Con la morte di Azzone Visconti nel 1339, il governo di Milano passa ai due
zii, Luchino e Giovanni. Poiché l’arcivescovo Aicardo muore quasi nello
stesso giorno, Giovanni Visconti, vescovo di Novara, può ottenere finalmente
dal Capitolo l’ambita nomina ad arcivescovo di Milano. Si ricostruisce in
questo modo quel doppio potere - laico e religioso - che aveva funzionato
così bene mezzo secolo prima con Matteo e Ottone Visconti. A questo punto,
mentre Luchino espande la sua residenza occupando gli isolati verso l’attuale
piazza Missori, anche Giovanni vuole costruirsi una nuova residenza capace di
gareggiare in splendore con la corte di Azzone e di Luchino. Giovanni, si
dice, era uomo di gusti raffinati. Si preoccupa che Azzone abbia un monumento
funebre degno della sua fama e soprattutto riesce con grande abilità
diplomatica ad assicurarsi la permanenza a Milano di Francesco Petrarca, al
culmine della sua fama e richiestissimo dalle più importanti città italiane.
Dal 1339, oppure dal 1342 quando la nomina ad arcivescovo è ratificata dal
papa, iniziano quindi i lavori per la nuova Curia arcivescovile.
Secondo Carlo Torre, che scrive tre secoli più tardi,
“dopo d’essere stato il primiero suo sito parte di quel delizioso
Giardino, detto Viridario, ora Verziere, mutossi in Palagio Ecclesiastico da
Giovanni Visconti...” (Torre, cit., p. 369). Dopo che Azzone aveva mutato in
un proprio giardino privato un pezzo del Viridario, Giovanni ne occupa un
altro bel pezzo costruendo il nuovo palazzo della Curia a ridosso del vecchio
Broletto ormai diventato Corte e proprio sotto la vecchia Curia che sarà
abbattuta nel 1385 per costruire l’abside del Duomo e la sacrestia
meridionale.
Ci sono molti interrogativi senza risposta in merito a
questa operazione di Giovanni. In primo luogo, Giovanni abitava in una casa di
proprietà viscontea che si affacciava sull’attuale piazza Fontana e che è
stata abbattuta negli anni ‘30 di questo secolo per costruire l’isolato
dove c’è la Banca Nazionale dell’Agricoltura. Accanto a lui c’era
ancora la vecchia casa arcivescovile, residenza di Ottone e presumibilmente
degli arcivescovi successivi (quando riuscivano ad entrare in Milano!). L’archivio,
dopo che Matteo aveva distrutto quello di S. Radegonda, dov’era finito? La
Curia era rimasta nel palazzo del Broletto Vecchio accanto all’arcivescovado?
Se era così, possiamo pensare che Giovanni, diventato arcivescovo, avesse
bisogno di una nuova Curia dal momento che Azzone si era appropriato della
vecchia per farne un’appendice della sua nuova Corte. Questa è un’ipotesi
che non è mai stata formulata, ma che potrebbe avere qualche fondamento. Dal
momento però che i Visconti ritenevano che l’area del Viridario fosse di
loro proprietà, Giovanni costruisce il nuovo palazzo come se il terreno fosse
suo, e a scanso di equivoci lo “marchia” con un elegante Biscione che
resta ancora oggi sulla parete di fronte al Duomo.
La forma del palazzo di Giovanni
“Le indagini sull’aggregato di fabbriche di tempi diversi che sul
fianco della Cattedrale e verso il Verziere ospitano la curia dell’Arcivescovo
e le dimore degli ordinari del Duomo, mancano quasi del tutto” (C. Baroni,
cit. p. 243). Così
scriveva cinquant’anni fa Costantino Baroni e le cose da allora purtroppo
non sono molto cambiate. Non abbiamo uno studio sistematico delle murature
sopravvissute ai numerosi cambiamenti subiti dall’antico edificio visconteo.
Comunque, da quanto emerso finora, possiamo affermare che si trattava di un
grande quadrato senza aperture al piano terreno sui lati settentrionale e
meridionale, mentre c’erano senz’altro una o più porte verso il Palazzo e
verso il Verziere. Sulla via del Palazzo Reale possiamo ancora vedere un
frammento della decorazione a marmi bianchi e neri appartenente a un grande
portale. Sopra il piano terreno, altissimo, correva una serie continua di
bifore gotiche racchiuse dentro un arco a tutto sesto. Questi finestroni sono
chiaramente visibili su tre lati, mentre sul lato orientale, coperto dalle
nuove fabbriche della fine del Quattrocento, se ne vede uno solo da via delle
Ore, ma gli altri sono stati ritrovati, e ricoperti, durante i più recenti
lavori di restauro. Una celebre carta dei primi decenni del Quattrocento (fig.
1) ci mostra il palazzo con queste caratteristiche, anche se appare coperto da
un’improbabile tetto a capanna. C’era già un grande portico all’interno?
Gli studiosi non si pronunciano al riguardo, ma a noi sembra più probabile
che non ci fosse, sulla base dei lavori eseguiti dal Pellegrini che
esamineremo più avanti. Nulla si sa anche riguardo alle scale che dovevano
portare alle sale superiori. Un
importante elemento originario di questa costruzione è invece il ponte aereo
che collegava la casa di Giovanni con la Curia. Questo passaggio, sempre
ricordato nei documenti, è ben visibile nella veduta settecentesca di
Marcantonio Dal Re, ed è stato demolito dal Piermarini nel 1783 (fig. 2).
Poiché nulla sappiamo di com’erano a quest’epoca i due corpi di fabbrica
che sporgono dal quadrato verso piazza Fontana, possiamo intanto supporre che
il ponte aereo si prolungasse lungo via delle Ore fino a raggiungere il primo
piano del palazzo.
Più difficile da capire come fosse strutturato quel
corpo che sporge verso nord-est dove attualmente si trova la cappella dell’Arcivescovado.
Cosa c’era lì al tempo di Giovanni? Qualcosa
c’era, dal momento che, se scrutiamo attentamente il muro di mattoni, nel
punto dove sta per iniziare l’ultimo corpo di fabbrica intonacato, scorgiamo
distintamente un pezzetto di merlatura ghibellina, inglobata successivamente
nell’edificio. Forse al tempo di Giovanni c’era un alto muro che chiudeva
il Verziere, raccordandosi al palazzo? (Fig. 3)
Anche sui quattro finestroni antichi che compaiono su
questa facciata (verso via Arcivescovado) ci sono perplessità. Pur restando
esattamente alla stessa altezza delle bifore gotiche, allineamento
sottolineato anche dal marcapiano con gli archetti in cotto, le finestre sono
state costruite più alte e più strette delle altre, con ghiere diverse tra
loro (quali sono originali e quali rifatte?) di gusto più tardo rispetto alle
bifore originarie.
