Palazzo Fontana Silvestri
di Maria Grazia Tolfo
Uno dei palazzi più cari ai milanesi lungo il corso di Porta Venezia (n. 10-12-14, retro in via S. Damiano 7-9-11), Casa
Fontana-Silvestri, con l'aria sobria ma festosa dei palazzetti rinascimentali, racchiude il sé un intrigante interrogativo: è opera
ascrivibile a Donato Bramante? (Vedi schede sul Bramante in italiano:
in inglese:
in spagnolo:
) Sfortunatamente, infatti, non sappiamo con precisione né chi furono i
proprietari, né chi si occupò dell'architettura e della decorazione pittorica.
A venirci incontro nell'identificazione del proprietario ci resta solo uno stemma, ripetuto nei capitelli del portico e
nelle decorazioni dei saloni: una fontana a due bacini, appartenente alla famiglia dei De Fontana o, più semplicemente, Fontana. E' un cognome molto rappresentato a Milano,
anche in famiglie altolocate che potevano permettersi un palazzetto di tutto riguardo come questo. Dei Fontana fu dal 1466 al 1482 la custodia della Porta Orientale, con annessa
casa di guardia. Ma chi erano i Fontana proprietari dell'edificio di cui ci occupiamo? Gli unici documenti di cui disponiamo per ricostruire la storia della proprietà
dell'edificio sono i testamenti, dai quali si può ragionevolmente risalire a Francesco Fontana quale committente dei lavori rinascimentali nel palazzo omonimo.
Più difficile identificare con precisione gli artisti che lavorarono alla riedificazione e alla decorazione
dell'edificio. Lomazzo assegna le pitture a Bramante, Vasari le attribuisce al Bramantino; problemi sussistono per stabilire se il progetto architettonico e decorativo fu
unitario o realizzato in fasi successive; anonimo è rimasto l'autore del portale e della parte scultorea del cortile interno, dove predomina il motivo della candelabra: si è
fatto il nome di Tommaso da Cazzaniga, ma per motivi esclusivamente stilistici.
Il magnifico Francesco
Il primo proprietario documentato della casa è Matteo Pirovano, figlio di Filippo. I beni immobili di Porta Orientale
gli erano pervenuti in eredità dalla madre, Clara Casati, la quale li aveva ricevuti dalla sorella Caterina, terza moglie di Gerolamo Fontana, abitante a Porta Vercellina.
Gerolamo era l'erede universale di Francesco Fontana, che sappiamo aver abitato per alcuni anni a Porta Orientale, in parrocchia di S. Babila intus.
E' stato quindi attraverso una ricerca a ritroso nei documenti che si è giunti a identificare il proprietario che lasciò il suo stemma nella decorazione del palazzo.
Francesco Fontana di Chiari (BS),
medico, figlio di Giovanni Bettino, sposò Jacopa dei Quattrocastelli e successivamente Ursina Vignola. Entrò in possesso della casa in Porta Orientale pochi anni prima del
1486, quando ottenne la cittadinanza milanese. Divenne membro del consiglio segreto nel 1490 e commissario "sopra le monete"; nel 1495 ottenne la carica di senatore. Fu
molto apprezzato come diplomatico, tanto che lo si trova come oratore della Corte Ducale presso il re Mattia Corvino di Ungheria, per il quale trattò il matrimonio con Beatrice
d'Aragona. Morì a Milano il 13 novembre 1504 all'età di 70 anni.
Nel 1502, in un momento in cui era in collera col figlio Gerolamo, Francesco redasse un testamento nel quale lasciava la
sua bella casa di Porta Orientale all'Ospedale Nuovo, affinché venisse venduta a scopi benefici. Questo provvedimento punitivo rientrò già con il secondo testamento del 1503,
dopo la riappacificazione col figlio Gerolamo, ma da un terzo testamento risulta che comunque dopo il giugno 1504 Francesco aveva lasciato il palazzetto di Porta Orientale per
trasferirsi a Porta Vercellina. In questi documenti vengono citate le sorelle Giovanna, sposata a Alberico de Fontis e Lucia, vedova di Antonio de Maninis, e i suoi figli
Gerolamo, erede universale, Vittoria e Clara, monache.
Gerolamo figura in un documento
del 6 febbraio 1492 tra i collaterales equitantes banchi et stipendiatorum del Duca, ossia tra i preposti agli organi di controllo, che
collaboravano coi maestri delle entrate. Aveva sposato in terze nozze Caterina Casati, ricordata nel testamento redatto nel 1522 nella sua abitazione di Porta Vercellina. Quindi
sembrerebbe di arguire che Gerolamo non abitasse nella casa di Porta Orientale, che rimase di sua proprietà ma probabilmente affittata a terzi, tra cui gli Scaccabarozzi.
