustici. Alla loro difficile manovra erano addetti i marinai del lago di Como, citati in una lapide come collegio presente a Mediolanum.
Sul deposito sorse la chiesetta di S. Pietro e Lino, una storpiatura di ad
linteum e sul teatro sorse la chiesa di S. Vittore al teatro, ricordata come tappa nella Passio di S. Vittore.
Uffici amministrativi e città annonaria
Per
quanto riguarda gli edifici dell’amministrazione pubblica è probabile che i rappresentanti dell’amministrazione imperiale su tutto il territorio a nord del Po risiedessero a
Milano, come ad esempio il legatus Augusti pro pretori regionis Transpadane, carica che compare sotto Traiano.
A Roma tra gli edifici connessi con la riforma urbanistica di Augusto c’è la caserma (statio)
della I coorte dei vigili: stationarii
e burgarii sorvegliavano strade e mercati e svolgevano funzione di controllo ascoltando quello che si insegnava nelle scuole. A Mediolanum
il collegio dei centonari e dei fabbri fungeva da corpo di vigili del fuoco, grazie ai centoni - gli spessi drappi con cui si soffocava il fuoco. Il Sormani possedeva un’epigrafe
così concepita:
Centuria
Centonariorum dolabrorum scalariorum L(ocus) D(edit) D(ivus) C(aesar).
Il collegio, al quale appartenevano anche gli operai, era organizzato per
centurie Il Romussi così la commenta:
aggregati alla milizia, i centonari fabbricavano
abiti, tende militari e coperte destinate a estinguere incendi e a proteggere
i soldati dalle frecce nemiche (secondo quanto narra Cesare nei suoi Commentarii).
Il Catabulum, che a Roma
era la sede del cursus
publicus, ossia la posta centrale, aveva un corrispettivo a Mediolanum? Il Tabularium, l’archivio di Stato costruito a Roma da Silla tra il 92 e il 79 a.C., aveva un corrispettivo milanese? I druidi
non usavano la scrittura per
trasmettere la memoria storica, ma una volta entrata nell’orbita romana, come si regolò la metropoli celtica?
Molte altre sono le domande rimaste senza risposta riguardo all’organizzazione della vita milanese: ad
esempio, com’era organizzata la città
annonaria?
Dov’era il deposito del sale, monopolio di stato già da allora? Da dove e come arrivava a Mediolanum?
Il sale serviva in grandissime quantità non solo per insaporire gli alimenti, ma soprattutto per conservarli e anche per la lavorazione del cuoio, che ne richiedeva un cospicuo
impiego. Dov’era il foro
Boarium? Il foro Holitorium fu sempre nell’area del Verziere? C’era un apposito mercato per gli schiavi? Sappiamo che davanti
ai carruces
delle porte Giovia e Vercellina, come davanti a tutte le altre porte principali, stazionavano i facchini e i trasportatori, che formavano una corporazione molto potente.
Come si svolgeva la vita in questa città ancora celtica? Probabilmente non ci fu mai a Mediolanum
la luce, il frastuono, la vita proiettata all’esterno di una città mediterranea. Forse il carattere un po’ introverso di Milano si è mantenuto nei secoli anche a causa del
clima che è rimasto pressoché inalterato.
C’era indubbiamente molto traffico di venditori ambulanti: i libelliones
vendevano libri usati; gli esercenti delle popinae, gli spacci di vivande calde, e i salarii
(salumieri) mandavano in giro i loro garzoni; mercanti di stuoie e tappeti ingombravano perennemente la carreggiata; alcune strade erano invece specializzate, come a Roma l’Argiletum,
dove convivevano librai e calzolai, poiché entrambe le categorie avevano la pelle conciata come materia prima. Le più famose scarpe a Roma erano quelle celtiche, di cuoio ma
anche di legno, come la gallica, uno zoccoletto. Non sappiamo dove si trovasse il mercato delle calzature in età romana, ma per tutto il medioevo si localizzò nel portico di S. Tecla, vicino
alla via dei librai, S. Margherita.
Mediolanum
ebbe anche le sue industrie, quelle tipiche dei paesi celtici: bronzo, armi, calzature, stoffe, carrozzerie. Risalenti all’età augustea sono un’officina per la fusione del
ferro e una macelleria di carni bovine appena fuori delle mura, in una zona oggi corrispondente a piazza Erculea-via Rugabella. Il canale che correva parallelo al corso di Porta
Romana era diventato una discarica. Le fucine erano pericolose per gli incendi e venivano collocate preferibilmente fuori dalle mura ma in vicinanza di abbondante acqua.