A parte questi dubbi, possiamo comunque immaginare questo
palazzo con la grande base con un muro pieno alto più di 8 metri e la fila di
finestre del secondo piano alto altrettanto. Sul muro intonacato brillavano
disegni geometrici di vari colori, visibili ancora in parte sulla parete
meridionale. All’interno, verso il Duomo, correva un enorme salone
affrescato, con travi in vista sul soffitto, che suscitò l’ammirazione del
Petrarca, che così lo descrive:
“Consedimus regie domus in
medio; aula ingens est, auro vestitis muris ac trabibus, insigni fulgore
mirabilis” [Ci sedemmo nel centro della reggia, dov’è una
gran sala, con i muri e le travi coperti d’oro, meravigliosa nel suo grande
splendore] Familiarum rerum, XVII, 4.
Di questa ricca decorazione ci restano alcune testimonianze, ritrovate nel
sottotetto delle sale sul lato che guarda il Duomo, e precisamente:
- Un giudice con davanti una
donna velata che porta in braccio due neonati;
-
in un paesaggio di rocce due guerrieri, uno dei quali tiene un bambino;
-
una figura di soldato che da una porta aperta procede verso il giudice
in trono;
-
dietro il giudice, una veduta di palazzo merlato affiancato da un muro
di cinta che racchiude un giardino;
-
un volto maschile anziano con barba e baffi;
-
un altro volto maschile giovane con capelli biondi;
-
un gruppo di teste
virili entro una striscia orizzontale;
-
due frammenti di una scena di lotta.
Sono stati inoltre trovate nel sottotetto e negli sguanci dei finestroni molte
decorazioni geometriche e floreali tipiche della metà del Trecento.
Non ci sono attribuzioni di questi dipinti, che sembrano risalire agli ultimi
anni di vita di Giovanni Visconti (1350-54). Si sono soltanto notate vicinanze
di gusto con i coevi affreschi di Avignone e di Milano (Giusto de’ Menabuoi).
Resta testimonianza di un altro affresco (scomparso) con Giovanni Visconti
inginocchiato davanti alla Vergine.
Dopo la morte di Giovanni Visconti il palazzo resta affidato al Vicario che
amministra la giustizia, si occupa della Mensa arcivescovile e custodisce l’archivio.
Per qualche tempo sembra vi abbiano dimorato anche alcuni arcivescovi, ma fino
al 1385 non è chiara la distinzione tra il palazzo nuovo di Giovanni e il
vecchio arcivescovado che ancora sussisteva. Dal 1385, invece, sappiamo che
Gian Galeazzo Visconti, d’accordo con il cugino arcivescovo Antonio da
Saluzzo, fece abbattere sia il vecchio arcivescovado, sia la vicina casa degli
Ordinari. Da questo momento, per tutto il secolo XV, si continua a reclamare
perché la Fabbrica del Duomo risarcisca la Mensa arcivescovile di questa
sottrazione, cosa che avviene parzialmente verso la metà del Quattrocento
quando la Fabbrica del Duomo fornisce all’arcivescovo Stefano Nardini la
casa in via S. Paolo dove attualmente c’è la vecchia sede della Banca
Popolare di Milano.
Con l’arrivo a Milano di Francesco Sforza, si ripopola
la vecchia Corte dell’Arengo e, nei lavori di riadattamento di quel
complesso, viene interessato anche il palazzo di Giovanni Visconti. La nuova
corte ha infatti bisogno di spazio e quindi invade tranquillamente il vicino
complesso. Accanto alla vecchia Curia e all’abitazione del Vicario vengono
così collocate le scuderie, l’abitazione e gli uffici del Capitano di
Giustizia con le prigioni e forse altre guardie di palazzo. Bartolomeo Gadio
nel 1470 relaziona sui lavori fatti sul “pontile da la camera del marmoro in
corte fin a la sala aperta che guarda verso la chiesa del Duomo”. Si
trattava quindi di costruire (o ricostruire?) un passaggio sopra la contrada
dei Caligari (oggi via del Palazzo Reale) che collegava la corte con la sala d’angolo
a nord-ovest del palazzo, su progetto di Giovanni Solari. A questi lavori,
secondo alcuni, risalirebbero anche gli archetti marcapiano che corrono lungo
tutta la facciata verso il Duomo. Il palazzo viene quindi considerato come una
proprietà dei governanti di Milano in uso alla Curia.
Il 23 gennaio 1489 viene nominato arcivescovo di Milano Guido Antonio
Arcimboldi, appartenente ad una famiglia strettamente legata agli Sforza, ai
quali aveva reso importanti servigi operando soprattutto presso la corte dei
papi a Roma. Milano sta vivendo uno dei suoi momenti di grande attivismo
urbanistico che coinvolgono il Castello, il Duomo, le acque e le strade. Il
nuovo arcivescovo intende approfittare di questo momento favorevole per
risolvere l’annosa questione della casa dell’arcivescovo e dei canonici.
La corte è ormai sistemata nel Castello e sta quasi pensando di spostarsi
addirittura a Vigevano dove fervono i lavori della nuova piazza. Si può
quindi pensare che non abbia più bisogno di quella parte del palazzo della
Curia che era occupata ormai stabilmente dal Capitano di Giustizia con le sua
guardie e le relative prigioni. L’idea dell’Arcimboldi è infatti quella
di utilizzare l’intero complesso sia come residenza del Vescovo e dei
Canonici, sia come Curia arcivescovile, e rivolge in tal senso la sua
richiesta al duca Gian Galeazzo Sforza, che governava Milano sotto la tutela
di Ludovico il Moro. La risposta favorevole arriva il 26 luglio 1493, e
possiamo conoscerne molto chiaramente gli intenti e le condizioni perché
possediamo questa minuta riservata inviata dal duca al suo cancelliere
Bartolomeo Calco nella quale ogni aspetto della questione viene esplicitato:
“noi havemo concesso alla chiesa del Domo el loco quale sapeti, per
fare li edefficii necessarii alla habitazione de monsignor l’arcivescovo et
de li ordinarii, et lo habiamo facto per gratificatione de monsignor l’arcivescovo.
