“Ad un Principe magnifico si addice di fare grandi spese
a vantaggio di tutta la comunità (come dice il filosofo nell’Etica), dato che
i beni comuni hanno qualcosa che li assimila ai beni consacrati a Dio. Infatti
il bene divino mal si può rappresentare in una singola persona, o in un ambito
privato o personale; ma il culto o il bene divino risplendono più vivamente
nella comunità intera. Così Azzone Visconti, signore della città, al quale
spetta la cura di tutta la società urbana (universitas),
dopo aver curato la costruzione della sua residenza privata, in modo magnifico
pervenne ad occuparsi degli edifici pubblici. E, tralasciando le mura della città,
di cui ho riferito più sopra, si dedicò con molto impegno a ricostruire la
torre della chiesa maggiore, che giaceva distrutta da quasi 180 anni, e cominciò
a costruirla con grandi mezzi; e pose all’intorno i vessilli delle sei porte,
su scudi marmorei. E così anche i vessilli della Chiesa, dell’Impero e dei
Visconti. E, poiché le pareti di questa torre e della chiesa maggiore erano
unite da taverne, fece distruggere tutto; e così ordinò che vi si facesse una
grande piazza piana, molto utile alle attività mercantili. E, come si
riferisce, si deve collocare sul lato della torre, che guarda in direzione di
Santa Tecla, un monumento equestre dorato, che rappresenta la persona di Azzone
Visconti. Si ignora quanto dovrà essere la futura altezza di questa torre; ma
quando avrà raggiunto l’altezza di 250 o 245 braccia, vi sarà posto sulla
sommità un bastone pastorale.”
Ho
ritenuto opportuno iniziare con questa lunga citazione da Galvano Fiamma perché
essa segna in qualche modo la data di nascita della piazza del Duomo. Mentre
Azzone Visconti e poi Giovanni occupavano con i loro palazzi le aree che erano
state per secoli sedi dei mercati dei tessili e degli alimentari, era necessario
infatti creare uno spazio nuovo “molto utile alle attività mercantili” da
affiancare alle nutrita serie di botteghe che circondavano Santa Tecla. La
nuova piazza dell’Arengo creata da Azzone viene ad occupare l’area compresa
tra le due basiliche, che era delimitata a sud dal palazzo del Signore e a nord
era separata dalla “carradizia” da un edificio di proprietà pubblica
affittato a vari generi di negozi. Quest’ultimo edificio dal XV secolo sarà
noto come il Coperto delle Bollette. (Vedi fig.1 e fig.2)
Per
creare questo spazio e nobilitarlo, Azzone demolisce intorno al 1330 le taverne
che si trovavano accanto al campanile diroccato della cattedrale e inizia la
ricostruzione del campanile stesso che doveva diventare la nuova torre civica.
Sul fronte della torre era anche prevista la collocazione di una statua equestre
di Azzone come un segnale di svolta destinato ad eclissare l’antico monumento
a Oldrado da Tresseno che si trovava sul fronte del Broletto Nuovo. Gli accessi
alla piazza erano chiusi con porte che si trovavano probabilmente - come
sostiene Ada Grossi - tra Santa Tecla e il Coperto delle Bollette (accesso da
nord) ed anche alla fine della contrada dei Pellizzari (accesso da ovest). Penso
che si possa aggiungere una terza porta nel punto dove sfociavano nella piazza
le contrade dei Berrettai e dei Cappellari. (Vedi fig. 2)
I
lavori dopo la morte di Azzone vanno però a rilento e sono funestati nel 1353
dal crollo della torre civica che danneggia anche la facciata di S. Maria
Maggiore. Quando poi Gian Galeazzo Visconti fa abbattere nel 1385 anche le case
del vescovo e dei canonici che si trovavano dietro S. Maria Maggiore, il panorama
della piazza doveva assomigliare a quello offerto da molte zone di Milano dopo i
bombardamenti del 1943.