Gerolamo lascia eredi Giovanni Antonio e Marc'Antonio, figli naturali e minorenni che vorrebbe legittimare. Ma qualcosa
deve essere andato storto, perché i due ragazzini scompaiono dai documenti e dalla storia e il palazzo viene ereditato dalla moglie di Gerolamo, Caterina Casati.
La permanenza dei Fontana nella casa di Porta Orientale può essere quindi giustificata fino al 1504, quando si
trasferirono ad abitare a Porta Vercellina. La data è interessante per definire tra il 1485 e il 1502, anno del primo testamento, i termini di tempo in cui furono commissionati
i lavori di rifacimento.
Una dimora umanistica
Il nucleo primitivo
L'edificio rinascimentale voluto da Francesco Fontana è il riadattamento di due preesistenti piccole case limitate al
corpo di fabbrica lungo la strada. Qualche traccia di questa veste primitiva è riaffiorata durante i restauri del dopoguerra e, secondo un discutibile criterio di restauro, si
è voluto lasciarne la documentazione in evidenza.
La
casa più antica è collocata a destra dell'attuale portale. Mostra due arcate a piano terra (A), che poggiano a 1.20 m sotto il piano di calpestio. Di questo edificio, risalente
alla fine del XIII secolo, sembra che facesse parte anche una finestra a tutto sesto al piano superiore (A). Un secondo e più radicale intervento si ebbe nei primi decenni del
Quattrocento, quando si elevò il livello stradale, si chiusero le due arcate per aprirvi quattro finestre a pianterreno (C) e due finestre a sesto acuto nel piano superiore (B).
Mancano però tracce dell'ingresso, forse collocato in una casa contigua. Possiamo farci un'idea dell'insieme confrontando questa ultima versione con il superstite Collegio
Castiglioni di Pavia (oggi Collegio universitario femminile Castiglioni-Brugnatelli), realizzato dopo il 1429 unificando due case di proprietà di Pietro Filargo, e con casa
Pisani di Corbetta.
All'interno, sul lato nord del cortile, si è rintracciata una decorazione a strisce rosse e bianche che profilava una
composizione scomparsa. Questa decorazione si stende presso le arcate a sesto acuto e risale verso le finestre del piano superiore.
La casa a sinistra del portone sembra essere più recente. La finestrella rettangolare (D) con la cornice in cotto è
assegnabile all'inizio del Quattrocento.
L'edificio rinascimentale. L'architettura
Questi
due primi piccoli edifici vennero unificati in un'unica facciata verso la fine del Quattrocento, aggiungendo due corpi laterali, in modo da ottenere un complesso di forma
irregolare a C attorno a un cortile trapezoidale porticato su tre lati. L'accesso non simmetrico nella facciata, che si infila direttamente nel lato sinistro del portico,
conferma che l'architetto dovette adattare la costruzione a delle preesistenze.
La nuova dimora ripropone lo schema in voga: due ordini di finestre incorniciate in cotto, quadrate in basso, a tutto
sesto e centinate in alto, come nell'esempio dello scomparso palazzo Marliani, edificato negli stessi anni. Le finestre quadrate del piano terreno hanno contorni di cotto
lavorato a motivi vegetali e palmette, secondo il tipo comune nel Quattrocento. Incorniciate di cotto sono pure le finestre arcuate a pieno sesto nel piano superiore, che secondo
il Beltrami dovevano in origine essere bifore. Il motivo degli oculi sotto gronda, in asse con le finestre sottostanti, è anche tipico di queste costruzioni.
L'elemento
unificante dei due diversi palazzi originari divenne il portale in pietra d'Angera, incorniciato da due colonne a candelabra montate su alti stilobati. Il motivo della candelabra
è dominante in tutto l'edificio sia nella parte scultorea sia nella decorazione pittorica. Nei pennacchi a fianco delle colonne sporgono due medaglioni a profili imperiali,
identificabili con Nerone a destra e Galba (?) a sinistra. Il Mongeri attribuì il portale a Tomaso da Cazzaniga, che con Benedetto Briosco scolpì nel 1486 l'arca dei Brivio in
S. Eustorgio (vedi scheda).
All'interno
si apre il cortile, recinto su due lati da portici a quattro arcate ciascuno e sul terzo lato da un portico, aperto in epoca posteriore, sovrastato da una serie di finestre. I
capitelli corinzi con targhe a testa di cavallo recano le descritte insegne araldiche dei Fontana. I pennacchi degli archi contengono i clipei con le teste dei duchi di Milano e
di imperatori romani.
Ai due lati del cortile, al piano superiore, è stato ripristinato un loggiato ad archi in corrispondenza con le colonne
dei portici sottostanti. Le candelabre che reggono le arcate a tutto sesto hanno una base classica, con fusto a bulbo decorato, capitello a foglie e volute: sono ritenute forse
le più belle del Rinascimento in Lombardia. La parete sopra le arcate del portico presenta un fregio dipinto in terra verde a motivi vegetali e delfini. La parte superiore della
parete nord è ornata con una finta loggia e sfondi simulanti marmi venati, nei colori rosso, verde, giallo e bianco.