Ma perché questo el faciamo per fare quelli edifficii, per li quali monsignor
ne ha promesso, [no lo haveriamo facto nè ‘l faciamo se questo obiecto
manchasse] et potria acadere che, mancando epso monsignor, che non crediamo
cossì presto, et Dio non vogli, succeder(ia) un altro, quello non haveria el
medesimo animo a questa fabrica, o non la potria fare, volemo che in questo
advertiate a specificare ne la concessione che quando questa edifficatione non
se phenissa per monsignor, poso lui, intendemo ch’el sito et opera ritorni
alla Camera da unde è uscita.” (ASMi, Registri Ducali 61, cc.
128 e 129, copia)
Il duca quindi in primo luogo dona l’isolato alla Fabbrica del Duomo e non
all’arcivescovo, perché è questo ente che deve riparare al danno provocato
nel 1385 quando furono abbattuti gli antichi edifici. In secondo luogo, dona
gli immobili per fare le nuove abitazioni dell’arcivescovo e degli ordinari.
In terzo luogo, il gesto corrisponde ad un ringraziamento agli Arcimboldi per
quanto da loro fatto per la casata sforzesca. Quello che prevale è il secondo
motivo, la necessità di risanare e abbellire una zona centrale fortemente
degradata: “no lo haveriamo facto nè ‘l faciamo se questo obiecto
manchasse” e perciò vanno chieste le dovute garanzie all’Arcimboldi
perché avvii subito i lavori e li termini entro quattro anni, dopo di che
inizierà a costruire le case degli ordinari che potranno essere eventualmente
terminate dai suoi successori. In caso di inadempienza l’edificio sarebbe
tornato alla corte. Sottoscritte queste condizioni, l’atto di donazione
viene stipulato il 3 novembre dello stesso anno in
questi termini:
“... totum palatium seu domum, in qua in presentia ipse
dominus archiepiscopus habitat ab altero latere, et ab altero, dominus
capitaneus Iustitiae Mediolani, et in medio sunt stalle nostre, cui toti
edificio seu palatio ab altero latere coheret area quod Viridarium dicitur
Mediolanense, a duabus via publica, et ab alio latere curia nostra, que
dicitur curia Arenghi Mediolani.” (ASMi, Reg. duc. 61, ff. 128
verso-129, copia. Riportato in C. Baroni, cit. pp. 248-249)
Dal
documento sappiamo che l’Arcimboldi già abitava in un lato del palazzo
(verso piazza Fontana) mentre l’altro lato verso la Corte era occupato dal
Capitano di Giustizia. In mezzo, e cioè al piano terreno del grande quadrato,
erano sistemate le stalle.
La Fabbrica del Duomo, responsabile dei lavori, si mette
in moto abbastanza lentamente e inizia i lavori giusto dopo quattro anni, nel
1497, pochi mesi prima della morte dell’arcivescovo. Malgrado il patto molto
rigido stipulato tra le parti, i lavori continueranno anche dopo la caduta
degli Sforza, almeno fino al 1504. In questo periodo vengono realizzate sia le
finestre rettangolari e tonde in cotto verso via Arcivescovado, sia le
finestre in pietra d’Angera e cotto della facciata che sono state poi
sostituite dal Piermarini. All’interno sono realizzate le ali del portico
verso nord ed est con i capitelli scudati che recano lo stemma degli
Arcimboldi (tre stelle), le finestre al primo piano e le porte al piano
terreno sugli stessi lati che recano sul fregio le iniziali di Guido Antonio
Arcimboldi (GV. AN. AR.) (Figg. 4-5)
Il
portone, sostituito in seguito da quello del Pellegrini, non si sa come fosse:
forse non era stato nemmeno realizzato. Comunque si trovava, com’è ancora
oggi, spostato verso sinistra rispetto all’asse della facciata, perché
seguiva la simmetria del cortile interno. A coronamento dell’opera l’Arcimboldi
fa costruire una grande loggia che copre tutto l’ultimo piano, dove corre
una serie di finestrine secondo un modulo che ricorda l’analogo coronamento
della Bicocca degli Arcimboldi, abitata in quegli anni dallo stesso
arcivescovo.
Resta da capire se in questi anni viene realizzato il
terzo portico del cortile (verso sud) oppure se viene realizzato più tardi e
da chi. Il terzo portico, eguale agli altri due, infatti non porta le iniziali
dell’Arcimboldi ma quelle di Carlo Borromeo - CAR. BOR. - anche se è
piuttosto improbabile che sia stato realizzato a quell’epoca. Non si conosce
l’architetto di quest’opera, che pure corrisponde alle esigenze di
eleganza e decoro richiesti dal duca. Nei documenti della fabbrica figurano i
nomi di Ambrogio della Valle e dell’Amadeo, che potrebbero però essere
intervenuti soltanto come funzionari della Fabbrica responsabili del controllo
sui lavori.
Nel 1507, nel periodo migliore della dominazione francese
quando Leonardo inizia il suo secondo soggiorno milanese, si pensa di
riprendere i lavori e affrontare la Canonica degli Ordinari, questa volta su
progetto dell’Amadeo, che è ormai il più accreditato architetto della
città. Purtroppo nulla sappiamo di questo progetto, che resta comunque sulla
carta. Nello stesso periodo l’ambasciatore veneziano Michiel scrive di aver
visto nella curia arcivescovile “pitture a fresco che risplendono fin
oggidì come specchi .... de man de maestri vecchissimi”. La parte della
Curia, all’inizio del Cinquecento, era dunque ancora come l’aveva lasciata
Giovanni Visconti nel 1354.
L’ultimo Arcimboldi che risiede nel palazzo è Giovanni
Angelo, dal 1550 al 1555. Secondo il Morigi (Nobiltà di Milano, p. 150), questo arcivescovo esegue molte opere
“in supplimento di quelle di Guido Antonio, con sua grave spesa”. Vuoi
vedere che è lui l’autore del terzo portico? In ogni caso dovrebbe essere
una sua committenza il grande affresco con Sant’Ambrogio di scuola tardo
luinesca che si trovava sotto il portico settentrionale e che ora, staccato,
è collocato al primo piano nella sala del Faldistorio.
L’opera di Carlo Borromeo e Pellegrino Pellegrini
Nel 1560, all’età di 22 anni, Carlo Borromeo riceve
dallo zio, il papa Pio IV, l’incarico di seguire la contabilità della Mensa
arcivescovile come amministratore della diocesi di Milano. E’ uno dei tanti
incarichi di routine che l’attivissimo nipote svolge in questi anni a Roma.