La
demolizione del battistero di S. Giovanni
Come
se non bastasse, due anni dopo viene abbattuto - sempre secondo la Grossi (p.
38) - anche il battistero di S. Giovanni alle
Fonti. Su questo punto però vale
la pena di soffermarsi un momento per vagliare la plausibilità dell’ipotesi.
Un documento della Fabbrica del Duomo afferma che il 4 novembre 1387 le colonne
del battistero vennero riposte in un vano chiuso nella cripta di Santa Tecla. Ciò
può confermarci nell’idea che nel 1387 il battistero non esisteva più, ma
testimonia anche della sua recente demolizione? Non sarebbe stato più logico
demolirlo al tempo di Azzone, quando si volle creare la nuova piazza? Le colonne
potrebbero anche essere state riposte da qualche parte e recuperate nel 1387 dai
decumani preoccupati che potessero sparire nella grande confusione del cantiere
del Duomo.
A
parte la demolizione di S. Giovanni, comunque, sulla piazza dell’Arengo
avvengono poche trasformazioni a causa del Duomo, che sta crescendo dietro S.
Maggiore Maggiore, piuttosto lontano dalla piazza. Resta solo da chiarire il
mistero della nuova facciata di S. Maria Maggiore, che viene realizzata
in un’epoca imprecisata della seconda metà del Trecento e secondo un
disegno che potrebbe addirittura rinviare all’inizio del Quattrocento. Il
silenzio dei documenti della Fabbrica su quest’opera ha sempre imbarazzato
tutti gli studiosi, che hanno preferito sorvolare sull’argomento.
Durante
la prima metà del Quattrocento e ancor più dopo l’ascesa al potere di
Francesco Sforza la piccola piazza del Duomo si anima per le feste
dell’Oblazione, una sorta di Carnevale estivo che serviva per rimpinguare le
casse della Fabbrica del Duomo. Da giugno a settembre infatti, le maggiori
corporazioni e le sei Porte della città organizzano splendidi cortei con figure
allegoriche che raggiungevano il sagrato del Duomo per deporvi le offerte
raccolte tra i cittadini. Molti eminenti personaggi della Corte contribuiscono
alla festa fornendo idee e quattrini. Nel settembre del 1458 l’Oblazione
offerta da Porta Vercellina e organizzata dal cancelliere ducale Domenico
Guiscardi prende uno strano indirizzo: viene rappresentata l’elezione a
pontefice di Pio II Piccolomini, avvenuta il 19 agosto precedente, con scene di
grande giubilo corrispondenti alla soddisfazione del duca per questa elezione
da lui tanto auspicata. La cosa strana è che la parte del papa nella pantomima
è affidata al buffone di corte Bassano che festeggia la nomina con canti e
balli. Sembra un episodio sconcertante, dai toni quasi giacobini, e invece ci
serve solo per misurare la grande distanza nei gusti e nei comportamenti che
corre tra noi e quei tempi così lontani. Il papa infatti non solo gradì lo
scherzo, ma si affrettò a soddisfare rapidamente la richiesta di Francesco
Sforza e della Fabbrica del Duomo di demolire l’antica e gloriosa basilica di
Santa Tecla per creare una grande piazza degna del Duomo che, proprio grazie al
duca, poteva ora avanzare fino alla sesta campata. La bolla papale, datata 11
novembre 1458, arriva a Milano suscitando due ordini di proteste. Da un lato, i
decumani protestano per la sparizione della loro chiesa a soprattutto degli
altari, fonte di cospicui redditi annui. In secondo luogo, protestano i mercanti
addossati alle pareti della basilica e nel Paradiso, che hanno firmato contratti
d’affitto e non sanno quale sarà la loro sorte futura. L’abilità
diplomatica di Francesco Sforza favorisce il raggiungimento di un rapido
compromesso: per i decumani sarà edificata una nuova Santa Tecla in fondo alla
nuova piazza; invece ai mercanti sarà riservato un edificio da costruirsi lungo
il vecchio muro settentrionale della basilica, il Coperto dei Figini. Stabilito
questo, il 3 marzo 1461 l’arcivescovo Carlo da Forlì può decretare la
demolizione dell’edificio e la traslazione (che si dice temporanea in attesa
della nuova Santa Tecla) delle reliquie in Duomo. S. Galdino, S. Tecla, S.