La
prevalenza nell’occupazione è data dalle attività manufatturiere e commerciali, come si ricava dalle lapidi sulle corporazioni (collegia),come quello già citato dei Fabri e Centonari e dei Negotiatores.
La lapide dei Vettii, murata negli archi di Porta Nuova, presenta nel podio la scena della vendita a braccia di un tessuto, per cui sappiamo che C. Vettius era un negotiator sagarii.Esistono a Milano altre lapidi che attestano il commercio dei tessuti.
Si doveva
importare molto: papiro per la carta o pergamena, ceramica, vetro, oggetti
sontuari, pietre da costruzione, sale e spezie. E il trasporto come avveniva?
Coi pesanti carri a quattro ruote tipici del piovoso mondo celtico? Il
collegio degli iumentari di Porta
Vercellina e Giovia si occupava di fornire in affitto veicoli e animali da
soma, e di sicuro anche gli altri carruces
(carrobi) avevano lo stesso servizio.
E’ attestata anche l’industria del bronzo, ricordata in due lapidi che citano il collegium aerariorum,ma disgraziatamente non si è potuta trovare neppure una statua o anche solo comuni oggetti d’uso domestico, perché il bronzo è stato rifuso in
continuazione.
I cereali e le verdure per l’alimentazione da dove venivano? Dove erano distribuiti i mulini per la
metallurgia e per le farine? Quanti forni c’erano?
Stentiamo però ad attribuire a Mediolanum
quelle caratteristiche di Babele che ancora conservano le città orientali, ma anche Napoli e alcuni quartieri di Roma. Qui, al posto dei petulanti mercanti greci o
mediorientali, circolavano in prevalenza barbari, confusi tra i Celti autoctoni. Tutto doveva essere più barbarico a Mediolanum: il vestiario (preferite le brache e le calzature galliche), il cibo (burro al posto dell’olio), le case (coi muri in argilla e la prevalenza di legno), le
strade, spesso solo glareate, le sepolture.
L’aumatium
e il Butinucum
Con
l’aumatium abbiamo memoria di una grande latrina pubblica situata probabilmente intorno al Bottonuto (attuale
piazza Diaz). Galvano Fiamma ne fornisce questa un po’ stereotipata ma
istruttiva descrizione:
aumatium
fuit hedifitium rotundum in centro civitatis fundatum, occultis et transversis
cameris distinctum, purgationi ventris deputatum, quod est in magnis
civitatibus perutile nimis, aliter omnis locus stabulator.
Considerato di solito un edificio indispensabile per la pubblica igiene, solo
G. Giulini lo associò alla naumachia.
Sotto piazza Diaz è stato ritrovato un grande collettore di
fogna, che gli antichi distinguevano dalle cloache, dette cantarane, per scolmare l’acqua piovana. Il Belloni interpretò la
parola Butin-ucum
come un “bottino”, che in idraulica si riferisce a una costruzione sotto l’alveo dei corsi d’acqua per scolare le acque dei terreni più bassi. Questo nome avrebbe un
riscontro nel nome di una località sulla sponda sinistra dell’Adda, Buttanuco (BG), e nei Bottenighi presso Mestre.
Edilizia
civile
Com’era in quei tempi la tipica casa
mediolanense? Poiché dall’analisi epigrafica si ricava che la percentuale di liberti è molto elevata e uguale a quella degli ingenui, è possibile che esistessero anche a Milano case a più piani come a Roma e a Ostia, considerate popolari, anche se inizialmente costruite secondo la tradizione
celtica in legno. Augusto pose come limite massimo per l’altezza delle case d’abitazione 33 m, corrispondenti a 5-6 piani fuori terra. La casa ad appartamenti era un modello
edilizio sconosciuto nel mondo antico, con apertura più verso la strada che non verso il cortile interno, a testimonianza di una concezione urbanistica pianificata, soprattutto
in età traianea. Mentre a Roma l’uso del mattone in fornace trovò impiego soprattutto da Tiberio in poi, in provincia questo uso è testimoniato già in età augustea.