Dal cugino Guido, inviato ad ispezionare il palazzo, veniamo a sapere che “vi
era ogni cosa in ruina”, una diagnosi forse esagerata per la residenza dell’arcivescovo
che era stata usata e risistemata solo cinque anni prima, ma certamente
realistica per la parte della Curia che da due secoli non era stata più
toccata. Le biografie di San Carlo Borromeo ci raccontano che fu la morte del
fratello Federico - il 19 novembre 1562 - che provocò in lui quella profonda
conversione che lo indusse, tra le tante cose, a decidere di tornare a Milano
per sviluppare direttamente ed energicamente la sua opera pastorale. Dal 1563
infatti egli inizia a pensare a quella totale ristrutturazione dell’isolato
che sarà realizzata negli anni successivi.
In primo luogo si adopera per liberare quella parte del
palazzo che era ancora occupata dal Capitano di Giustizia, con i suoi
ufficiali, i soldati e le scuderie. Si trattava presumibilmente di tutto il
piano terreno e del primo piano sul corpo occidentale e meridionale del grande
quadrato visconteo: quelle parti cioè che verranno in seguito donate al
Capitolo degli Ordinari. Verso la fine del 1563, a pochi giorni dalla sua
consacrazione ad arcivescovo di Milano, il Borromeo fa eseguire i rilievi del
palazzo dal Pellegrini, giunto appositamente da Pavia per sovrintendere ai
lavori. Con la primavera seguente tutto il primo piano del corpo di fabbrica
verso il Duomo è interessato da una profonda
ristrutturazione che per prima cosa fa sparire i lucenti affreschi
trecenteschi (o forse sono ancora sotto l’intonaco?). Si crea così una fila
di saloni che si concluderanno, verso est, con la nuova cappella. Sull’angolo
del cortile dell’Arcimboldi viene creato lo scalone d’onore che introduce
all’appartamento dell’arcivescovo e alla nuova curia. Le nuove sale, per
volontà esplicita del Borromeo, devono essere molto semplici, quasi
disadorne, prive di ogni decorazione pittorica. Anche le travature a vista dei
soffitti vengono semplicemente ridipinte color legno per renderle uniformi.
Solo la cappella dovrà avere una volta e un campanile. Quest’ultimo però
non sarà mai realizzato.
Il lavoro più impegnativo riguarda invece le prigioni,
alle quali il Borromeo dedica particolare attenzione. La loro ristrutturazione
viene fatta a spese delle stesso Borromeo, e non della Mensa arcivescovile, e
curata dall’architetto Bernardo Lonati, che lavorava al diretto servizio dei
Borromeo. Le prigioni erano nella parte sud est del palazzo dei Canonici,
nella torre d’angolo del palazzo che sporgeva sul resto dell’edificio
raggiungendo i 4 piani. Questo spazio viene allargato verso ovest creando un
corpo massiccio, più alto del resto dell’edificio, ancora oggi ben visibile
da via delle Ore. Al centro di questo corpo viene lasciato un piccolo cortile
che separa le due ali con le celle. La struttura di queste carceri prevedeva
al piano terreno la sala degli interrogatori e una saletta a parte per i
tratti di corda. Mediante una scaletta si saliva ai tre piani superiori e alle
celle poste sui due lati del cortiletto. Ad ogni cella viene dato il nome di
un santo mentre quella più in alto si chiamava “il Paradiso”. Il Biffi (Sulle
antiche carceri, cit. p. 77), che le visitò nel secolo scorso quand’erano
ancora come le aveva costruite il Borromeo, ce le descrive in questi termini:
“sul frontone delle loro porte si vede ancora scritto il nome
di un santo, da cui ciascuna cella pigliava il nome; è poi strano che una fra
le peggiori, invece di essere contrassegnata dal nome di un santo, porta il
numero 13, che volgarmente si ritiene di infausto
augurio. Vi sono tre celle ad ogni piano, e ognuna di esse è un
bugigattolo a volta, con grosse mura, con doppi usci massicci, l’interno dei
quali ha uno sportellino per passare i cibi al detenuto: internamente una
piccola canna serviva da latrina, un’angusta finestretta posta in alto, in
direzione obliqua, munita di doppia e grossa inferriata, lasciava penetrare a
stento un po’ d’aria e di luce; qualche stanzino poi non ha neppure
traccia di finestra. In generale le camerette de’ piani più bassi sono le
peggiori, e dovevano essere riservate ai detenuti sottoposti a più duro
castigo.”
Anche il palazzo dell’Arcimboldi, in condizioni migliori rispetto al
resto dell’edificio, viene in parte modificato, ma non stravolto, anche
perché bisognava sbrigarsi prima dell’arrivo a Milano del nuovo
arcivescovo, atteso per il settembre 1565. Sul Verziere il Pellegrini crea un
grande portale con l’impresa borromaica del dromedario dentro il cesto. La
loggia superiore viene completamente chiusa e sostituita da un forte
cornicione a mensole. Sugli spazi tra le ultime mensole, a destra e a
sinistra, si inseriscono altre due “imprese” della casata: a destra l’”Umilitas”
e a sinistra il “caval marino” o “liocorno”, quest’ultimo scomparso.
Le finestre dell’Arcimboldi non vengono toccate, né quelle sulla facciata,
né quelle interne sul cortile.
Tutti questi lavori sono conclusi entro l’estate del 1565. Il 15 ottobre si
deve aprire il Concilio provinciale che fa accorrere a Milano i vescovi dell’intera
Provincia ecclesiastica: Cremona, Brescia, Bergamo, Vigevano, Alessandria,
Alba, Vercelli, Tortona, Casale Monferrato e Acqui, nonché i rappresentanti
dei vescovi di Lodi, Novara, Asti e Savona.
Carlo Borromeo arriva a Milano il 23 settembre per
seguire direttamente i preparativi. I suoi appartamenti al primo piano verso
il Duomo sono già pronti, manca solo la cappella. Sulle soffitte sopra queste
sale dormivano i suoi più di cento servitori. Sotto i portici settentrionali
dell’Arcimboldi c’era la Cancelleria con i suoi notai. Sul lato
meridionale del cortile dovevano esserci le cucine, il refettorio e, ai piani
superiori, le abitazioni dei Vicari Generale, Civile e Criminale. Il corpo
dell’edificio posto tra i due cortili - detto il Quarto dei Vescovi - era
riservato ai numerosi ospiti. Nella sala più a nord di questo corpo, al primo
piano, viene creata una cappelletta provvisoria dove si verificherà nel 1569
il famoso attentato contro l’arcivescovo. Nella fila di stanzette che si
affacciano sul Verziere sono alloggiate le persone più vicine al Borromeo.