Prassede e il Santo Chiodo prendono così solennemente la via del Duomo per una
sistemazione provvisoria che dura fino ad oggi.
Il Portico dei
Figini
La
fase della demolizione di Santa Tecla inizia con l’abbattimento della zona
absidale e della copertura. Pochi anni dopo, nel 1466, sparisce il muro
meridionale e con lui la contrada dei Pellizzari. Nel 1467 Pietro Figino inizia
a costruire il nuovo coperto che occupava la zona della navata e che era
costituito da una fila di locali fronteggiati da un portico sopra i quali
vengono costruiti due piani decorati con eleganti finestre in cotto. Non
rientravano nel coperto né la zona dello pseudotransetto, né quella del
Paradiso, che probabilmente non erano comprese nel programma originario. La
costruzione del Figino, come le successive aggiunte lungo le parti restanti del
muro della basilica, è attribuita a Guiniforte Solari, ingegnere della Fabbrica
del Duomo che si sarebbe ispirato al vicino Coperto delle Bollette. (Fig. 3) Con
la conclusione del portico verso il Duomo intorno al 1480 la piazza prende
quella forma regolare che ci viene descritta, con qualche licenza, da Cristoforo
de Predis nella sua famosa miniatura del 1476.
Un’altra
celebre miniatura, quella del Libro d’Ore Borromeo, ci mostra la piazza in
modo più realistico con la facciata di S. Maria Maggiore, il coperto e, in
mezzo alla piazza, altri banchi di venditori.
Subito dopo la demolizione del tetto, infatti, la Fabbrica del Duomo si era
affrettata ad affittare l’area della basilica a un numero spropositato di
“ambulanti” assegnando a ciascuno un quadrato di 4 braccia per lato (2,4
metri) per raccogliere almeno una parte dell’enorme somma necessaria per
costruire il tiburio. Contemporaneamente la Fabbrica preme perché le venga
assegnata quest’area almeno come risarcimento per le spese sostenute per le
demolizioni. La questione, rimasta in sospeso per dieci anni, viene finalmente
sanata il 24 febbraio 1477, una giornata storica nella quale Bona di Savoia e
Cicco Simonetta riescono (provvisoriamente) a tacitare le pretese di Ludovico il
Moro e dei suoi fratelli, assetati di potere dopo l’uccisione del fratello
Galeazzo Maria nella chiesa di S. Stefano. Frastornata e felice per quella
vittoria, Bona di Savoia deve aver pensato di terminare in bellezza la giornata
accordando la tanto sospirata piazza alla Fabbrica del Duomo: un alleato in più
nelle battaglie future che già si preannunciavano. Da allora in avanti, per più
di due secoli, la piazza del Duomo sarà occupata più o meno densamente da
questi banchi contro i quali, come vedremo, cercheranno invano a più riprese di
lottare i governatori spagnoli.
Il
progetto della nuova S. Tecla
E
la nuova Santa Tecla? Per molto tempo gli studiosi si sono affaticati
inutilmente nel cercare di capire come mai ci fossero due demolizioni di Santa
Tecla - una nel secolo XV e un’altra nel secolo XVI - ma oggi, grazie al
paziente lavoro di Ada Grossi, possiamo capire abbastanza bene come sono andate
le cose. La facciata e il Paradiso dell’antica basilica non vengono demoliti
nel 1461 ma vengono lasciati in piedi sia perché erano occupati dalle botteghe,
sia perché la vecchia facciata doveva servire da ingresso per la nuova chiesa.