Le insulae
erano così precarie e sovraffollate come quelle di Roma o di Ostia o di minori dimensioni e più vivibili? Mediolanum
non poteva certo vantare la densità abitativa di Roma. Purtroppo non si è ancora riusciti a portare alla luce un’insula per poter stabilire dei raffronti con quelle romane.Secondo un’ipotesi formulata da E. Will, una maglia più fitta d’isolati starebbe a indicare una fondazione romana
più antica. Le colonie della Gallia, posteriori alla conquista cesariana, attestano un modulo per insule variabile tra 100 e 160 metri, contro lo standard di 70 m x 80
m della Gallia Cisalpina, al quale Mediolanum
sembrerebbe adeguarsi.
Poiché era il legno il materiali di costruzione prevalente, data l’abbondanza di alberi nella zona e la
totale assenza di ciottoli di fiume e di pietre da costruzione, non abbiamo quasi speranze che gli scavi ci restituiscano le tracce del mondo celtico: è rimasta solo l’impronta
romana.
La
popolazione civile e militare
Composizione
etnica e sociale
Dalle epigrafi rinvenute a Milano si possono trarre elementi per conoscere i Milanesi dal I sec. a.C.
al II sec. d.C. Il monumento sepolcrale tipico della Val Padana è la stele a più ritratti inseriti in una nicchia come i ritratti degli antenati nei larari domestici, con l’iscrizione
dedicatoria e l’indicazione dell’attività del capofamiglia.
La gens Albucia è di chiara origine celtica ed è tipica
del milanese: M. Albucius Priscus, Albucius Crispinuse Albucius Vindilli, un veterano dell’VIII Hispanica; C. Albucio Silo è l'oratore novarese che nel 15 a.C., davanti alla statua bronzea di Marco Bruto nel foro mediolanense, chiese
più libertà al proconsole L. Pisone.
Numerosissime a Milano e nell’agro la gens Atilia, la gens Cassia, forse la più diffusa su tutto il territorio della Transpadana (59 epigrafi contro le 56 della Valeria e 54 dell’Atilia). Vi erano poi i Novelli, i Sentii, i Virii, uno dei gentilizi più diffusi a occidente dell’Adda,
specialmente a Como, gli Iunii. Quinto Novellio Vatia
dedica una lapide al fratello Caio Novellio Rufo, due cognomina di origine celtica ancora usati in età augustea.
I soldati
L’esercito è alla base della società romana e i Cisalpini continuarono a confluirvi numerosi ancora per il
I sec. d.C. Tra i militari compaiono alcuni veterani: il già citato Albucius Vindilli della VIII Hispana, M. Ennius della III Macedonica, due legioni che scompaiono dopo la riforma di Ottaviano. Il milanese C. Manlio militò nella VIII Augusta, che era stata in Dalmazia, poi in Pannonia, quindi in
Mesia sotto i Giulio-Claudi e infine in Germania a partire da Vespasiano. Anche la IV Scythica nella quale militò S. Octavius era in Mesia, poi andò in Siria con Nerone. I veterani si univano all’ordine dei decurioni entrando nell’ambiente dei notabili.
Ufficiale era il primipilo C. Asinus, qualifica ricoperta da
soldati italici solo fino al I secolo, poi assegnata a provinciali; i signiferi Aurelio Ianuario e Tutilius, quest’ultimo anche aquilifero, erano fra i più alti graduati di truppa della legione. L’aquilifero era il primo centurione della prima centuria del primo manipolo del reparto di veterani e aveva
un posto nello stato maggiore della legione.Ogni legione aveva un’aquila, alla quale veniva reso culto; ogni manipolo (due centurie) possedeva un signum
affidato a un signifer che indicava sempre la direzione da seguire in battaglia e in marcia e che sorvegliava nel campo i depositi di
denaro collocati sotto l’edicola delle insegne. Nel campo vi erano sentinelle specialmente incaricate delle vigilanza dei signa.
Abbiamo poi la lapide dell'eques speculator P. Sulpicio Peregrino, ossia un esploratore a
cavallo appartenente alla tribù Oufentina, morto a 28 anni dopo nove anni di servizio.
I combattenti dovevano ubbidire anche a segnali sonori, come ancora fino a pochi decenni or sono nell’esercito.
In battaglia erano utilizzati soprattutto la tuba
(tromba) che dava i segnali di assalto e ritirata, come anche di partenza dal campo.