Naturalmente il Quarto dei Vescovi non poteva ospitare tutti i convenuti per
il Concilio: una parte di essi viene cortesemente ospitata nella Corte dal
Governatore, mentre per alcuni si ricorre al nuovo palazzo costruito da
Tommaso Marino.
Finito il Concilio, il Borromeo ritorna a Roma, ma prima
è riuscito a convincere il governatore a cedere finalmente i locali occupati
dalle scuderie della Corte in modo da poter iniziare le case degli Ordinari. L’incarico
è affidato sempre al Pellegrini che studia il modo di sistemare questi
appartamenti lungo tutto l’altissimo piano terreno che viene diviso in due
piani. Ogni abitazione doveva avere “quattro lochi: una salotta, uno studio,
un loco per la servitù et un altro che si li viene uno forestiero o parente
possi alogiar” (Pellegrini, L’Architettura,
cit., p. 47). Gli appartamenti a livello del cortile avevano anche una cantina
con pozzo, quelli all’ammezzato si servivano dei pozzi sul cortile. Sempre
al piano terreno (non si dice dove) sono predisposte delle stallette che
saranno fonte di continue lamentele per il loro cattivo odore. Altre
abitazioni sono costruite al primo piano sul lati verso via del Palazzo Reale
e via delle Ore, fino alle prigioni. La ultime tre sale del primo piano verso
la corte sono anch’esse destinate ai Canonici come Biblioteca, Archivio e
Sala Capitolare. Forse per questa ragione vengono rispettate le ultime tre
bifore trecentesche, mentre le altre sono danneggiate dagli spostamenti delle
finestre voluti dal Pellegrini sulle facciate. Con le nuove e numerose
aperture praticate su tutte le facciate, sparisce comunque ogni traccia dell’aspetto
trecentesco sotto uno strato di intonaco che ne conserverà le tracce fino ai
recenti ritrovamenti.
Per
accedere alle loro abitazioni, i Canonici si servono di due nuovi portoni
(verso il Duomo e verso via delle Ore) e di due nuove scale in corrispondenza
ai portoni. La scala verso via delle Ore è realizzata a chiocciola e termina
con un curioso lanternino che sporge dal tetto. Il lavoro più impegnativo e
di maggior pregio tra quelli realizzati dal Pellegrini per il palazzo è senz’altro
quello dei portici del cortile, che resta ancora oggi uno degli esempi più
riusciti di architettura manierista. (Figg. 6-7) I lavori per realizzare il
doppio loggiato del cortile dei Canonici si protraggono per molti anni. Iniziano
probabilmente nel 1572 per concludersi verso il 1589, dopo la morte del
Borromeo e la partenza per la Spagna del Pellegrini. Per questa ragione, e per
alcune note di lavoro rimaste, che parlano di fondazioni dei piloni, possiamo
pensare che sia stata un’opera del tutto nuova e non un semplice rifacimento
di un portico gotico. Non sono riuscito a trovare comunque una conferma certa
di questa ipotesi.
Nel 1573, avviata la costruzione del portico, il
Pellegrini appalta i lavori delle scuderie, quella curiosa costruzione
poligonale quasi all’angolo tra via delle ore e via del Palazzo Reale che
molti a Milano chiamano
la “Rotonda dei pellegrini” anziché la “Rotonda del
Pellegrini” perché non sospettano che il Pellegrini era l’architetto
autore della costruzione. Anche qui ci sono dubbi non risolti: c’era già
qualche edificio rotondo in quel posto che è stato utilizzato per le
scuderie? E’ possibile appurarlo attraverso l’analisi delle murature?
Speriamo si possa un giorno chiarire anche questo dubbio. E’ abbastanza
curiosa e inedita infatti la scelta di costruire delle scuderie su due piani
sovrapposti e non sarebbe facile giustificarla se non si trattasse del riuso di
un edificio preesistente. Comunque, benché restaurato e convertito ad altre
funzioni, l’edificio delle scuderie si mantiene ancora oggi molto vicino all’originaria
costruzione cinquecentesca. Sopra i due piani delle scuderie (uno per i
cavalli ed uno per i muli) c’è la grande sala voltata dei fienili. Resta
anche il bel pronao classico, il vano del pozzo e l’elegante scala a
chiocciola. (Figg. 8-9-10)
Terminata la terribile peste del 1576 (la Peste di S.
Carlo), il Borromeo compie un’operazione suggeritagli probabilmente proprio
da quella tremenda esperienza: inizia a costruire un lungo sottopasso che dall’angolo
del palazzo dei Canonici arriva dentro il transetto del Duomo sbucando nella
sacrestia meridionale, che apparteneva appunto al Capitolo degli Ordinari. In
questo modo - deve aver pensato Carlo Borromeo - peste o non peste questi
signori possono sempre celebrare le loro funzioni nella Cattedrale. A metà
del percorso, nel mezzo della via Arcivescovado, il Pellegrini crea anche un
lanternino di aerazione sormontato da una statua di S. Sebastiano di
Cristoforo Solari il Gobbo e anche questo è un indizio che si trattava di una
“strada protetta” in caso di pestilenza.
Le opere di Federico Borromeo
Purtroppo non abbiamo alcun documento riguardante i lavori eseguiti da
Federico Borromeo nel palazzo. Si tratta comunque di lavori minori eseguiti
nella casa arcivescovile, soprattutto la facciata ovest del cortile, in uno
stile che ricorda Fabio Mangone. Probabilmente era l’inizio di un nuovo
rivestimento “moderno” del cortile per metterlo in sintonia con quello del
Pellegrini. Un altro lavoro eseguito per conto di Federico Borromeo è la
torretta posta sopra il vano dello scalone d’onore, che viene alzato di due
piani grazie ai rinforzi delle murature creati dal Pellegrini. Il locale più
in alto, con una finestra su ogni lato, era chiamato la Stanza dei Quattro
Venti. L’arcivescovo vi si recava per godere “della bella veduta de’
lontani paesi, de’ campi, e de’ monti, e sopra tutto del nascente, e
cadente sole, che più di ogni altra cosa gli piaceva quindi veder’, e
contemplare” (Rivola, Vita di Federico
Borromeo, Milano, 1656, p. 476).
