Capitolo IX
Ludovico Sforza detto il Moro (VII Duca di Milano 1494-1499)
Imprese:
Caduceo con draghi e pileo alato. Motto: “Ut
iungar”
I Fanali. Motto: “Tal
trabalio mes places por tal thesaurus non perder”
A Milano, la mattina del 26 dicembre nell’anno 1476, nella chiesa di
Santo Stefano, tre cospiratori infiammati dalle idee propagandate dall’umanista Cola Montano pugnalavano Galeazzo Maria a
morte. Il duca lasciava un erede bambino, per il quale assunse la reggenza la
madre Bona di Savoja, coadiuvata da Cicco Simonetta.
Per Ludovico il Moro, fratello dell’assassinato, si presentava la grande occasione di uscire dall’anonimato cui erano
condannati i figli dello Sforza, oscurati dalla fama paterna e dalle bizzarrie
del primogenito, nelle mani del quale era passato il ducato. Qualche velleità
di potere il Moro doveva averla già manifestata, dato che il fratello per
levarselo di torno lo aveva mandato in missione a Tours. Tornato a precipizio
dopo la tragica morte di Galeazzo, non dovette essergli difficile carpire la
buona fede della cognata e mandare al patibolo il troppo
onesto Simonetta per sgombrarsi il campo.
Sul perché del soprannome “Moro” sono state fatte
numerose congetture. L’ipotesi che il ramo del gelso moro costituisse una sua impresa, legata al grande incremento che
la coltivazione di questa pianta aveva avuto sotto il suo governo, sembra
inesatta, infatti il gelso era già stato introdotto da Filippo Maria e aveva
raggiunto sin da allora una tal produttività da permettere la costituzione di
paratici dei setaioli. Un frondoso gelso moro compare in una miniatura della
“Storia di Francesco Sforza” di Giovanni Simonetta [6]
fra le figure di Ludovico e di Galeazzo Maria, ma ciò non basta a farcelo
considerare un’impresa. In una lettera dell’8 agosto 1452, pochi giorni dopo la
nascita di Ludovico, Bianca Maria descrive all’illustre consorte il figlio come
sano, robusto e “sozo”, cioè scuro di carnagione, in
altre parole “moro”. In un’altra lettera, indirizzata alla basilica del Santo a
Padova, la duchessa promette ricchi doni per l’ottenuta guarigione del figlio
“Ludovico Mauro”. La questione resta quindi aperta.
Il Moro aspirava al potere
assoluto e non doveva poi tanto dissimularlo se Bona, temendo per la propria
vita e per quella dei figli, riteneva rifugio sicuro in castello solo la torre
che porta ancor oggi il suo nome. Per Lodovico la situazione era comunque difficile. I Francesi premevano alle porte, e se è
vero che la spedizione di Carlo VIII finirà in una bolla di sapone, Luigi XII
non esiterà a prepararne una nuova, impugnando il
famoso testamento di Giangaleazzo Visconti. All’interno del paese il vero
erede, Giangaleazzo Maria, debole e malaticcio, inteneriva i sudditi e
costituiva un ostacolo all’assolutismo dello zio. Nonostante i marosi
(l’impresa delle onde grosse montanti conosce un momento di grande
successo), la meta, cioè la presa del potere ed il suo riconoscimento legale,
doveva apparire a Ludovico chiara e raggiungibile, se
egli potè adottare l’impresa de “I Fanali”. E’ un’impresa raffinata:
rappresenta due fari posti su scogli separati da onde in tempesta. Sono probabilmente i fari del porto di Genova, la città conquistata
ai tempi dell’arcivescovo Giovanni, dalla quale erano giunte a Milano due
antenate celebri: Isabella Fieschi, una delle tre mogli di Luchino, e Valentina
Doria, la moglie di Stefano. Nel motto, che potremmo tradurre “Non mi
dispiace faticare per non perdere un simile tesoro”, leggiamo parole di lucido
ottimismo per un navigatore in angustie sì ma non disorientato. La stessa
impresa compare sul basamento esterno dell’abside di S. Maria delle Grazie, destinata da Ludovico a divenire il mausoleo
di famiglia. Qui il tesoro al quale si allude è di sicuro più alto e vale certo
tutti i travagli della vita terrena.
Tavola 46 - I Fanali. A sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Per il Moro, il problema più grave restava quello di convincere i
sudditi della legittimità, almeno morale, del suo potere. Nelle absidi del
transetto della Certosa di Pavia i Visconti Sforza appaiono idealmente uniti nel culto della Vergine: da un lato Giangaleazzo ecc., dall’altro Francesco Sforza e Ludovico il Moro assistono alla sua incoronazione, chiara allusione celeste a quella cerimonia terrena che tardava ad arrivare.