E in effetti nel 1481 si costruisce una piccola chiesa rotonda, che volge le
spalle al Duomo e che utilizza come
ingresso l’antica porta di Santa Tecla. Purtroppo non conosciamo le fattezze
di questo edificio, che alcuni hanno supposto che fosse stato ideato dal
Bramante. Si sa soltanto che i lavori procedettero faticosamente e tra mille
polemiche senza veramente concludersi mai. Si sa anche che la chiesa aveva
almeno un altro ingresso verso il Duomo e che almeno una cappella sporgeva dal
corpo circolare dell’edificio. La copertura, forse prevista a cupola, non
venne probabilmente mai realizzata.
Nel
1548 Vincenzo Seregni formula un nuovo progetto per la piazza del Duomo che ci
è giunto fortunatamente grazie ad un prezioso disegno della Raccolta Bianconi
(fig. 4).
E’
atteso con ansia in città l’arrivo del nuovo sovrano Filippo II e si stanno
facendo imponenti preparativi per riceverlo degnamente. Archi trionfali posticci
sono disseminati lungo tutto il percorso da Porta Ticinese al Duomo. Arrivando
dalla contrada dei Mercanti d’oro si va a sbattere contro il vecchio Paradiso
che sbarra la strada al solenne corteo, ed ecco che si verifica l’evento
inatteso: tutto ciò che restava del Paradiso e della facciata di Santa Tecla,
inclusa la retrostante chiesetta rotonda, viene abbattuto in un baleno assieme
alla pescheria vecchia e nuova che occupavano l’area tra il Paradiso e il
Broletto. Il disegno del Seregni riporta la situazione immediatamente precedente
a questo terremoto e traccia con inaudito coraggio urbanistico le linee
essenziali di quella che avrebbe dovuto essere la nuova piazza al compimento dei
lavori dei Duomo. Si vede quindi la nuova facciata del Duomo con ai due lati due
grandi torri-campanili, la gradinata che lo circonda da ogni lato e il
Camposanto rettangolare dietro l’abside. Davanti al Duomo è prevista una
grande piazza quadrata realizzata demolendo, oltre a Santa Tecla, anche i
coperti dei Figini e delle Bollette, il Rebecchino, un bel pezzo della Corte
ducale, e parte dell’isolato posto tra la contrada dei Mercanti d’oro e
quella dei Cappellari. Nella piazza, ovviamente, è proibito collocare ogni
genere di banco di vendita. E’ in sostanza prefigurato quasi alla lettera il
progetto del Mengoni del 1863, salvo la zona retrostante il Duomo dove il
Camposanto non sorgerà mai.
Di
tutte queste idee grandiose, l’unica che sarà attuata, come si è detto, è
la demolizione del Paradiso e della nuova Santa Tecla, mentre l’isolato della
pescheria vecchia viene adibito ad abitazioni private. Al deluso Capitolo di S.
Tecla, che ha visto scomparire in un attimo ogni prospettiva di disporre di una
propria chiesa, viene concesso l’uso del Duomo che da allora (fino ad oggi) è
anche sede della parrocchia di S. Tecla.
In
questi anni di grandi prospettive e di pochi soldi, non solo si prefigura la
piazza del Mengoni, ma emerge addirittura la prima proposta di quella che sarà
la Galleria Vittorio Emanuele. Il 10 maggio 1560 il celebre banchiere genovese
Tommaso Marino ottiene l’autorizzazione per aprire una nuova via di
collegamento tra la contrada del Marino e la piazza che doveva emulare la
splendida Strada Nuova (oggi via Garibaldi) di Genova. Anche questo progetto,
che voleva eliminare le casupole che da sempre occupavano parte dell’area
della Galleria, rimase un sogno nel cassetto destinato a realizzarsi nei
favolosi anni ‘60 dell’Ottocento.
L’arrivo
a Milano del Borromeo e la sua intensa opera di riforma non incide affatto sul
destino della piazza del Duomo, che resta praticamente immutata per tutta la
seconda metà del Cinquecento. Negli immediati contorni invece il Borromeo
interviene per incoraggiare il rinnovo della chiesa di S. Raffaele (1569), che
viene ampliata e dotata di una nuova facciata attribuita al Pellegrini o
all’Alessi. Dietro al Duomo è soppressa (ma non demolita) la chiesa di S.