Forse proprio per la serenità che ispirava, questo luogo
in seguito viene scelto dalla Curia per deporvi i corpi degli arcivescovi
morti in attesa della solenne esposizione in Duomo. Altri lavori minori
vengono eseguiti dopo la canonizzazione di S. Carlo nel 1610, come l’affresco
con S. Ambrogio e S. Carlo sull’arcone che passava sopra la via S. Clemente.
Anche le due grandi statue di S. Ambrogio e S. Carlo nel cortile potrebbero
essere state lì collocate in questa occasione. Il palazzo dell’arcivescovado
in questi anni diventa quasi un sacrario del santo che lo aveva restaurato e
vissuto. Valeva la pena di accentuare questo ricordo senza tradire il suo
amore per la semplicità. Solo la piccola cappella dov’era solito ritirarsi
a pregare riceve una ricca decorazione pittorica con affreschi alle pareti di
Domenico Pellegrini (episodi della vita di S. Carlo) e un soffitto ligneo
dipinto con angeli e vescovi da un seguace del Moncalvo.
La collezione del Cardinal Monti
Dopo la morte di Federico Borromeo, arriva a Milano per governarne
lungamente la diocesi il cardinale Cesare Monti, uomo colto e sensibile, tutt’altro
che portato alla vita ascetica e austera. Per prima cosa fa mettere i vetri
alle finestre nelle sale delle udienze. Poi compera una bella villa sul
Naviglio Grande nei pressi di Magenta da affiancare a quella già utilizzata
dai Borromeo a Groppello d’Adda. Si fa anche preparare un appartamento nel
Collegio Elvetico da usare come residenza suburbana sulla Strada Marina che
stava allora diventando il passeggio di moda per le “carrette”. Anche il
Quarto dell’Arcivescovo, che correva sul primo piano di fronte al Duomo,
deve assumere un aspetto più elegante, quasi da Corte. Prima di tutto bisogna
ampliarlo occupando le ultime tre sale dei Canonici che trasferiscono
biblioteca, archivio e sala capitolare in ““illas aedes a fronte claustri
Canonicae .... contra aedes Archiepiscopales”, una espressione che dovrebbe
indicare il lato sud del cortile. L’anno dopo il suo arrivo, nel 1636, fa
chiudere tutto il primo piano del portico settentrionale dove viene creata una
grande Galleria, seguita da alcune sale. Quest’ultimo lavoro serve
soprattutto per disporre in bell’ordine la grande collezione di quadri
raccolta dall’arcivescovo negli anni precedenti e che doveva emulare la fama
della collezione donata da Federico Borromeo all’Ambrosiana. Altri quadri
sono distribuiti nelle sale di rappresentanza del palazzo e nelle ville. Il
primo inventario di questa grande raccolta è del 1638 e ci permette di
conoscere i nomi di alcune sale e quindi l’uso che se ne faceva a quest’epoca.
Lungo la via Arcivescovado, partendo dalla cappella, troviamo quindi l’Anticamera,
la Sala dei Palafrenieri, l’Anticamera dei Gentiluomini, la Camera della
Croce e altre sette stanze tra cui una chiamata “la Galariola”. Accanto
alla Camera della Croce c’era la camera da letto invernale dell’Arcivescovo.
Verso il cortile c’era la libreria, la stanza del segretario e la Galleria.
Nell’inventario successivo, redatto alla morte del Monti nel 1650, si cita
anche la Stanza delle Congregazioni “al fino della Galleria a ponente”.
La collezione, tra quadri e disegni, annoverava nell’inventario del 1638 ben
257 opere, che si riducono a 221 nell’inventario successivo che accompagna l’atto
di donazione di una parte della collezione agli arcivescovi di Milano suoi
successori. Fanno parte della raccolta molte copie di opere di pittori famosi,
ma anche alcuni capolavori soprattutto di scuola lombarda. Questi ultimi,
attraverso alcune operazioni non troppo eleganti che vedremo più avanti,
passeranno nella Pinacoteca di Brera. La maggior parte dei quadri sono invece
rimasti in arcivescovado.
Le successive donazioni
L’idea di Cesare Monti di arredare l’arcivescovado con una
moltitudine di dipinti ha subito successo, impegnando i successori a seguirlo
per questa strada. E non solo i successori: nel 1688 Francesco Riccardi,
parroco di S. Maria Fulcorina, lascia 44 dipinti prevalentemente a soggetto
religioso, seguito l’anno dopo dall’arcivescovo Filippo Visconti che dona
ben 112 dipinti tra cui alcune “rovine”. Nel 1737 è la volta di Benedetto
Erba Odescalchi, che arricchisce la quadreria con i ritratti di 41 vescovi da
S. Barnaba a S. Carlo per completare la serie dei ritratti iniziata alla fine
del Seicento e proseguita fino ad oggi. Completa la serie il Pozzobonelli, con
il quale la quadreria da richiamo “elegante” ai valori religiosi diventa
in qualche modo fine a se stessa arricchendosi di una serie di quadri “arcadici”
con paesaggi e scene pastorali.
Con la Descrizione di Milano del
Latuada degli anni 1737-38 entriamo finalmente nel palazzo. Nel cortile più
piccolo dell’Arcimboldi troviamo un pozzo centrale, le due grandi statue e i
portici, uno dei quali (probabilmente quello di sinistra) “è ferrato per
tenere guardate le Carrozze dell’Arcivescovo”, segno che allora rubavano
le vetture anche da dentro i cortili. “Le stanze terrene servono per la
Curia Ecclesiastica Civile e Criminale, ove stanno i Notai, gli Scrittori, gli
Attuari, e Cancellieri con le loro assegnate incombenze e giuredizioni in tal
foro”. Segue l’elenco dettagliato di queste cariche (pp. 74-75) che
comprendono anche “il Cavaliere o sia Barigello con sei fanti”, la famosa
“famiglia armata” dell’arcivescovo. Nel secondo cortile, il Latuada ci
indica, sotto il cornicione, le imprese borromaiche scolpite nel fregio: il
freno, l’alicorno, il “camelo” (sic) e l’Umilitas, presenti ancora
oggi. Ricorda inoltre gli appartamenti degli Ordinari, le carceri con le
stanze per il Custode, le due scale e la Biblioteca del Capitolo. Seguono
molte pagine nelle quali è riportato l’inventario dei quadri presenti nell’arcivescovado
e nelle ville sopra ricordate.