Il cornu, una tuba ricurva e rinforzata, suonava per i portatori di signa. L’horologiarius indicava ai musici quando dovevono suonare i cambi della guardia. Anonimo è rimasto il cornicen
missus (suonatore di corno) della XIII Gemina, la cui lapide venne reimpiegata nella ricostruzione della Porta Romana, ma non dobbiamo dimenticare che l’esercito svolgeva
anche funzioni di polizia: stationarii
e burgarii sorvegliavano strade e mercati, facevano la guardia alle prigioni, curavano il servizio postale e proteggevano la raccolta
delle imposte. La smilitarizzazione di questi compiti di sicurezza è del resto molto recente.
I soldati veneravano la Disciplina, alla quale venivano eretti
altari nei campi. I Romani avevano l’abitudine di divinizzare delle astrazioni, come Genius
et Honor; l’uso di giurare per il Genio del principe verrà reso obbligatorio da Domiziano quale prova di fedeltà. L’Onore designava dapprima un atteggiamento
individuale, il rispetto di un codice di condotta, poi espresse la gloria legata sia all’esercizio di una funzione, sia alla frequentazione di un alto personaggio, magari
divinizzato.
Queste
considerazioni ci introducono nel difficile argomento della religiosità
gallo-romana.
La
religiosità gallo-romana
Le epigrafi e le are votive mediolanensi ci hanno trasmesso il quadro di un pantheon simile a quello romano,
eccettuata la strana assenza di dediche a Marte. Al primo posto troviamo Giove, sia nella versione di Giove Ottimo Massimosia in quella di Deus Magnus Pantheus. Nei pressi di Porta Giovia a S. Giovanni sul muro, si è trovata ai primi dell’Ottocento la grande testa di Giove riprodotta nell’illustrazione qui a fianco.
Ercole è presente in tre lapidi, anche come inpetrabilis
e invictus; Silla si era identificato con questo semi-dio, sulle orme di Alessandro Magno. La devozione dei mediolanensi per questa divinità è però dimostrata dalle
lapidi votive emerse nel tempio di Ercole a Lodivecchio, presso la riva dell’Adda: su nove dediche, ben sette erano di mediolanensi.
Mercurio, che a detta di Cesare era la principale divinità celtica, ha un culto documentato; esistevano anche Silvanoe il culto locale alla Fons
Perennis di S. Calogero. A Milano esistevano diversi mitrei, difficilmente collocabili, tranne quello rinvenuto per gli scavi di piazza Diaz. Ne attesta il culto
M. Valerio Massimo, sacerdote di Mitra e studioso di astrologia, la cui stele sepolcrale, rinvenuta sotto i portici di S. Simpliciano, risale alla fine del I - inizi del II
secolo d.C., un periodo molto precoce per la diffusione del culto. Un’altra epigrafe è stata trovata nei pressi di S. Ambrogio; ci informa che P. Acilius Pisonianus ha restaurato uno speleum
mitraico a sue spese dopo che un incendio lo aveva distrutto e il Comune aveva ripulito l’area
Fra le divinità femminili, a parte le già menzionate Matrone, è Diana
a ricevere il maggior culto. Epona è presente in una dedica: è la divinità femminile a cavallo
diffusa in tutto il contesto celtico.
A Mediolanum la divinità è appiedata e più somigliante a Giunone.
Minerva da sola ha qui una dedica, ma sappiamo che i mediolanensi frequentavano anche altri suoi santuari fuori città,
come quello di Caverzago in Val Trebbia. Raccoglieva solitamente i suffragi degli impiegati della contabilità e dei suonatori di tromba. Anche le divinità orientali Cibele (Magna Mater Idea) e Iside sono rappresentate a Mediolanum.
I funerali
Cambia anche il rapporto col mondo dei defunti. Per i Romani chi non celebra come si deve i riti funebri
risulta contaminato e potrebbe costituire un pericolo per tutti gli abitanti. Il cittadino deve essere puro per poter partecipare alla vita pubblica e la purezza si acquisisce
soprattutto occupandosi dei doveri domestici, per esempio nei confronti dei defunti. Tanto vale che ce ne occupiamo un po’.
Nel famoso rilievo proveniente da Amiternum
(vedi sopra) viene immortalato un funerale di rango elevato con otto portatori (quello
comune era con sei e quello superiore con dieci), con prefiche e musici. La
raffigurazione del morto in una lettiga adagiata sul fianco sopra un letto
portatile è particolare per la stoffa a baldacchino di stelle e con la falce
di luna.
