Costantino Baroni, studioso di ceramica - 2
di Enrico Venturelli
Premessa
Costantino Baroni (Milano, 1905-1956), prima di dedicare le sue energie di studioso a quelle che la tradizione definisce arti maggiori, scelse di occuparsi,
per circa un quindicennio, di ceramica.
Nel saggio intitolato Vita e scritti di Costantino Baroni (vedi), Giulia Clotilde Rota riporta le giustificazioni che il giovane studioso fornì a proposito della
scelta di occuparsi di arti minori. Egli scrisse infatti nel suo curriculum: «Appartengo ad una famiglia borghese di origini vicentine, che tra gli ascendenti
novera un noto ceramista bassanese ed un arazziere vicentino del primo ottocento». Ci fu quindi, in parte e all’inizio, una ragione autobiografica.
Ma aggiunse pure che gli risultava difficile intraprendere la strada della critica d’arte delle grandi opere, mentre le arti decorative gli si offrivano come di più
facile accesso: «Di esse si poteva parlare, su di esse dire qualche cosa di nuovo. Per le ceramiche in particolare, quando presi ad occuparmene di proposito, poco si faceva
in Italia, ad eccezione del centro di studi creato a Faenza».
I testi composti da Baroni si possono suddividere in tre gruppi sulla base degli argomenti affrontati. Quasi la metà è dedicata alla storia della ceramica lombarda.
I restanti si occupano invece di ceramica veneta, oppure di temi ed eventi riguardanti la ceramica contemporanea (ad esempio, quella esposta alle Triennali V e VI organizzate
a Milano nel 1933 e nel 1936).
Tra il 1928 e il 1942 Costantino Baroni compose più di venti testi: perlopiù si tratta di articoli pubblicati su riviste di carattere storico o artistico, mentre le opere
apparse nella forma del volume monografico sono soltanto due. Vedi Appendice bibliografica.
A distanza di tempo, la dispersione di tali testi in molte sedi diverse impedisce di apprezzare in maniera adeguata l’impegno dello studioso e la consistenza delle sue
ricerche. Sicché, per contrastare l’oblio, ho pensato di compilare una serie di schede che informi su ognuno dei suoi contributi. Le schede previste sono undici, per ora
ci sono le prime due:
Scheda n. 1 Il catalogo delle ceramiche graffite del Castello
Sforzesco (1934)
Scheda n. 2 Cinque articoli per la rivista “Faenza” (1928, 1929, 1931,
1933, 1939)
Scheda n. 3 Due saggi editi dalla rivista “Archivio
Storico Lombardo” (1930,1931)
Scheda n. 4 Un saggio pubblicato dalla rivista “Archivio
Veneto” (1932)
Scheda n. 5 Un articolo per la “Rassegna
Gallaratese” (1933)
Scheda n. 6 Un saggio comparso su “Dedalo” (1933)
Scheda n. 7 Un articolo per la “Rivista di Venezia”
(1935)
Scheda n. 8 Due articoli dedicati all’ordinamento
delle ceramiche del Castello Sforzesco (1934, 1936)
Scheda n. 9 Gli articoli per la rivista “Industria
del Vetro e della Ceramica” (nove articoli tra 1933 e 1937)
Scheda n. 10 Il volume dedicato alle Maioliche di Milano (1940)
Scheda n. 11 Un saggio per la rivista “Emporium” (1942)
Ho raggruppato e ordinato i testi rispettando in
buona parte l’ordine cronologico. Ma con qualche eccezione. Ho infatti deciso
di ricorrere in un solo caso ad un criterio di importanza (scheda 1), con
l’intenzione di evidenziare adeguatamente l'opera di maggior rilievo. Ho poi
raggruppato in unica scheda gli articoli comparsi sulla stessa rivista (schede
2, 3, 9) e accolto in una sola scheda due articoli pubblicati in sedi diverse
ma con il medesimo argomento (scheda 8).
