di Maria
Grazia Tolfo
L’agiografia
Paolino, che nel 422 scrive La vita di Ambrogio, introduce alcuni topi della sua agiografia che entreranno nella leggenda:
a) lo sciame d’api che esce dalla sua bocca da neonato
b) la voce del bambino-profeta nell’elezione
c) le gesta meravigliose
d) la morte santa.
Lo sciame d’api doveva indicare la sua parlata dolce come il miele, lo stesso attributo che caratterizzava Giovanni Crisostomo ossia Boccadoro, vescovo di
Costantinopoli.
Anche la voce del bambino nell’elezione è un elemento comune ai personaggi laici scelti per ricoprire cariche religiose. Il bambino rappresenta l’innocenza
attraverso cui si esprime la voce divina, quindi un bambino-profeta che garantisce sulla correttezza della scelta.
Le gesta meravigliose, dette impropriamente miracoli, rispecchiano in pieno la mentalità dell’epoca per la crudeltà dell’esempio, come nel caso della
suora ariana fulminata a Sirmio per aver cercato di espellere Ambrogio dalla chiesa o dei due funzionari di palazzo ariani che osano sfidare il vescovo a parlare del mistero dell’Incarnazione
e poi lo snobbano, andando a fare una gita fuori porta, in occasione della quale muoiono.
Paolino è ricco di aneddoti che, con l’intento di mostrare la potenza del sua amato Ambrogio, lo fanno apparire come uno jettatore. Cresconia aveva
cercato rifugio in chiesa ma era stato prelevato a forza dai soldati per ordine di Stilicone. Dopo aver eseguito l’arresto, i soldati si recarono ai giochi del circo dove si
stava dando uno spettacolo di belve. I leopardi, fuggiti di mano ai loro custodi, “con rapido balzo salirono nel luogo dove quelli avevano preso posto... e li lasciarono
orrendamente straziati”. Ovviamente il pagano Stilicone collega l’accaduto alla collera divina per l’arresto del cristiano e non solo lo grazia all’istante, ma “fu
preso da pentimento, così da essere disposto ad assecondare per molto tempo i desideri del vescovo “. Un po’ più leggero è quest’altro episodio: Ambrogio camminava con
uno dei suoi segretari, Teodulo, quando davanti a loro un passante inciampò e ruzzolò a terra, fra le risa di Teodulo, subito ammonito dal vescovo: “Anche tu che stai in
piedi, bada a non cadere (I Cor 10, 12)”. Come fulminato da tale profezia, Teodulo “che aveva riso della caduta altrui si dolse della propria”.
Ci sono anche casi di interventi positivi e non solo punitivi. Il santo pesta un piede a un ammalato di podagra e lo guarisce. L’episodio è riferito da
Paolino all’epoca in cui egli era già al servizio di Ambrogio, per cui ci fornisce il nome, Nicastro, e il suo grado militare. A Roma guarisce il figlio di un nobile, a
Firenze scaccia il demonio da un bambino e, quando questo s’impossessa nuovamente della sua vittima fino ad ucciderla, la resuscita sovrapponendosi al suo corpo con la stessa
tecnica usata da Eliseo.
Anche la morte non è andata esente dal meraviglioso. Pochi mesi prima che Ambrogio si mettesse definitivamente a letto, stava dettando allo stenografo
Paolino la stesura definitiva del Commento al Salmo XLIII. Paolino racconta che “a un tratto una piccola fiamma a forma di scudo avvolse il capo di Ambrogio e, a poco a poco, gli entrò in bocca. Dopo
di ciò la sua faccia divenne come neve; quindi il volto riprese il solito aspetto”. Il suo futuro biografo interpretò questo prodigio come la discesa dello Spirito Santo sul
vescovo. Prima di spirare, secondo la testimonianza di Bassiano di Lodi raccolta da Paolino, Ambrogio vide venirgli incontro Gesù, poi alle prime ore di sabato santo, 4 aprile
397, spirò. Il suo corpo venne esposto nella basilica Nuova e attorno a lui si fece la veglia pasquale. I neo-battezzati, venendo dal battistero, lo videro seduto sulla cattedra
collocata nell’abside: allucinazione collettiva? Paolino narra poi della guarigione di alcuni indemoniati e dell’assalto dei fedeli al corpo per avvicinarvi fazzoletti e
cinture da contaminare con la sua santità.