I funerali degli uomini illustri sfilavano lentamente per il foro al suono delle trombe, accompagnati dal
pianto dei familiari e dai notabili cittadini, che portavano con sé in processione le imagines
degli avi, custodite nel Larario domestico appeso nell’atrio delle case.
Le imprese di pompe funebri (libitinarii)
erano così lucrose anche da noi o il fatto che comportava la perdita dei diritti pubblici ne limitava l’importanza? L’impresa aveva un folto personale: i pollinctores
(imbalsamatori) che preparavano la salma; i vespillones che trasportavano i cadaveri al rogo o alla sepoltura; i designatores che si occupavano della cerimonia; gli ustores addetti al rogo e i fossores
per la sepoltura.
Molte steli funerarie portano la sigla D-M e LDDD, che significano “agli dei Mani” e “luogo dato con
decreto dei decurioni”. Quando il defunto raggiunge gli dei Mani è dotato di una piccola proprietà. Esaminando le tombe a cremazione si è notato che il corredo minimale è
costituito da una moneta o da una lucerna o da un balsamario di vetro per le donne.
Ma non
basta comprare un posto al cimitero o deporre le spoglie del defunto perché
la tomba sia sacra. Occorre che il morto sia stato sotterrato in base a un
certo rituale e che il collegio dei decurioni abbia dato il suo assenso per la
collocazione della tomba. Il morto viene trasformato in Mane dai suoi parenti
al cospetto di tutta la cittadinanza, che sorveglia la correttezza del rito.
Nel caso si verificasse qualche negligenza, il defunto verrebbe trasformato in
un lemure, a danno della collettività, finché i congiunti non gli rendano i
dovuti onori.
E. Gabba, Condizioni fisico-geografiche della fortuna di Milano, in Milano e i milanesi prima del Mille, X Congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1983,
p. 53.
M.P. Rossignani, Milano 1992,
p. 94. I reperti delle mura
finora emersi si trovano:
- Via del Lauro (via Bossi 4): spessore 1,60 m (tra i 5 e i 6 piedi).
- Via delle Ore, presso S. Michele al muro rotto: Romussi ritiene che la chiesa fosse costruita a ridosso di un avanzo di muro, tanto più che dinnanzi vi stava una cantarana
dove colavano le acque piovane, collocata sempre presso le porte della città. Sono stati rinvenuti resti di palificazioni coperte da lastre di serizzo, frammenti
architettonici e due lunghi tratti di muri romani.
- Via Pecorari: tratto di mura (Mirabella Roberti 1983, p. 12 e p. 24 nota 1.
- Bottonuto: Frova ricordava un muro, spesso 1,90 m ( ca. 6 piedi), che attraversava il Bottonuto (Mirabella
Roberti, 1984, p. 31 nota 12).
- Via Paolo da Cannobio 5: tratto delle mura (Mirabella
Roberti 1983, p. 12).
- Via S. Vito 26: 32 m di mura conservate; zoccolo di quattro filari di mattoni, alto 0,30 m (ca. 1 piede), largo 2,18 m (7 piedi e mezzo), mentre il muro è spesso 1,75-1,70 m
(6 piedi) ed è costituito da tre filari di pietra alternati a sei filari di mattoni, per un’altezza totale presunta di ca. 8 m (27 piedi).
Coarelli, Milano 1974, 27. I resti delle porte urbiche sono piuttosto scarni:
-
Porta Ticinese: a due fornici di ca. 3 m (10 piedi) di ampiezza ciascuno, divisi da un pilastro centrale, fiancheggiate da due torri.
Quella superstite ha un basamento quadrato di 7,50 m di lato, circolare all’interno e poligonale all’esterno; spessore della muratura 1,20 m (4 piedi). La fondazione era in
corsi di mattoni legati da malta grigia, sopra un sottile strato di terreno ricco di ghiaia per il drenaggio. In base ai frammenti ceramici la datazione di questa porta è alla prima metà-terzo quarto del
I secolo a.C. La costruzione presenta alcune particolarità: innanzi tutto dimostra di aver cambiato
orientamento; è abbastanza distante dalle mura, che tutti gli archeologi fanno passare per via S. Sisto; la datazione dei reperti ceramici la colloca prima delle mura
augustee. La porta apparteneva al primo piano regolatore e venne inclusa nel secondo, cambiando leggermente angolatura; dovremmo supporre che le mura proseguissero lungo via del Torchio verso via
Necchi- S. Ambrogio.