La situazione quindi non è mutata rispetto alla sistemazione organizzata da
Carlo Borromeo, soltanto le grandi sale disadorne del Quarto dell’Arcivescovo
si sono rivestite delle più varie immagini. Anche il contorno è rimasto
inalterato: la via dell’Arcivescovado e il Verziere è ancora stracolmo di
banchi di generi alimentari tra i quali si aggirano entusiasti i ghiottoni
milanesi.
Le modifiche del Piermarini
A partire dal 1770 Milano è messa a soqquadro dal Piermarini. Si
vuole rendere soprattutto il centro degno dell’augusta presenza dell’arciduca
Ferdinando e della sua Corte. In seguito le direttrici da valorizzare partendo
dalla piazza del Duomo saranno quelle verso S. Babila, piazza della Scala e il
Cordusio, ma questo sarà il frutto di decisioni successive. In questo momento
invece si pensa di creare il percorso più elegante in direzione di porta
Tosa: un’idea destinata ancora oggi a non decollare. Il Piermarini si muove
decisamente in questa direzione. Nel 1776 il mercato viene tolto dalla piazza
dove è prevista la costruzione di una serie uniforme di facciate neoclassiche
come sfondo di un’importante fontana pubblica che sarà messa in opera tra
il 1781 e il 1782.
Il 27 aprile 1783 muore l’arcivescovo Pozzobonelli, che
non aveva molta simpatia per le innovazioni introdotte da Maria Teresa e da
Giuseppe II nelle questioni ecclesiastiche. Si approfitta subito della sede
vacante per avviare i lavori di abbellimento della facciata dell’arcivescovado
che doveva costituire il pezzo forte dell’arredo della nuova piazza. La sede
vacante, oltre ad evitare ogni discussione con l’arcivescovo, consentiva
anche di addebitare le spese dei lavori alla Mensa arcivescovile, con il
pretesto che il palazzo aveva comunque bisogno di restauri. Il Piermarini
riceve già il 31 maggio l’incarico dei lavori, che iniziano il 4 settembre
successivo per concludersi nella primavera del 1783, prima dell’insediamento
del nuovo arcivescovo Filippo Visconti. La facciata verso il Duomo non subisce
modifiche, basta una semplice reintonacatura. Sulla facciata verso piazza
Fontana invece si interviene con garbo, sostituendo le finestre
quattrocentesche con nuove finestre che si richiamano a quella posta dal
Pellegrini sopra il portone, che viene anch’essa sostituita. La parete viene
inoltre alleggerita da una serie di finestre al piano terreno allineate con
quelle del primo piano. Tranne quelle laterali, queste finestre sono puramente
decorative, perché si aprono sul portico. Il lavoro più impegnativo riguarda
l’angolo verso via S. Clemente dove c’era ancora il ponte coperto che
raccordava il palazzo arcivescovile con l’antico palazzo visconteo ormai
completamente trasformato in abitazioni private. La demolizione del ponte crea
infatti un grave dissesto nella muratura dell’angolo del palazzo, che era
molto sottile. Si scopre cioè che era il ponte che sosteneva il palazzo e non
viceversa. Si procede comunque con le opportune riparazioni e si completa il
cornicione del Piermarini facendolo svoltare su via delle Ore e, per
simmetria, anche su via Arcivescovado. Il rifacimento dell’angolo fa
scomparire il “caval marino” borromaico che si trovava tra le ultime due
mensole.
La bufera napoleonica
Le iniziative della corte asburgica si erano limitate a modificare la
facciata est del palazzo. Con l’arrivo di Napoleone le mani vengono
allungate senza riguardo all’interno del palazzo. Nel 1796 è abolito il
Capitolo degli Ordinari che devono lasciare gli appartamenti mentre le
prigioni accolgono i prigionieri del governo repubblicano. Resta stranamente
in attività la famiglia armata dell’arcivescovo. Nel 1802, dopo il ritorno
di Napoleone vittorioso sugli austro-russi, gli appartamenti dei canonici sono
addirittura messi in vendita. Rimasti fortunatamente invenduti, il 15 novembre
1802 sono dichiarati beni erariali e successivamente dati in uso ai canonici
quando poco dopo il Capitolo sarà ricostituito. Nello stesso anno il pittore
Andrea Appiani esegue un inventario completo delle pitture presenti nel
palazzo che sono:
- 200 quadri del lascito
Monti (nella Galleria e ambienti vicini)
-
21 del lascito Riccardi e Visconti (nella Galleria e ambienti vicini)
-
54 quadri del lascito Visconti ed Erba Odescalchi (nel Quarto dei
Vescovi)
-
150 opere del Pozzobonelli (nei due Gabinetti)
Questo inventario è importante per le attribuzioni che il formidabile occhio
dell’Appiani formula sulle singole opere, distinguendo quasi sempre quelle
autentiche dalle copie e dalle opere di bottega. L’inventario non viene
eseguito per mera curiosità, ma per cercare opere interessanti per la
nascente Pinacoteca di Brera che l’Appiani stava allora istituendo. Si
arriva così ad un accordo che impone all’arcivescovo la consegna di 23
dipinti e disegni della collezione Monti in cambio di 18 opere di Brera. Tra
queste opere sono esposte oggi a Brera quelle di Bonifacio Veronese (già
attribuite a Giorgione e Tiziano), di Paris Bordone, del Mazzola e di alcuni
altri lombardi. Una seconda e più cospicua sottrazione di quadri della
collezione Monti da parte dell’arcivescovado, sempre in direzione di Brera,
verrà effettuata dopo molte polemiche dallo Stato italiano nel 1896 seguita
da una di minore entità concordata nel 1906 con il cardinal Ferrari. Sono
trasferiti in tutto 19 quadri tra cui alcune opere molto importanti come Lo
sposalizio mistico di S. Caterina di G.C. Procaccini, il San
Luca che dipinge la Madonna di Jan de Beer, l’Adorazione
dei Magi del Correggio, la Madonna
col Bambino del Bramantino e il famosissimo “quadro delle tre mani”
eseguito congiuntamente da G.C. Procaccini, il Cerano e il Morazzone. In
cambio vengono dati 16 tra quadri e disegni, tutte opere di scuola o copie.
Restauri e restauri...