Il santo chiodo
E’ Ambrogio stesso a rafforzare la leggenda e il culto dei chiodi della croce in occasione del discorso funebre De obitu Theodosii del 395. La leggenda, che simboleggia la legittimazione dell’impero cristiano, era già stata narrata da Rufino d’Aquileia nella sua Storia:
Elena, la madre di Costantino, dopo aver trovato sul Calvario la croce di Cristo, aveva trasformato due dei chiodi in un morso per le briglie e in un elmo per il figlio. Ambrogio
narra la vicenda sostituendo all’elmo un diadema, che diventa la corona-simbolo degli imperatori romani cristiani. Il vescovo descrive il diadema come fatto di oro e di gemme,
tenute insieme all’interno dal cerchio di ferro ottenuto col chiodo.Da questa lettura sono discese due tradizioni: il Santo Chiodo custodito in Duomo e la corona ferrea di Monza. Il Santo Chiodo altro non sarebbe che il morso
donato da Elena al figlio e traslocato da S. Tecla in Duomo nel 1461, dove viene venerato con una festa il 3 maggio nel corso della quale il vescovo ascende dal 1624 con una “nivola”
verso il chiodo.
La corona ferrea, pur non essendo identificata con il diadema ambrosiano, ha assunto nel medioevo il significato di riconoscimento imperiale cristiano per i
regnanti che la ottenevano.
La presenza ai funerali di Martino di Tours
Negli ultimi decenni del VI secolo Gregorio di Tours parla di Ambrogio nella sua biografia Le virtù di Martino. Racconta che una
domenica, durante la messa, il vescovo si assopì mentre era in corso la prima lettura e non si poteva procedere con la seconda senza l’assenso del vescovo. I fedeli, per non
svegliarlo, attesero in silenzio due ore, poi si decisero a chiamarlo. Ambrogio allora confidò loro che non aveva dormito: “Sappiate che il mio fratello vescovo Martino se n’è
andato da questo corpo, e io ho reso omaggio al suo funerale; e, dopo aver compiuto il servizio liturgico secondo la consuetudine, essendo stato risvegliato da voi, soltanto non
ho potuto terminare alcuni versetti del salmo”.
Questa la leggenda. La storia è andata diversamente, perché Martino morì l’8 novembre 397, quando Ambrogio era già morto da sette mesi.
La leggenda venne comunque riportata sui mosaici absidali della basilica di S. Ambrogio, che custodisce anche l’opera di arte orafa carolingia, l’altare
di Volvinio, che narra le vicende di S. Ambrogio:
1. il miracolo della nascita con le api che escono dalla bocca del neonato;
2. Ambrogio parte per l’Aemilia-Liguria, dove è stato nominato consularis.
Sullo sfondo si vede una città con le mura turrite, che è Milano.
3. Ambrogio cerca di sottrarsi con la fuga alla sua elezione a vescovo, ma viene fermato dallo Spirito Santo.
4. Battesimo di Ambrogio.
5. Consacrazione a vescovo.
6. Ambrogio si addormenta mentre dice messa.
7. Viene trasportato in ispirito alle esequie di Martino a Tours.
8. un ariano si converte alla vista di un angelo che suggerisce la predica ad Ambrogio.
9. Ambrogio pesta il piede a Nicezio e lo guarisce.
10. Cristo visita Ambrogio malato.
11. e 12. morte di Ambrogio.
Lo staffile
La prima iconografia di S. Ambrogio con in mano lo staffile compare su un bassorilievo del secolo XI, che si trova nell’atrio della basilica di S. Ambrogio.
Un secolo dopo troviamo la stessa iconografia nei rilievi che ornano la Porta Romana dopo la ricostruzione di Milano seguente la rovina del Barbarossa.
Lo scultore si deve essere ispirato al Discorso contro Aussenzio: Ambrogio si riallaccia alla cacciata dai mercanti dal tempio e contrappone Gesù che li cacciò con il flagello a Mercurino che vuole
allontanare dalla Chiesa i fedeli “con la scure”; perché “il Signore, indotto dal rispetto della casa di Dio, allontana i sacrileghi con il flagello, il malvagio invece
perseguita le persone devote”.