Scheda n. 2 – Cinque
articoli per la rivista “Faenza” (1928, 1929, 1931,
1933, 1939)
Frontespizio della rivista “Faenza”, ideato nel 1913 e utilizzato senza modifiche fino ad oggi.
Leggendo uno dopo l’altro i testi pubblicati su “Faenza”, ci
si rende conto che la ricerca di Baroni riceve energia da due precise
motivazioni.
La prima si
basa sulla constatazione che il sapere nell’ambito della ceramica è, all’inizio
degli anni Trenta, ancora in gran parte basato sulla tradizione, cioè sul
semplice ripetersi di asserzioni e giudizi del passato non comprovati da
adeguata documentazione storica. Lo studioso segnala dunque, a sé e agli altri,
la necessità di una seria ricerca archivistica, senza la quale non si ottiene un
effettivo sviluppo delle conoscenze.
Il breve
articolo (1929) intitolato
Le antiche ceramiche
artistiche dell'alta Italia e la necessità di nuovi profondi studi storici è a
tutti gli effetti una dichiarazione di intenti. Ne riporto i primi due
paragrafi, pregevoli non solo per il contenuto ma anche per il bello stile, a
sintassi complessa, che caratterizza la prosa dello studioso:
L’occasione da noi incontrata di
esaminare un ragguardevole novero di antichi esemplari ceramici ritrovati nella
regione padana e dai competenti con molta incertezza e arbitrio attribuiti a
quei secoli che precedono il decimottavo (e si comincia sin dal medioevo!) e
alle molte fornaci distinte per luoghi e tradizioni artistiche; questa gran
confusione rinvenutavi e l’assenza quasi totale d’ogni fondamento storico ci
hanno posti d’innanzi al preciso dilemma: o rinunziare al capire alcunché in
materia accontentandoci di quell’approssimativo dilettantismo che più spesso si
appaga di un sommario giudizio del valore d’arte intrinseco dell’opera
astraendo da ogni considerazione d’ambiente, oppure ingolfarci in una severa ed
ampia ricerca documentaria per porre ogni cosa a posto storicamente e psicologicamente
così da potere non solo vedere ma anche capire: ricerca di difficoltà non lieve
e di lusinghe scarsissima.
Si
dirà da molti esser questa fatica gettata ai venti giacché non si ebbe qui –
che si sappia – nei secoli della Rinascenza e dello Splendore quel magnifico
fiorimento della industria vascolare ch’empie noi italiani di tanto legittimo
orgoglio. Ma lasciando ogni gretto campanilismo e quel cieco, forse troppo
cieco giurar sulle tradizioni che ancor oggi purtroppo si pratica, vien fatto
talora di chiedere luce su certi fatti inopinati e in perfetta contraddizione
di quelle. Così appunto noi vogliamo renderci ragione di come un «Magistro
Andrea da Pavia bochalaro» fosse nel 1480 benignamente chiamato dal Duca di
Mantova nel suo territorio e come un trentennio quasi dopo, nel 1508, si
ritrovasse gastaldo dell’arte dei boccaleri veneziani un «Ser Zuanne de Rigo da
Casalmazzor». Or tutti sanno l’eccellenza delle maioliche di Venezia e di
Mantova, mentre all’incontro appena emerge dalle tenebre della storia una vaga
fama dell’abilità di Casalmaggiore. […] Chi può vantarsi di notizie sicure
sull’attività cinque-seicentesca di Varese, della famosa Lodi fornitrice di
egregi artisti a tante altre illustri fornaci italiane? Nomi, sì, parecchi nomi,
e basta! Ci sono in verità rimasti in retaggio molti pezzi, soprattutto di
ceramiche a stecco. Ma che ci giovano se, a parte qualche eccezione come
Verona, Padova ecc., mancano elementi decisi per attribuirli sicuramente –
diciamo sicuramente – piuttosto a Milano che a Pavia, piuttosto a Mantova che a
Varese? Perché il fatto del rinvenimento in un dato luogo non può certo
costituire base di attribuzione, così come ad esempio gli scarsi bacini che
tuttora decorano qualche nostro tempio romanico non si possono giurare certo di
fattura locale[1].