Michele (1582) che viene in parte affittata e in parte utilizzata dalla Fabbrica
del Duomo.
Federico
Borromeo opera in modo più incisivo del cugino, riuscendo a convincere il
governatore a cedere un pezzetto del suo palazzo per consentire l’avvio dei
lavori della facciata del Duomo. Questo accordo, che viene siglato nel 1615,
consente finalmente l’apertura di un più comodo canale commerciale verso il
Verziere spostando in quella direzione i mercati che vengono ad occupare sia
l’attuale piazza Fontana, sia la piazza di S. Stefano in Brolo. Dal lato nord
della piazza,
intanto, si demolisce il Coperto delle Bollette (1614) e si avvia la costruzione
delle ultime due campate del Duomo.
Nel
1630, l’incisione che rappresenta i festeggiamenti per la nascita dell’erede
di Spagna e il monte Etna sbuffante in mezzo alla piazza (fig. 5) ci fornisce la
prima veduta realistica della piazza, confermata da altre due incisioni, del
1633 e del 1635, che illustrano altre giornate festose con i milanesi che
accorrono a godersi questo grande spazio aperto. (Figg. 6 e 7) Quest’uso della
piazza per celebrare importanti avvenimenti o per far sfilare interminabili
processioni si protrae per tutto il Seicento e il Settecento. Nel frattempo però
le botteghe sulla piazza, scacciate dal Gonzaga nel 1548 e dal Fuentes nel 1606,
sono sempre lì. Solo verso la fine del Seicento sembra che si sia riusciti ad
allontanarle, ma probabilmente mai del tutto.
Secondo
il Latuada, che scrive nel 1737, la piazza è ormai “disoccupata e selciata
nel pavimento con cordoni di pietra viva, che la dividono per quadrato”. (Descrizione
di Milano, I, p. 69) Ma è ancora più interessante ciò che aggiunge, che
dimostra come il vecchio progetto cinquecentesco del Seregni continuasse a
covare sotto le ceneri:
“Al fine di dare compimento al premeditato disegno,
dovrebbe questa [la piazza] essere allargata con la demolizione dell’isola di
Case, che sta alla destra [il Rebecchino], ed indi riddursi in perfetto quadrato
circondato in ogni parte da Portici lavorati ad uniforme struttura, con perenne
fontana nel mezzo. A noi basta per ora di dire ciò che essa fosse, e sia al
presente, senza aggiungere ciò che sarà per essere in avvenire, massimamente
non avendovi alcun fondamento per credere, che ciò in brieve possa essere
ridotto a perfezione.”
Sembra
di cogliere un certo tono di rassegnazione nel nostro saggio autore, deluso da
due secoli di vana attesa. Eppure mancava ormai soltanto poco più di un secolo
al coronamento di tante speranze. Quando alla “perenne fontana nel mezzo”
bisogna lasciar sperare qualcosa anche ai nostri nipoti!
L’apertura
del palazzo Reale operata dal Piermarini e la conseguente creazione di una
seconda piazza posta lateralmente alla prima e più antica, produce qualche
sconcerto in coloro che erano rimasti fermi al “perfetto quadrato”
ricordato dal Latuada. Lo
spazio ora è più animato ed è diventato, si potrebbe dire, “bicefalo”.