Gli episodi leggendari che riguardano lo staffile di Ambrogio sono numerosi. Appena giunto a Milano come magistrato, Ambrogio volle conoscere il boia Ursone
che, armato di una speciale frusta con molte strisce di pelle, estorceva le confessioni agli imputati. Ambrogio licenziò subito Ursone e si fece consegnare lo staffile; quando
poi fu nominato vescovo per volontà popolare, per dimostrare la sua indegnità volle ripristinare l’uso delle inique frustate, ma al primo condannato che sottopose successe
che lo staffile si rifiutasse di funzionare (Comoletti, Milano misteriosa).
Il canonico Torre ci racconta un altro episodio: l’imperatore Corrado ebbe l’ardire di spodestare l’arcivescovo Ariberto d’Intimiano e di sostituirlo
con un canonico della cattedrale. Un giorno l’usurpatore stava sedendosi sulla cattedra di S. Ambrogio ad Nemus quando “si scorse in un baleno vestirsi il cielo a bruno,
livrea di cordoglio, cingersi di tumide nubi, quasi preparando lacrime, muggire i tuoni, scintillare fulmini, ed in mezzo a così funesti apparati comparire Ambrogio con acciaio
feritore in pugno, alla cui tragica scena aspettando tutti un fine di morte, riempitisi i cuori di freddo timore con una fuga generale, resesi imperfetta ogni temeraria azione di
Corrado forzato a confessare per vero arcivescovo il maltrattato Intimiano”.
La stessa frusta funzionò egregiamente ancora qualche secolo dopo, il 21 febbraio 1339, quando Luchino Visconti vinse a Parabiago il cugino Lodrisio, a capo
di truppe tedesche. I Milanesi scorsero in Luchino il difensore delle libertà cittadine e in Lodrisio un bandito venduto agli stranieri. Dalla parte di Luchino stava schierato
nientemeno che S. Ambrogio che, secondo il racconto di Galvano Fiamma, apparve “in bianche vesti e con in mano il flagello, colpendo i nemici che si erano impadroniti della
vittoria”. Grazie al suo intervento “essi persero le forze e furono sconfitti. In città si fece allora una processione del clero e dei religiosi che si snodò sino a S.
Ambrogio”. A partire da questo momento cambia l’iconografia di S. Ambrogio: si muove a cavallo come gli altri cavalieri; al posto della spada usa il flagello e diventa il
protettore dei Visconti.
In una nicchia della scomparsa chiesa di S. Maria alla Rosa (via Spadari) si trovava una statua lignea del santo patrono. Un giorno, durante la Repubblica
Cisalpina, si sparse la voce che S. Ambrogio incalzava con lo staffile i giacobini come un tempo aveva scacciato gli ariani. La statua venne allora imprigionata nelle soffitte
del Castello e fu liberata solo dopo la restaurazione dagli austriaci.
La lotta contro gli ariani
L’uso dello staffile era però di preferenza contro gli ariani. In città erano rimasti alcuni toponimi legati alla lotta di Ambrogio contro gli ariani.