La seconda
motivazione, che pure emerge dal testo qui citato, è originata dal desiderio di
rivendicare valore alle ceramiche «dell’alta Italia». Una produzione che lo
studioso ritiene sottovalutata, o comunque messa in ombra dal successo delle
ceramiche di Faenza, Pesaro, Urbino; e che invece merita di essere meglio conosciuta
e giustamente apprezzata.
Non erano però
semplici ragioni campanilistiche che spingevano Baroni a studiare le ceramiche lombarde.
Ritengo piuttosto che egli percepisse come riduttiva l’impostazione tradizionale
che proponeva la storia artistica dell’Italia centrale come rappresentativa
dell’intera nazione. Lo studioso milanese ovviamente non intendeva ridurre o contestare
i meriti indiscussi dei ceramisti marchigiani, umbri o toscani, quanto piuttosto
contribuire con nuovi studi all’emersione e al riconoscimento di centri produttivi
meno noti, sviluppatisi in altre regioni d’Italia.
Inoltre,
riguardo ai temi da investigare prescelti, bisogna sottolineare che per Baroni
la ricerca archivistica fu di fondamentale importanza. Di conseguenza, non va
liquidata come banale l’ipotesi che egli decidesse di occuparsi di ceramica
lombarda (e in percentuale minore di quella veneta) perché gli archivi per lui
più facilmente accessibili erano quelli situati nei pressi della città in cui risiedeva,
oppure in quella parte del Veneto da cui proveniva la sua famiglia.
2.1 – I tentativi dei maiolicari lombardi di
ottenere una terraglia locale all'uso inglese, “Faenza”, XVI (1928), 6, pp. 134-138.
Il primo articolo pubblicato su “Faenza” è già un buon esempio di
come Baroni intendesse investigare. In poche pagine l’autore ricostruisce
infatti un brano di storia relativo al declino della produzione di maiolica in
Lombardia tra fine Settecento e inizio Ottocento. Avvalendosi di una ricca
documentazione, egli racconta come, di fronte al successo commerciale sempre
maggiore della terraglia «all'uso
inglese», i ceramisti veneti riuscirono ad adattarsi e ad avviare una
produzione analoga locale, con la quale non solo si imposero su tutto il
territorio della Repubblica di Venezia ma cominciarono a penetrare il mercato
lombardo. Di fronte a tale fenomeno il governo austriaco di Lombardia volle promuovere
una produzione locale di terraglia offrendo nel 1790 «un premio di 30 zecchini a chi primo gli indicasse nello Stato un
giacimento di argilla che avesse i requisiti necessari allo scopo». Le
terre adatte furono individuate. A quel punto bisognava verificarne la qualità
passando a una prima produzione sperimentale. Nel 1796 si cominciò ad allestire
un forno adatto nel cortile della fabbrica Rubati, ma proprio in quell’anno i
francesi occuparono Milano e l’esperimento non fu portato a termine. Seguirono
altri tentativi, a Milano e Pavia, ma tutti senza successo. Così, neppure in
epoca napoleonica, si riuscì a produrre terraglia in Lombardia. In seguito, quando
nel 1814 venne istituito il Regno Lombardo-Veneto sotto il controllo austriaco,
caddero le barriere doganali tra le due regioni e a quel punto non ci furono
più barriere a contenere l’invasione delle terraglie venete in Lombardia, e ciò
provocò «la completa rovina della locale industria ceramica».
2.2 – Le antiche ceramiche artistiche dell'alta
Italia e la necessità di nuovi profondi studi storici, “Faenza”, XVII (1929), 5-6, pp.
140-142.
Di questo importante contributo già si è scritto nell’introduzione
alla scheda.
2.3 – Ceramisti romagnoli in Lombardia, “Faenza”, XIX (1931), 2-3, pp.
53-54.