Tavola 47 - Gli affreschi absidali dei transetti della Certosa di Pavia. Sopra: Giangaleazzo Visconti, accompagnato dai figli, offre alla vergine il modello della Certosa (transetto sud). Sotto: Francesco Sforza e Ludovico il Moro assistono all’incoronazione della Vergine (transetto nord). Come e più del padre, il Moro è ansioso di apparire legittimo erede di casa Visconti; per questo nei dipinti da lui commissionati pone sé stesso e Francesco in armonica simmetria e in atto di comune fervore religioso con gli esponenti di quella famiglia, cui riconosce il ruolo di fondatori del tempio.
L’impresa del caduceo fu adottata per indicare da parte del Moro una
chiara volontà di pace e di benessere per tutti. Il caduceo è
infatti un attributo di Mercurio: il dio aveva scagliato la sua verga
tra due serpi in lotta, ristabilendo un equilibrio, quindi la pace. Con questo
nume tutelare alla spalle, genio precoce, lestofante
protettore di traffici e invenzioni, non c’è da meravigliarsi del successo
delle scelte politiche ed economiche di Ludovico. Il 1480 fu per lui un anno
importante: si decisero due matrimoni, quello fra il vero erede, Giangaleazzo
Maria e Isabella d’Aragona nipote del re di Napoli (nel 1488 Ludovico fu
insignito dallo stesso re dell’insegna dell’ordine dell’Armellino)
e quello fra Ludovico e Beatrice d’Este, contratti poi negli anni ’90-91, a pochi mesi di distanza
l’uno dall’altro.
Tavola 48 - Il Caduceo. A sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a destra, capitello nel cortile della Rocchetta.
Tavola 49 - A sinistra: Gian Cristoforo Romano, Beatrice d’Este. Parigi, Louvre. Sul corpetto si vede l’impresa del Buratto inserita in un anello con diamante. A destra: Francesco Laurana, Isabella d’Aragona. Vienna, Kunsthistorisches Museum.
Il matrimonio estense lo strappò dalle braccia di Cecilia Gallerani, la
giovanissima favorita. Una dote adeguata, un bel palazzo poco distante dal
castello, un matrimonio conveniente dovettero ripagare
la ripudiata dall’affronto. Forse lo stesso Leonardo o qualcuno della sua
cerchia la salvò dall’oblio cui sono destinate le favorite
celebri una volta abbandonate e la riscattò dal ruolo di cortigiana,
restituendole la dignità di chi aveva saputo vivere con coraggio una storia
d’amore: la immortalò ritraendola in diafane sembianze mentre stringe al cuore
un ermellino. Celebrò il ritratto Bernardo Bellincioni, poeta della corte del
Moro e amico di Leonardo, in un sonetto che ci piace
qui ricordare:
- Di chi ti adiri,
a chi invidia hai, natura?
- Al Vinci che ha ritratto una
tua stella,
Cecilia sì belissima hoggi è
quella
Che a’ suoi begli ochi el sol par ombra oscura.
- L’honor è tuo, se ben con sua
pictura
La fa che par che ascolti e non
favella…
La bestiola che la giovane stringe al petto, con quella mano così
adunca e sepolcrale da far sorgere qualche dubbio sull’autore del quadro, può
essere un’allusione, più che alla purezza di costumi, al carattere giocoso,
imprevedibile e sensuale dell’animaletto e quindi della donna, caratteri che,
assieme alla capacità di ascoltare in silenzio (cosa rara nel genere
femminile), dovevano renderla agli occhi del maturo Signore un’amante
insostituibile. Tale dovette apparire anche quando divenne la contessa
Bergamini. “Tutto il dì – ricorda Matteo Bandello – i più elevati e begli
ingegni di Milano e di stranieri che in Milano si ritrovano, sono in sua
compagnia; quivi gli uomini militari dell’arte del soldo ragionano, i musici
cantano, gli architetti e i pittori disegnano”. La riconoscenza reciproca non
venne mai meno fra i due ex amanti: il loro figlio Cesare fu ritratto insieme a Ludovico e al legittimo erede Massimiliano nella Pala
Sforzesca conservata a Brera; dal canto suo Cecilia per la nascita dello stesso
Massimiliano offrì un memorabile ricevimento in onore di Ludovico e di
Beatrice, non dimenticando però d’invitarvi anche i legittimi duchi Gian
Galeazzo e Isabella d’Aragona.
Tavola 50 - La dama con l’ermellino, ritratto leonardesco di Cecilia Gallerani. Cracovia, Museo Czartoryski.