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Il Malcantone
(il primo tratto di via Unione verso via Torino) e la terramala (via Broletto, chiesa di S. Tommaso) vennero considerati due luoghi dove gli ariani avevano avuto la meglio sui
niceni. |
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Al contrario Via S. Maria Beltrade veniva tradotto con “bel tratto” e interpretato come un luogo dove aveva vinto l’esercito cattolico. Il Torre nel 1714 riporta la leggenda ma si mostra
molto scettico sull’etimologia; in compenso è lui stesso a interpretare il toponimo del Compito (via S. Paolo) come il luogo dove
terminarono, ossia furono compite, le lotte fra le due fazioni. |
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S. Stefano in Brolo (al Verziere) è detto anche alla ruota, traduzione
italiana dal longobardo rauda, terra da dissodare; secondo la leggenda il termine “ruota” deriva da una ruota formata dal sangue dei
fedeli morti nel combattere gli ariani: “Si dice che questa ruota di sangue coagulato abbia fatto una passeggiata per la città rotolando fino al luogo di questo tempio. Per
ricordare questa favola si fece una ruota di sasso che si incastrò nel primo pilastro a destra entrando nella chiesa e che oggi si trova nei sotterranei della stessa” (Romussi,
104-105). Altri ritengono che la ruota sia la casuale forma del sangue coagulato del ministro Diodoro e di altri tre ufficiali della corte imperiale fatti uccidere da
Valentiniano I, tanto è che un tempo si chiamava anche “pietra degli innocenti.” Come si vede, si sono assimilate due leggende inizialmente distinte. |
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S. Bernardino alle ossa esibirebbe le ossa dei cattolici guidati da Ambrogio e periti sul campo. |
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A S. Nazaro pietrasanta (chiesa scomparsa)
è legata una versione molto più colorita, riportata dai nostri storici cittadini: “Chi entra oggidì in questa chiesa trova in una nicchia a sinistra un pezzo di colonna di
marmo africano, foggiato nella parte superiore a vaso d’acqua benedetta, e nel muro vicino incastrate due pietre. Dicono che appoggiato a quel tronco di colonna S. Ambrogio
abbia pregato prima di dar battaglia e avendo esclamato “Deus in adiutorum meum intende” siano apparsi i santi Gervasio e Protasio che insieme a molti angeli aiutarono i
cattolici a far macello degli ariani. Altri assicurano invece che sopra quella pietra S. Ambrogio abbia posato il piede per montare brevemente a cavallo e caricare i nemici collo
staffile, presso a poco come faceva Murat che caricava gli squadroni tedeschi collo scudiscio” (Romussi). “Ambrogio incalzò gli ariani fino a Varese, dove per ringraziamento
innalzò il santuario della Madonna del Monte” (Cantù). |
Nell’Ottocento si volle abbandonare l’immagine bellicosa di S. Ambrogio per recuperare quella di dottore della chiesa e di uomo pio e clemente, che
eccelleva più nell’oratoria che nella guerra: “non è vero che combatté gli ariani con le armi e con sanguinose battaglie, come farebbero credere le leggende sui luoghi
santi, perché Ambrogio sempre vinse con la persuasione e con l’amore”. (Romussi)
La cacciata dei giudei
Nei rilievi della Porta Romana ricostruita dopo la distruzione del Barbarossa compare un fregio che rappresenta Ambrogio “celibe” mentre scaccia i giudei dalla città col
flagello. Questa leggenda deriva da una rilettura fatta dopo il IX secolo dell’episodio di Callinicum.
L’assimilazione di ariani e giudei venne comunque attuata già all’epoca di Ambrogio e rimase inalterata nei secoli. Nell’ep. 75 a Valentiniano II del
marzo 386, con la quale Ambrogio si giustifica presso l’imperatore per non aver accettato il confronto pubblico con Aussenzio, il vescovo assimila pagani, giudei ed ariani
poiché ritengono comunemente che il Cristo fosse una creatura.
La disputa con S. Dionigi
La tradizione imperniata su un’inserzione postuma a una lettera del vescovo di Cesarea vuole che Ambrogio richiedesse le spoglie del vescovo milanese Dionigi morto esule in
Cappadocia. Dopo un viaggio periglioso, l’asino che trasportava il feretro, giunto nei pressi di Cassano d’Adda, si rifiutò di proseguire per la pesantezza assunta dall’arca.
Venne chiamato Ambrogio affinché aprisse il sarcofago e scoprisse l’arcano. Fra lo sgomento generale, Dionigi (il cui corpo ci auguriamo fosse ancora intatto dopo alcuni
decenni dalla sepoltura) si alzò a sedere, abbracciò Ambrogio e si alzò. I due vescovi s’incamminarono a braccetto lungo l’Adda, disputando amabilmente di questioni
teologiche, finché Dionigi ritenne opportuno di ritornare nel sarcofago, che venne lasciato per qualche tempo a Cassano.