All’unico punto di vista fisso rappresentato dal Duomo e rinforzato dalla
Madonnina, viene ora a contrapporsi un secondo centro - il portale di palazzo
Reale - sormontato dal grande stemma asburgico. La sistemazione di piazza
Fontana (1775-1782) e l’apertura della nuova contrada di Santa Radegonda
(1784) iniziano intanto a dilatare verso nord (piazza Scala) e verso est (San
Babila) il “centro” di Milano a scapito del lato ovest della piazza che
rimarrà trascurato fino al 1860. (Fig. 8)
In
epoca napoleonica il tema della piazza ritorna di attualità e tutti pensano
che andrebbe ampliata sacrificando il Coperto dei Figini e l’isolato del
Rebecchino. Nel 1805, con la proclamazione dell’impero, Giuseppe Pistocchi
presenta alcuni grandiosi “Piani di Foro” da realizzare nella “Piazza
Maggiore di Milano”. (Fig. 9) Già i termini Foro e Piazza Maggiore
preannunciano il programma volto a sminuire il Duomo rispetto alle altre
funzioni civili della piazza. Alla facciata del Duomo si cerca infatti di
contrapporre altri elementi monumentali forti che ne attenuino la rilevanza.
Per il Pistocchi questi elementi erano: due grandi archi di trionfo ai lati
della facciata, una colonna coclide al centro della piazza, un grande edificio
a U sul lato ovest comprendente i tribunali, le sedi delle associazioni
professionali (notai, avvocati, ingegneri, artisti e mercanti) e due grandi
caffè. Il progetto, per mancanza di soldi, è rinviato a tempi migliori, ma
l’idea dei due archi di trionfo contrapposti al Duomo sarà ripresa e in
parte attuata dal Mengoni.
Durante
il periodo della Restaurazione (1814-1859) il dibattito sulla piazza si fa
sempre più vivace. Nel 1839, in un momento di tregua delle lotte
risorgimentali quando il nuovo imperatore Ferdinando I voleva accattivarsi le
simpatie dei milanesi, sembra che vada in porto il progetto del marchese
Giulio Beccaria, pensato in modo da costare poco ma con un’idea interessante
che purtroppo non avrà seguito: tra via S. Raffaele e via S. Radegonda è
prevista una grande esedra porticata che permette di ammirare comodamente il
grande complesso del tiburio del Duomo, invisibile dalla corta piazza
antistante la facciata. (Fig. 10)
L’unica
zona di questo progetto che viene avviata e conclusa è quella dietro il
Duomo, dove si demoliscono le case del vecchio cantiere della Fabbrica del
Duomo per costruire il nuovo palazzo della Fabbrica. Il progetto
dell’architetto Pietro Pestagalli, approvato nel 1839, viene costruito tra
il 1841 e il 1853 e sarà completato con le statue del Giorno e della Notte
poste ai lati dell’orologio negli anni 1860. Scompaiono quindi gli ultimi
resti della chiesa di S. Michele, mentre viene conservata la chiesa di S.
Maria Annunciata in Camposanto inglobandola nel palazzo.
L’antefatto
del progetto della piazza e della Galleria del Mengoni che ha trasformato
completamente l’area della quale ci stiamo occupando risale agli anni
immediatamente antecedenti la seconda guerra di indipendenza, quando per
l’ultima volta l’Austria tenta di attenuare l’ostilità dei milanesi nei
suoi confronti con il governo di Massimiliano d’Asburgo. Nel 1858 viene
creata piazza della Scala demolendo i caseggiati che si trovavano tra il
teatro e palazzo Marino. Contestualmente si pensa di collegare la nuova piazza
a piazza del Duomo con una strada abbattendo i modesti caseggiati che si
trovavano su quell’isolato. Il progetto è approvato nel febbraio 1859, ma
la guerra che inizia due mesi dopo ne interrompe l’esecuzione. L’idea però
è tutt’altro che dimenticata: il 28 giugno dello stesso anno, quattro
giorni dopo la decisiva vittoria di S. Martino e Solferino, una delegazione di
autorità milanesi si reca da Vittorio Emanuele II per rendere omaggio al
futuro sovrano d’Italia e per offrirgli l’intitolazione della nuova
strada.