Tavola 51 - Pala Sforzesca (Milano, Brera). Assistiti dai Padri della Chiesa (da sinistra Ambrogio Gregorio Magno, Agostino e Gerolamo), Ludovico e sua moglie adorano la Vergine. Ma il figlio che sta di fianco al Moro è quello della Gallerani.
Come protettore d’ingegni il Moro fu certamente più fortunato che come
garante di pace. Commissionò al Bramante la ristrutturazione del vecchio
santuario di Santa Maria delle Grazie, dall’architettura ormai “fuori moda”,
perché lo trasformasse in un mausoleo per la propria
famiglia, più consono al gusto dei tempi; assunse Leonardo come musico e
coreografo, affascinato da una sua invenzione, una lira d’argento a forma di
testa di cavallo… Non è la lira una vecchia trovata di Mercurio? In verità da
una lettera di presentazione di Leonardo al Moro possiamo dedurre quanto le
doti di ingegnere militare del neo assunto premessero
al Signore assai più delle sue doti musicali.
Sempre protette dall’insegna di Mercurio ebbero grande incremento le
industrie tessili e quelle collegate della
passamaneria e del ricamo. Il Boltraffio ha immortalato lo sfarzo dei manufatti
milanesi in un famoso ritratto in cui Ludovico indossa un abito interamente
decorato con le imprese sforzesche. Di preziose stoffe fu generoso anche con la
cognata Isabella d’Este, cui regalò un prezioso broccato con la divisa dei
Fanali. Vennero incrementati sotto di lui i commerci
fluviali e terrestri, fu istituito un servizio di posta di Stato; furono
conclusi vantaggiosi contratti per lo sfruttamento delle miniere di ferro,
indispensabili alla fiorente industria armiera milanese e fonte principale di
profitto per il ducato. Le officine dei Missaglia raggiunsero tale reputazione
che Ludovico accompagnava a visitarle gli ospiti più illustri. Non solo, ma
quando dei Missaglia s’incendiò la casa, il Moro fu tra i più solleciti ad
accorrere in aiuto. Il fatto è ricordato da una vecchia impresa rispolverata
per l’occasione: si tratta del Leone Galeato con tizzoni e secchi d’acqua di
Galeazzo II, ma questa volta l’animale si erge su di una base di fiamme e i
secchi alludono ad un vero e proprio intervento di pronto soccorso.
Tavola 52 - A sinistra: Giovanni Antonio Boltraffio, Ritratto di Ludovico il Moro. Milano, collezione privata. Tra le imprese di cui è cosparsa la veste si riconoscono il Morso, la Colombina e la Scopetta. A destra: il Leone Galeato coi secchi emergente dalle fiamme in una lapide esposta al Castello Sforzesco.
In mezzo a queste frenetiche attività manageriali (non ultime quelle
edilizie grazie alla quali rase al suolo Porta
Vercellina per portare a termine il piano urbanistico del padre), Ludovico non
trascurò di ricordare a tutti l’aspetto morale della sua politica. Nel castello
fu eseguito un curioso dipinto di cui esiste una
corrispondente miniatura nel codice trivulziano. Vi era raffigurata una dama in
abbigliamento regale, con veste ricamata ad emblemi delle città italiane.
Accanto stava uno scudiero moro in atto di ripulirla con la famosa Scopetta. A
chi chiedeva lumi, Ludovico rispondeva: “La donna è l’Italia, io sono lo
scudiero, la scopetta è per nettar l’Italia d’ogni bruttura”.
Tavola 53 - Vignetta satirica con Ludovico il Moro intento a ripulire l’Italia con la Scopetta già usata da Francesco Sforza.
Al Moro continuava a dare serie preoccupazioni il nipote Giangaleazzo
Maria, che nonostante i nefasti pronostici medici sulle sue condizioni di
salute e le premure dello zio per infiacchirne fisico e
morale, era riuscito, dopo molte incertezze, ad assicurare alla dinastia
un erede. Quando finalmente nel 1494 l’ingombrante nipote morì,
Ludovico non potè permettersi di attendere oltre: per denaro sonante fu
investito del titolo ducale tanto sospirato da parte dell’imperatore
Massimiliano. Ricordano il memorabile avvenimento una formella della
tomba imperiale di Innsbruck e una miniatura del
codice Arcimboldi. Le trattative per l’incoronazione furono
suggellate dal matrimonio dell’Asburgo con Bianca Maria Sforza, figlia
di Galeazzo e Bona.
Tavola 54 - In alto: l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo con la seconda moglie Bianca Maria Sforza, figlia di Galeazzo Maria, legittimo erede del ducato. La prima moglie era stata Maria di Borgogna.