Luoghi di culto legati ad Ambrogio e alla sua famiglia
S. Vittorello (chiesetta annessa alla Porta Romana di fronte a via Paolo da Cannobio) ricordava la fuga tentata da Ambrogio al momento della sua elezione. Uscito nottetempo da Porta Ticinese, aveva vagato tutta
notte ritrovandosi al mattino seduto su un sasso fuori dalla Porta Romana. Il sasso fu custodito a lungo nella cappella della chiesetta sorta sul luogo, in realtà probabile
testimonianza di un persistente culto pagano delle pietre.
Ambrogio
non si arrese e ritentò la fuga, servendosi di una mula alla quale mette i ferri al contrario per ingannare gli inseguitori. Ma giunta presso Abbiategrasso la mula di nome Betta
s’impunta e invano Ambrogio la incita “in milanese”: “Cor Betta, cor !”. Al luogo resterà il nome di Corbetta, mentre Ambrogio dovrà rassegnarsi ad assumere la sua carica.
S. Ambrogio ad Nemus venne da sempre identificato come il luogo di ritiro prediletto di Ambrogio: “Nei primi tempi vi s’innalzava una villa con deliziosi
apparati, il cui possessore chiamavasi Leonzio, cavaliere milanese, molto amico di S. Ambrogio, che per tale amicizia prese a fuggirsene quivi per sottrarsi all’elezione a
vescovo. Mutossi di villa in romitaggio e vi si introdusse numerosa adunanza di pie persone, tra le quali lo stesso Ambrogio portavasi ed alcuni vogliono che S. Matroniano romita
venisse tra essi annoverato. Si dà per veridica tradizione che l’imperatrice Giustina, conosciuta la falsità degli ariani, ivi si riducesse a far penitenza dei suoi falli e
deposte le imperiali insegne occultasse ogni fasto tra monacali voti”. (Torre)
Altro luogo identificato con S. Ambrogio è la chiesa oggi sconsacrata di S. Carpoforo: “Mentre Ambrogio consacrava la chiesa dedicata al suo nome, la sorella Marcellina, sulle rovine del tempio di Vesta, faceva edificare un’altra
chiesa, che poi fu chiamata di S. Carpoforo”. Una leggenda risalente al XV secolo, pone presso S. Carpoforo la casa dove abitavano i tre fratelli. Era una casa nobile, a destra
dell’attuale chiesa; ancora nel Seicento c’era un pozzo a cui si diceva avesse attinto Marcellina e del quale i fedeli bevevano ancora devotamente l’acqua, confidando che
la santa intercedesse per la loro salute. Nei pressi della basilica di S. Lorenzo sorgeva nel medioevo un ospedale per lebbrosi, ma la tradizione lo diceva fondato dal vescovo
Materno tra il 316 e il 328. S. Ambrogio si sarebbe recato in questo ospedale a curare i malati e un giorno, lavando un lebbroso, lo avrebbe guarito. Da qui la tradizione che nei
secoli scorsi obbligava l’arcivescovo, durante la processione delle Palme, a recarsi alla chiesa di S. Lorenzo per passare poi in quella di S. Vito al Carrobio, in precedenza
detta di S. Salvatore, per lavarvi un lebbroso.
Il culto di S. Ambrogio e il rilancio della sua basilica
A partire da quando Ambrogio venne considerato patrono di Milano?
In età longobarda iniziano le dedicazioni di
chiese ad Ambrogio, considerato il vincitore sugli ariani. Il governo longobardo fu spesso conteso fra re cattolici e re ariani e i primi presero quale loro campione il vescovo
più inflessibile nella lotta all’eresia, che così puntualmente aveva registrato tutte le prediche e conservato gli scritti. Papa Gregorio Magno nel settembre del 600
definisce il nuovo vescovo di Milano Diodato, in esilio a Genova, “vicario di S. Ambrogio”. Fino al IX secolo il vescovo è visto come un santo uomo, non c’è tanto
interesse alla sua figura politica, quanto alla sua rilevanza come dottore della chiesa e innovatore liturgico per l’introduzione dell’innografia detta ambrosiana.