Si tratta di una notizia redazionale
in cui si comunica il ritrovamento di un documento conservato presso l’Archivio
Storico Civico di Cremona: «Il dottor Costantino Baroni che da tempo si occupa
indefessamente di studi ceramistici ed insieme di ricerche archivistiche ad
essi inerenti, ci dà cortese notizia dell’introduzione – e crediamo che non sia
la prima – di maioliche faentine in Lombardia e precisamente a Cremona per
opera di un altro romagnolo, un certo Pietro Covelli da Cesena». Il documento
(febbraio 1576) è riportato integralmente e, per la verità, documenta un
tentativo non riuscito di esportazione di maioliche faentine. Pietro chiede
infatti ai magistrati cremonesi licenza di vendere cinque casse di maioliche ricorrendo
a una sorta di lotteria: «al lotto overo ventura secundo che alcune volte si è
solito fare per via di balotte». Il permesso gli fu però negato.
2.4 – Per l'attribuzione di una fruttiera
maiolicata del Settecento, “Faenza”, XXI (1933), 1, pp. 15-26.
È il testo di maggior respiro tra
quelli destinati alla rivista “Faenza” e si inserisce nel genere della
‘polemica’ tra due studiosi, in questo caso Costantino Baroni e Giuseppe
Liverani, secondo direttore del Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza.
L’oggetto del contendere è una «fruttiera» che Liverani, in un articolo
pubblicato su “Faenza” nel 1929, considera di produzione faentina[2].
Assegnazione che Baroni contesta ritenendo invece che si tratti di un pezzo
realizzato nel centro vicentino di Nove. In tale saggio non si tratta però
semplicemente dell’attribuzione di un singolo oggetto. Anzi, la questione della
fruttiera diventa una buona occasione per affrontare «l’esame di un complesso
di altri problemi», che richiedevano di essere discussi se si voleva tentare
una corretta ricostruzione delle dinamiche produttive (e dei rapporti di dare e
avere) che caratterizzarono l’Italia settentrionale nel XVIII secolo. Nel corso
del Cinquecento le novità tecnologiche (ma anche stilistiche) e i ceramisti esperti
fluirono essenzialmente da Faenza verso altri centri, sia italiani che
stranieri. Ma nel Settecento la situazione è del tutto cambiata: novità
stilistiche, provenienti da Francia, Germania e Olanda, vengono accolte in
Italia, ma questa volta la precedenza nel recepire le novità non è più,
necessariamente, faentina. Ritornando al caso della fruttiera qui in
discussione, il motivo decorativo dell’orlo riprende un decoro caratteristico della
ceramica di Delft. Ma Baroni non è affatto convinto (come Liverani) che
l’imitazione delle decorazioni di Delft si sia prima verificata a Faenza e solo
in seguito estesa ad altri centri produttivi italiani. Scrive infatti lo
studioso lombardo: «Noi riteniamo di poter avanzare un’ipotesi, che cioè la
recezione da parte dei vasai italiani di questo motivo ornamentale che ci viene
da Delft si sia verificata pel tramite di quelle fornaci lodigiane che nei
scoli XVII e XVIII hanno conosciuto epoche di vero fiorimento». Si tratterebbe
dunque di un decoro prima rielaborato nella cittadina lombarda e solo in
seguito ripreso dai vasai di Nove, Bassano, Faenza. Al testo di Baroni segue poi
(pp. 22-26) la lunga nota di risposta in cui Liverani si impegna più a
difendere la sua attribuzione che a discutere i possibili debiti di Faenza nei
confronti dei centri lombardi e veneti.
Da “Faenza”, XVII (1929), tavola XXXIV
Fronte, profilo e decoro dell’orlo dell’alzata in maiolica sulla cui provenienza discutono Giuseppe Liverani e Costantino Baroni.
Da “Faenza”, XXI (1933), tavola VI
Un’alzata della manifattura Ferniani di Faenza e un piccolo piatto ovale realizzato a Nove (Bassano), entrambi dotati di una decorazione analoga a quella dell’esemplare su cui dibattono i due studiosi.