Negli anni della restaurazione austriaca poco succede dentro e fuori
il palazzo. Si eseguono opere di ordinaria manutenzione sulle facciate verso
via delle Ore e verso la Corte. Negli anni ‘40 però, in concomitanza con la
demolizione della Cassina (il Duomo ormai è quasi finito!) e la costruzione
del nuovo palazzo della Fabbrica del Duomo, si pensa che la facciata verso il
Duomo sia davvero troppo indecente rispetto al suo magnifico contorno. Il 19
novembre 1846 muore, dopo molti anni di governo, l’arcivescovo Gaysruck ed
ecco che la sede vacante fa venire molte idee. Si vorrebbe una degna facciata
sul lato settentrionale del palazzo e si incarica l’ingegner Caimi di
studiare un progetto. Il progetto viene disegnato, discusso, criticato,
rivisto, ripresentato, ridiscusso. Poiché sappiamo tutti com’è oggi la
facciata nord dell’arcivescovado e considerando che questi disegni non erano
nemmeno molto interessanti dal punto di vista architettonico, possiamo
risparmiarci di ripercorrere il deprimente calvario di questa idea, che si
protrasse per almeno venti anni, fino al sindaco Beretta.
Negli ultimi decenni dell’Ottocento ben poco succede nel palazzo, poco
abitato dall’arcivescovo Nazari di Calabiana inviso al clero temporalista
milanese per i suoi stretti legami con gli odiati Savoia. Oltre a qualche
opera di manutenzione sono da ricordare soltanto l’arrivo dei due colossi di
pietra nel cortile dei Canonici e la decorazione a fresco della Cappella. Le
due grandi statue - il Mosè di
Antonio Tantardini e l’Aronne di
Giovanni Strazza - erano state commissionate per il Duomo e dovevano essere
collocate ai lati della Madonna dell’Albero. Una volta finite, ci si accorse
dell’inadeguatezza della scelta e così finirono in deposito nella chiesa di
S. Giovanni in Conca da dove, nel 1870, furono infine trasportate nel cortile
dove ancora si trovano.
La nomina ad arcivescovo di Milano del cardinale Andrea
Ferrari nel 1894 segna l’inizio di una nuova epoca, durante la quale la
diocesi torna ad essere governata direttamente ed energicamente dai suoi
arcivescovi ed il palazzo vede rifiorire al suo interno una nuova vita e molte
nuove attività. Tutto ciò si traduce in una continua ricerca di nuovi spazi
che devono essere trovati all’interno dell’isolato nella zona di
pertinenza della Curia. I primi lavori, promossi dal Cardinal Ferrari, sono
affidati a Cesare Nava che si cura sia di ampliare sia di decorare la zona
verso piazza Fontana.
I lavori, iniziati alla fine del 1897, si concludono all’inizio del 1900. Il
Nava costruisce un nuovo corpo lungo la parete prospiciente sulla piazza
spostando il portico in avanti di una campata e riducendo dunque il cortile.
Anche la balconata pensile è conseguentemente spostata in avanti. A ricordo
di questi lavori lungo tutto il lato est del cortile le porte e le finestre
recano le iniziali AND.C.FER. del cardinale. Le pareti del cortile sono
inoltre rifinite con decorazioni neo-rinascimentali (fig. 4) forse riprendendo
brandelli della decorazione originaria. Luca Beltrami decora invece la Sala
del Faldistorio con motivi floreali e motti latini. Verso il Duomo sono
restaurate (o rifatte?) le finestre in cotto del Quattrocento mentre vengono
aperte tre porte verso la strada per ricavare locali aperti al pubblico. Sopra
gli appartamenti dell’arcivescovo si predispongono degli spazi per un grande
archivio. E’ facendo questi lavori che vengono la luce alcuni frammenti di
affreschi trecenteschi che saranno studiati dal Toesca e pubblicati nel 1912:
è la sala del giudizio con i giudici seduti in cattedra e la veduta del
Verziere.
Nel
1935 accade un fatto di notevole importanza anche se non interessa
direttamente il palazzo: il comune di Milano cede alla curia il palazzo
adiacente dov’era la casa di Giovanni Visconti e l’ospedale del Brolo in
cambio del vicino isolato su via delle Ore dove Carlo Borromeo aveva sistemato
i Canonici minori e gli Ostiari. Entrambi gli isolati vengono abbattuti per
allargare via S. Clemente e creare la nuova via S. Tecla. Un millennio di
storia scompare in poche settimane. Anche un piccolo ponte coperto che
collegava l’arcivescovado con la casa degli Ostiari passando sopra via delle
Ore scompare per sempre. (Fig. 11)
Nel dopoguerra, il palazzo,
danneggiato dai bombardamenti viene restaurato più volte. Nel 1949 si
restaura la Rotonda del Pellegrini per assegnarla
come sede all’Ambrosianeum. Nel 1950 il Capitolo ristruttura il terzo
piano verso via delle Ore e via Palazzo Reale per ricavare alloggi nel
sottotetto. Nel 1954-55 durante il restauro della facciata verso il Duomo
vengono messe in vista le bifore trecentesche creando nel contempo l’attuale
inestricabile groviglio di buchi. Durante questi stessi restauri sono
strappati gli affreschi del sottotetto e collocati nella sala delle udienze;
si restaura l’Oratorio di S. Carlo e si rifà la scaletta per accedervi;
viene creato al primo piano sul lato nord-ovest della Canonica, un
appartamento per il Vicario e uno per il segretario dell’Arcivescovo con
accesso dallo scalone posto in quell’angolo; sono sistemati sul sopralzo del
corpo tra i due cortili i giovani seminaristi che studiano in aule preparate
sul lato sud della Canonica, nelle ex carceri. Tutti questi lavori sono
eseguiti da Antonio Cassi Ramelli.
Dal 1973 al 1978, l’ingegner
Ferrari da Passano esegue un’altra importante serie di restauri nel corso
dei quali si consolida la torretta con incastellature metalliche; si risanano
i sotterranei recuperandovi un sarcofago visconteo che viene collocato tra le
due statue del cortile dei Canonici; si ristrutturano tutti i sottotetti
trasformandoli in uffici. Durante questi ultimi lavori sono rintracciati altri
affreschi trecenteschi. Scavando per realizzare gli ascensori sono rinvenuti i
rocchi di colonna oggi al Civico Museo Archeologico. E’ restaurato anche il
lato sud della Canonica: spariscono le ultime prigioni tranne una sola cella
con la sua finestrella su via delle Ore. E’ un rinnovo totale dell’interno
dell’edificio, fatto soprattutto per ampliare e rendere più confortevoli
gli uffici. Gli spazi comunque non sono mai sufficienti: nel 1985 il grande
archivio della Curia arcivescovile si sposta nella vicina chiesa di S. Stefano
in Brolo, che, dopo tanti secoli, torna a svolgere le funzioni già esercitate
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modifica: lunedì 29 luglio 2002
paolo.colussi@rcm.inet.it