L’uso strumentale del culto di Ambrogio in chiave più politica si ebbe in età carolingia,
inizialmente per favorire l’alleanza fra la Chiesa ambrosiana e quella franca attraverso il culto comune di S. Martino e S. Ambrogio, in seguito quale risposta alla
romanizzazione della chiesa proposta dai sovrani franchi per uniformare il rito cattolico. Alcuino, il dotto consigliere di Carlo Magno, nel 792 scriveva che “Milano, un tempo
città imperiale, gode di S. Ambrogio quale difensore”.
Ambrogio era stato sepolto nel loculo alla sinistra di quello di Gervasio e Protasio sotto l’altare della basilica Ambrosiana. Il primo arcivescovo
carolingio Pietro, per favorire la perenne ufficiatura sulla tomba di S. Ambrogio, incaricò un gruppo di suoi preti di predisporre il servizio. Nacque così il primo nucleo del
monastero di S. Ambrogio, riconosciuto ufficialmente cinque anni dopo, nel 789, e dotato di beni con il placet di Carlomagno nel 790.
Il vescovo carolingio Angilberto II (824-859), dopo uno dei suoi viaggi romani dell’844 (o 850), si ispirò alla sistemazione della confessione vaticana
per traslare solennemente i resti dei tre santi in un sarcofago di porfido collocato sopra i loculi originari e protetto dall’altare d’oro di Wolvinio. Il riferimento alla
lotta antiariana condotta così tenacemente da Ambrogio diventa funzionale alla nuova lotta contro gli ariani. Nell’843 si era conclusa la guerra agli iconoclasti ed erano
rimasti isolati coloro che negavano la realtà dell’incarnazione, di matrice ariana. La presenza ariana in Lombardia a questa data
è confermata da documenti.
L’arcivescovo Ansperto, in lotta contro papa Giovanni VIII per la scelta dell’imperatore, fece scrivere la biografia del patrono dei milanesi, che si era
strenuamente opposto agli usurpatori Massimo ed Eugenio, con lo scopo di dimostrare la tradizionale preminenza della Chiesa milanese,
che sotto la guida del suo arcivescovo era libera di scegliersi l’imperatore che preferiva. Nel periodo in cui gli ultimi carolingi si combattevano per la
successione al Sacro Romano Impero si mette in risalto la scomunica inferta a Massimo, che aveva fatto assassinare il giovane Graziano nel 383, e quella contro Eugenio, che aveva
minacciato di trasformare la basilica maior in una stalla e di arruolare i chierici sotto le armi. In entrambi i casi Paolino aveva
collegato la fine miserevole dei due usurpatori alla scomunica di Ambrogio. L’arcivescovo Ansperto, scomunicato nell’879, era stato a sua volta prodigo di scomuniche, senza
perdersi d’animo e forte del potere della successione sulla cattedra di Ambrogio.
Nel X secolo, in età ottoniana, venne aggiunto un ciborio di stucco colorato sopra l’altare di S. Ambrogio, la cui datazione e interpretazione è ancora
oggetto di studio. I personaggi rappresentati sembrerebbero essere Ottone I e il figlio Ottone II, che nel 972 aveva sposato la principessa bizantina Teofane, raffigurata insieme
alla suocera Adelaide. Poiché Ottone I morì nel 973, la data presunta per l’esecuzione del ciborio pare collocarsi tra il 972 e il 973, all’epoca dell’arcivescovo Arnolfo
I.
Sul finire del X secolo ci si ispirò al patrono di Milano per l’inventio dei santi. L’arcivescovo Landolfo da Carcano nel 997 fece erigere il monastero di S. Celso nel cimitero dei tre mori
e per l’occasione rinvenne il corpo di S. Castriziano, che fece traslare in S. Giovanni in Conca. Nel 1004 l’arcivescovo Arnolfo II fondò il monastero di S. Vittore,
rinvenendo nel cimitero il corpo del vescovo Mona, che trasferì in S. Vitale. Nel 1007
fu la volta del suddiacono Ariberto, il futuro arcivescovo di Milano, a trovare le reliquie di S. Adeodato (figlio di S. Agostino) nella chiesa di S. Vincenzo a Galliano. Il
modello di Ambrogio era ormai affermato e vincente.
Ultima modifica: martedì 23 luglio 2002
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Scritti ambrosiani
Ambrogio, il personaggio leggendario
Bibliografia
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