Da “Faenza”, XXI (1933), tavola VII
A corredo dell’articolo compare l’immagine di due piatti della collezione del Castello Sforzesco. In tal caso il confronto non riguarda il decoro dell’orlo,
bensì la raffigurazione centrale della Vergine. Negli anni Trenta Baroni assegnò tali pezzi alla fabbrica Manardi di Bassano, ma ora è appurato che furono realizzati a
Pavia (cfr. Scheda 4).
Immagine tratta dal catalogo delle ceramiche del Castello Sforzesco (II 2001, 122), diametro cm. 26,3, foggiatura a stampo. S. Nepoti,
autore di questa scheda e della successiva, attribuisce entrambi i piatti al pittore Siro Antonio Africa, attivo a Pavia tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento.
Immagine tratta dal catalogo delle ceramiche del Castello Sforzesco (II 2001, 123), diametro 47,5 cm, foggiatura a stampo, tesa a rilievo.
Nepoti segnala che tale piatto è «l’unico caso noto con raffigurazione sacra associata a un bordo a rilievo».
2.5 – Ambrogette di un pavimento maiolicato al
santuario di S. Maria dei Miracoli in Saronno, “Faenza”, XXVII (1939), 3-6, pp. 51-52.
Ancora una notizia, questa volta si
tratta del ritrovamento di alcuni cocci di un pavimento maiolicato durante i
restauri del santuario di Santa Maria dei Miracoli a Saronno. Baroni scrive
che, su sua sollecitazione, si riuscirono a salvare pochi frammenti, coi quali
fu possibile ricomporre almeno in parte tre piastrelle. L’autore ritiene che
siano di produzione faentina. Il giudizio in questo caso si basa su
osservazioni stilistiche: decorazione «del consueto tipo a trofei e mascheroni,
con cartigli e simboli di romanità» e notevole «eleganza degli smalti, tenuti
sui toni diafani». Inoltre, il «carattere arcaico dell’esecuzione pittorica»
induce lo studioso a ritenere che i frammenti siano i resti della prima
decorazione pavimentale dell’area absidale, realizzata «intorno al 1516». Una
notizia di particolare rilievo dal punto di vista degli esperti di maiolica
faentina, dato che attesta il precoce successo artistico e commerciale della
produzione della cittadina romagnola in località per quei tempi
apprezzabilmente lontane come la Lombardia occidentale[3].
Da “Faenza”, XXVII (1939), tavola XII
Frammenti di piastrelle rinvenuti duranti lavori di restauro nell’area presbiteriale del Santuario di S. Maria dei Miracoli a Saronno, acquisiti e ricomposti su istanza di
Baroni.
Immagine tratta dal catalogo delle ceramiche del Castello Sforzesco (I 2000, 24-26).
L’autrice della scheda, J. Lessmann, scrive: «La provenienza artistica, non documentata, è di difficile assegnazione. Il Baroni suggeriva una loro origine faentina.
Le chiare strutture e lo slancio della composizione sembrano più vicine alle maioliche senesi».
[1]
Interessante è anche il seguente passaggio, tratto dal terzo paragrafo: «C’è a
Lodi una raccolta Loretz di graffite e una ve n’è, notevole per numero
d’esemplari, al civico Museo di Milano, ma noi possiamo assicurare che a
ficcarci dentro il naso, come noi facemmo, c’è da perder la pazienza.
Un’infinità di marche, la mancanza più spesso di una tecnica, di uno stile
personale. Come di vede le difficoltà sono immense».
[2]
G. Liverani, Un
vassoio faentino della prima metà del Settecento, “Faenza”, XVII (1929),
5-6, pp. 135-139.
[3]
Baroni esamina un altro pavimento maiolicato, quello del battistero del
santuario del Sacro Monte di Varese, in un articolo pubblicato sulla rivista
“Industria del vetro e della Ceramica” (Scheda 9).
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Ultima modifica: giovedì 5 maggio 2016
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