-
Torre del Monastero Maggiore
della fine III-inizi del IV secolo, con una fondazione in conglomerato a ciottoli.
Secondo Donatella Caporusso non tutte le porte urbiche erano monumentali, ma potevano essere di legno, del tipo raffigurato su un bassorilievo del Duomo di Modena (Porta della
Pescheria). E’ probabile però che almeno le porte legate al cardo e al decumano ricevessero una maggiore cura edilizia.
Milano capitale. La situazione
idrografica di Milano romana, pp. 94-96.
Carotti, in A.S.L. XXV
(1898/20), p. 398; A. Calderini,
La zona di piazza S. Sepolcro,
Milano 1940, p. 33
G. Dumézil, Idee romane, ECIG, Genova 1987, p. 276.
G. Fiamma, Chronicon extravagans, fol. 45 cap. 41.
Qualche confronto con il diametro degli altri teatri:
Brescia,
270 piedi;
Verona, 365 piedi;
Torino,
255 piedi;
Roma,
teatro di Pompeo, 508 piedi; teatro di Marcello, 440 piedi.
Cfr. M. Sapelli, Milano
romana. Il teatro, Milano 1980; M.
Mirabella Roberti, Milano
romana, pp. 52-56; P.
Castelfranco, Il teatro romano di via Meravigli, Milano 1884; P.
Castelfranco, A.S.L., VII (1880), p. 125.
Citiamo a titolo di esempio la lapide di C. Geminius Hermo (CIL, V, 6017) un tempo inserita nella Porta Orientale e oggi nella Porta Nuova: Geminio Hermo, di origine orientale,
liberto dell’insubre Copino, lascia scritto nel suo testamento che i suoi liberti C. Geminio Licino e C. Geminio Onesimo gli facciano la tomba. Siamo agli inizi dell’età
augustea.
Facciamo ancora qualche confronto: le insule di Pavia misuravano 70 m x
80 x di lato, analoghe a quelle di Piacenza,
Como e Verona, in cui erano
comprese 64 proprietà individuali, con case di un unico grande vano
affacciate sulla strada e raggruppate intorno a un cortile comune.Cfr. Tocchetti
Pollini, Milano 1982, p. 133. Le insule delle colonie augustee
misurano: Aosta 140 m x 180 m, Torino
80 mq o 80 m x 120 m, Lutetia (Parigi) 110 m x
180 m. Secondo A. Ceresa Mori le insule di Milano sarebbero simili a
quelle di Torino, cioè 80 m x 115-120 m (Felix Temporis Reparatio,
p. 34).
A. Calderini, Arti
e mestieri nelle epigrafi della Gallia Transpadana specialmente nelle
raccolte milanesi, in Rendiconti Istituto Lombardo 1907, pp. 522-544; Storia
di Milano, I, pp. 278-286. I ritratti dei Lari domestici erano contenuti in un armadietto a sportelli, che il membro più autorevole della famiglia apriva solo in
determinate occasioni. Ogni armadietto era munito di un’iscrizione col nome e i titoli del defunto e componeva una specie di albero genealogico. Il diritto alle immagini era
in origine strettamente gentilizio e tale rimase finché solo i patrizi furono ammessi alle magistrature ordinarie, poi fu esteso a chiunque avesse ricoperto una magistratura.
Quindi, le edicole funerarie copiano i larari
per il desiderio da parte di ceti emergenti di imitare l’aristocrazia. La tradizione voleva che lo spirito degli antenati aleggiasse nella casa e avesse sede nel
pavimento, per cui le briciole che cadevano a terra durante il pranzo venivano loro offerte. In epoca tarda si diffuse la moda dei pavimenti non spazzati, ossia rivestiti di
mosaici che imitavano gli avanzi dei pranzi caduti a terra.
C.I.L., V, 5823, 5832. La lapide di Tutilius è stata riutilizzata per la scultura del cosiddetto Barbarossa, già sulle mura
medievali di Porta Romana. E’ oggi conservata al Castello Sforzesco.
C.I.L., V, 5763, 5764, 5765. Una lapide apparsa nel 1966 durante il restauro
di S. Maria Rossa lungo il Naviglio Pavese ricorda una porticus
annessa a un edificio in onore di Diana Nemorense, la dea venerata ad Ariccia.
J. Scheid, La
religione a Roma, pp. 65-66.
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Ultima modifica: mercoledì 31 luglio 2002
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