L’entusiasmo
per le vittorie franco-piemontesi e per l’imminente realizzazione del nuovo
regno d’Italia fanno lievitare subito le ambizioni della città e della sua
nuova giunta presieduta da Antonio Beretta. All’inizio del 1960 si è già
arrivati all’idea di rifare l’intera piazza, ripescando le infinite
discussioni intercorse nei decenni e nei secoli precedenti. Mancando però i
soldi, il 9 gennaio si lancia una Lotteria civica: con un biglietto da 10
franchi si concorreva ad un premio di 400.000 franchi che sarebbe stato
sorteggiato un anno dopo, il 9 gennaio 1861. In attesa dei fondi, il 3 aprile
vengono invitati tutti i cittadini a presentare progetti ed idee per la nuova
strada e per la nuova piazza, che vengono vagliati sommariamente in luglio ed
esposti al pubblico in agosto a Brera. In questo modo si precisano meglio i
contorni del progetto e si possono definire in modo più concreto i termini
del concorso, che viene indetto pubblicamente l’1 maggio 1861. I progetti
dovevano prevedere: 1) una piazza porticata larga m. 122; 2) una Galleria di
collegamento (oppure una strada) tra piazza Scala e piazza del Duomo che
doveva iniziare esattamente di fronte a via Rastrelli; 3) un palazzo in fondo
alla piazza con tre sottopassaggi dietro al quale doveva correre una nuova via
di collegamento tra via S. Margherita e piazza Missori che sostituiva la
strada ormai diventata Galleria commerciale. I progetti elaborati sulla base
di questi requisiti vengono esaminati nell’estate del 1862. La commissione
tra i 18 progetti presentati ne premia quattro giudicandoli però non del
tutto validi. Il progetto del Mengoni - chiamato “Dante” - non viene
premiato, ma riceve molti consensi.
Il
1863 è l’anno decisivo. Si indice un secondo concorso al quale vengono
invitati i tre architetti che avevano ricevuto maggiori consensi: Giuseppe
Mengoni, Giuseppe Pestagalli (figlio di Pietro Pestagalli, l’autore del
palazzo della Fabbrica e del gugliotto omonimo) e Nicolò Matas. Il Matas
rinuncia subito perché impegnato con la nuova facciata di S. Croce a Firenze;
restano in lizza gli altri due, e cioè un architetto milanese molto radicato
nella città grazie anche alla fama paterna e un giovane romagnolo di 34 anni
che fino a quel momento non aveva al suo attivo alcuna realizzazione di
qualche importanza. Strano a dirsi (ma seguendo una logica medievale secondo
la quale è meglio che il podestà sia uno straniero) tra i due viene scelto
il Mengoni, il cui progetto è approvato dal Consiglio comunale il 15
settembre 1863 (fig. 11).
Questo
progetto, che subirà in seguito alcune modifiche, prevedeva una piazza
quadrata come quella cinquecentesca del Seregni segnata all’altezza della
Galleria e della Manica lunga da due grandi archi di trionfo simili a quelli
del Pistocchi. Il Duomo, in questo progetto, torna ad essere il protagonista
della piazza mentre viene molto attenuato il peso del Palazzo Reale relegato
in un angolo morto della piazza. Il carattere laico dell’insieme viene però
salvaguardato dai due archi trionfali sopra i quali erano previste due
quadrighe simili a quelle dell’Arco della Pace. Questi due imponenti
monumenti avrebbero concorso senz’altro ad attenuare l’imponenza della
facciata del Duomo creando una seconda direttrice nord-sud di rilevanza quasi
pari e quella naturale rivolta verso est.
Apportate
le modifiche richieste il progetto viene approvato nel 1864 e il 7 marzo 1865
Vittorio Emanuele II può porre la prima
pietra della Galleria in un clima festoso rovinato da un’improvvisa e
violenta nevicata che fa fuggire al riparo gran parte degli invitati. La ditta
inglese che aveva vinto l’appalto dell’opera - la City of Milan
Improvements Company Limited - realizza la grande crociera della Galleria in
soli tre anni. Il 15 settembre 1867 la Galleria è aperta al pubblico ed uno
dei primi a stabilirvisi è il signor Gaspare Campari, già titolare di un
locale nel Coperto dei Figini, ormai prossimo alla demolizione. Suo figlio
Davide Campari sarà il primo bambino nato in Galleria.