In basso: il complesso funerario di Massimiliano I nella Hofkirche di Innsbruck. A vegliare il catafalco, sormontato dal defunto orante e decorato con le sue gesta, sta un corteo di statue bronzee raffiguranti predecessori e congiunti dell’imperatore.
Rimpinguò le casse dell’imperatore una dote di 300.000 ducati, escluse
le spese di rappresentanza. Un simile dissanguamento segnò la rovina del Moro.
Non gli servì chiedere denari al suocero Ercole duca d’Este, noto per la sua
parsimonia, o impegnare i gioielli della moglie Beatrice; i nemici erano
rimasti tali, degli amici e dei vecchi alleati… nessuna traccia. La ruota della
Fortuna, come avevano previsto i Tarocchi viscontei, non lascia nessuno allo
stesso posto. Nel 1497 morì Beatrice per un parto prematuro; non dovette
consolarlo più di tanto il figlio natogli poco dopo la morte della moglie da
Lucrezia Crivelli, forse la sua ultima passione, generosa anche di figli. Nel
’99 Luigi XII e il suo esercito, scortati da Gian Giacomo Trivulzio, vecchio
amico dello Sforza caduto in disgrazia e passato al nemico, furono
accolti in città come liberatori nei confronti di un insaziabile
tiranno. Al Moro non restava che fuggire in Germania presso l’imperatore.
Tornato in una Lombardia già occupata dai Francesi, sostenuto dalle
truppe imperiali e con accanto il fratello Ascanio, il
4 aprile del 1500 fu catturato a Novara e trasferito, seppur con i riguardi
dovuti al suo rango, in Francia nel castello di Loches. Non dovette lasciar
rimpianti: l’aristocrazia si adattò senza traumi ai nuovi Signori e i più bei
nomi della nobiltà francese fecero a gara per ospitare e festeggiare il re
Luigi XII e la sua corte nei propri palazzi. Il Trivulzio, risorto coi nuovi Signori dalle ceneri come la Fenice della sua impresa,
commissionò una serie di arazzi inneggianti a una novella età dell’oro protetta
dai gigli di Francia. Il Bramantino ne fece i disegni, la
manifattura fu opera di Benedetto da Milano nell’officina di Vigevano.
Esposti nel suo palazzo in via Rugabella, avrebbero
inaugurato un “grande anno” col tempio di Giano serrato e i serti di quercia
per il generale vincitore e liberatore. Leonardo prese a lavorare per i
Francesi.
Tavola 55 - Gli arazzi Trivulzio.
In tutti la parte alta rappresenta il Sole (a sinistra) e il segno zodiacale relativo al mese (a destra). Al centro c’è un medaglione con le iniziali del Trivulzio, la sua qualifica di Marchese di Vigevano e Maresciallo di Francia e l’impresa di una sirena che spezza una lima col diamante, corredata dal motto “Ne t’esmai” (= non perderti d’animo).
Gennaio ha due facce come il dio Giano che gli dà il nome. Col bastone indica il sole, che si trova nell’Aquario, nell’altra mano tiene una chiave con cui “apre” l’anno. La scritta sul suo podio allude ai lavori del mese; e poiché questi non sono molto impegnativi (si aguzzano i pali per le viti, le galline covano, i buoi si accoppiano) la gente è distesa e riposata; alcuni sono mascherati per un carnevale precoce (ricordo dei Saturnali?). Il tempio sullo sfondo, visibilmente chiuso, è forse quello che i Romani avevano dedicato a Giano e stava chiuso in tempo di pace.
A Settembre il sole è tra Scorpione e Bilancia, mentre il medaglione centrale è circondato da ghirlande verdeggianti. Il personaggio allegorico, nudo e sensuale, ricorda il dio Bacco, e infatti il mese è dedicato soprattutto alla vendemmia, come dmostra il grande torchio che domina la composizione.
Dopo la battaglia di Ravenna nel 1512, con l’aiuto degli Svizzeri il papa mise sul trono milanese il primogenito del
Moro, Massimiliano. A parte un bel Carnevale al quale invitò
anche sua zia Isabella d’Este e le esequie fastose per la morte di un nano di
corte, il nuovo Signore non diede prove di genialità politica. Governò di fatto per lui Gerolamo Morone, al quale dobbiamo anche
la salita al trono dell’altro figlio del Moro, Francesco II, sicuramente più
saggio. Con la morte di quest’ultimo, nel 1535, missioni e sogni di gloria
della dinastia sforzesca andarono definitivamente in fumo.
Tavola 56 - Cristoforo Solari: Monumento funebre di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este. Certosa di Pavia.