Finita
la Galleria, si procede con i lavori sulla piazza, ma ben presto la società
finanziaria inglese mostra tutta la sua fragilità e il Comune di Milano è
costretto nel 1869 ad acquistare la Galleria, l’area dove sorgerà il
Palazzo dei Portici meridionali e le opere già realizzate del Palazzo dei
Portici settentrionali, cedendo a sua volta tutta l’area ad est della
Galleria ai privati perché continuino a loro spese il palazzo con l’obbligo
di seguire il previsto progetto del Mengoni. I due palazzi sono terminati nel
1875 e con l’arrivo a Milano dell’imperatore di Germania Guglielmo I si
procede a demolire l’isolato del Rebecchino, rimasto fino ad allora in mezzo
alla piazza. Mancavano ormai soltanto i due grandi archi di trionfo, sui quali
c’erano molte titubanze da parte delle autorità comunali le cui casse erano
desolatamente vuote. Il Mengoni, che voleva ad ogni costo vedere conclusa
degnamente la sua opera, lotta perché la sua opera sia portata a termine,
esponendosi anche con il proprio denaro nell’appalto dei lavori. Purtroppo
paga molto cara questa testardaggine: il 30 dicembre 1877, durante un ultimo
sopralluogo sui ponteggi dell’arcone ormai quasi terminato, l’architetto
precipita al suolo e muore. Si parlò di incidente, ma anche di suicidio o
addirittura di omicidio. Il caso allora venne archiviato come suicidio, ma
ancora adesso la studiosa Laura Gioeni, in uno studio recente sulla vicenda,
ha sottolineato alcuni aspetti che potrebbero far pensare ad un suicidio del
Mengoni, che sarebbe stato fortemente penalizzato se non fosse riuscito a
concludere l’opera entro il 31 dicembre.
Dopo
la morte del Mengoni ben poco succede nella piazza, che rimane ancora oggi
quasi inalterata. Nel 1896, dopo molti anni di gestazione, si inaugura il
monumento a Vittorio Emanuele II di
Ercole Rosa che ha sul basamento un altorilievo rappresentante l’ingresso a
Milano di Vittorio Emanuele II e di Napoleone III dopo la battaglia di
Magenta, mentre i due leoni ai lati proteggono uno scudo sabaudo e uno scudo
con la scritta ROMA. Nel 1928 viene eliminato il “Carosello”
dei tram che girava attorno al monumento e si affida all’architetto
Portaluppi la realizzazione del nuovo sagrato e della pavimentazione della
piazza, che vengono realizzati così come li vediamo ancora oggi.
Nel
1936 si pone mano al secondo “arco di trionfo” di fronte a quello della
Galleria. Il concorso, vinto dagli architetti Portaluppi, Muzio, Magistretti e
Griffini, ci regala il palazzo dell’Arengario, un elemento moderno che oggi
molti guardano con indifferenza, ma che continua a disturbare gli amanti
dell’equilibrio neorinascimentale del Mengoni. Resta sempre in sospeso il
problema del palazzo di fondo, mai realizzato, che recentemente l’architetto
Gardella voleva in qualche modo evocare
con il suo alto muro-fontana mirante a nascondere il brutto palazzo Carminati
ancora velato dalle sue “moderne” insegne luminose.
In questo modo avrebbe esaudito, almeno in parte, sia il sogno del Mengoni,
sia quello più antico del Latuada, che sta sempre aspettando la sua “perenne
fontana nel mezzo”. Ma anche a noi “basta
per ora di dire ciò che essa fosse, e sia al presente, senza aggiungere ciò
che sarà per essere in avvenire, massimamente non avendovi alcun fondamento
per credere, che ciò in brieve possa essere ridotto a perfezione.”
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(Brera Coll It P 327/30)
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Ultima modifica: lunedì 29 luglio 2002
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