La decorazione della facciata
Il
pregio singolare della fronte è la decorazione pittorica che la rivestiva, ormai fortemente deperita; dalle tracce che ancora ne restano è possibile ricostruirne almeno
idealmente il concetto generale.
La pittura fu adottata per mascherare la giuntura dei due sottostanti edifici. Fu dunque sovrapposta alla facciata reale
una partitura classica, costituita da un doppio ordine: semicolonne tornite accostate a paraste (a piano terreno); marcapiano a doppia cornice e fregio decorato e con medaglioni;
paraste decorate alla lombarda (al piano superiore); e infine fregio monocromo sottogronda con motivo ornamentale di putti, tritoni e sirene corrente tra gli oculi, alternati a
busti clipeati. Singolari erano i capitelli corinzi dipinti di bronzo dorato, lo stesso colore usato per le quattro figure monumentali al primo piano.
La decorazione era ancora visibile nel secolo scorso; oggi ci è nota grazie a una ricostruzione grafica fatta da F.
Frigerio nel 1906.
La esaltò il Lomazzo (vedi schede
) nel Tempio della pittura, attribuendola al Bramante: "Non sono da passare sotto silenzio
le pitture con grandissima ragione proportionate di Bramante...nella facciata dei Pirovani in Milano in Porta Orientale ove si veggono le figure con tanta maestà di moto, che
tutti i pittori se ne possono confondere e meravigliarsi non che disperare a gran prezzo raggiungere. E sono il Po in guisa di re per essere egli il capo di tutti i fiumi, il
quale tiene nella manca il cornucopia, nella destra l'asta col vaso in cima et Amfione il quale canta nella lira. Et vi sono ancora due figure assise, una delle quali è Giano
edificatore di Genova col suo dominio in mano, e nell'altra è il Valore dell'Italia tutto ignudo col bastone in mano siccome quello ch'è superiore a tutti gli altri dominij et
provincie".
In un salone al piano terreno si rimirava un fregio di teste virili entro clipei, alternati a tritoni, sirene e putti
intrecciati a girali d'acanto, dove in un tondo al centro di ogni parete ritornava l'arma dei Fontana. Al di sotto tra lesene a candelabra si stendevano vasti comparti con figure
allegoriche su paesaggi, ricoperte da una pesante tappezzeria in cuoio e ritornati alla luce con il bombardamento del 1943. La decorazione della stanza era un'allegoria musicale:
i tritoni suonavano strumenti a corda, le figure sottostanti suonavano un violino, timpani, altri strumenti a corda e a fiato.
L'intero ciclo venne donato da Maria Silvestri alle Raccolte Civiche del Castello Sforzesco e si trova esposto nella Sala
XVII. L'incendio ha però completamente cancellato la colorazione primitiva, ricca di azzurri, turchini e di sfumature nel chiaroscuro dei volti. Questa decorazione era stata
effettuata sopra una parete in origine decorata a graffito.
Interpretazione iconografica
Proprio il programma decorativo ci permette di avanzare qualche ulteriore ipotesi circa il periodo di esecuzione e di
precisare gli intenti pubblicitari del committente.
Secondo quanto riportatoci dal Lomazzo, la facciata sarebbe stata dipinta ad architettura con quattro nicchioni entro i
quali si trovavano altrettante figure gigantesche in color bronzo, ad imitazione di statue. La più interessante per determinare la datazione può essere considerata quella di
Giano (Ianus), ritenuto per omonimia il fondatore di Genova. La città marinara, sottrattasi al dominio sforzesco nel 1478, fu
riconquistata nel 1487. L'evento era di capitale importanza e meritava di essere immortalato nella facciata della casa di un uomo in procinto di entrare (o appena entrato) nel
ristretto consiglio segreto del duca (1490). Dipingere Giano che sostiene Genova prima del 1487 poteva suonare come una provocazione, potendo il pittore limitarsi a raffigurare
la divinità nella sua attribuzione classica, ossia come dio del passaggio, dell'entrata e uscita, come protettore delle porte piuttosto che come fondatore di Genova. Quindi, lo
Stato al quale apparteneva il committente della decorazione si spingeva fino a Genova e aveva la sua spina dorsale nel maggior fiume d'Italia, il Po, raffigurato con la corona di
canne.
Anfione, re di Tebe col fratello Zeto, era qui dipinto con la sua lira: grazie al potere della musica le pietre si
organizzarono da sole a formare le mura di Tebe. L'importanza della musica è sottolineata anche all'interno dell'edificio, nelle allegorie ora trasferite al Castello Sforzesco.
Sono anni di grande successo per la musica a Milano: dal 1484 Franchino Gaffurio dirige la cappella del Duomo e insegna teoria musicale al Gymnasium Mediolanense.
L'ultima personificazione, il Valore, secondo il Lomazzo rappresentato nudo, dovrebbe simboleggiare la superiorità
intrinseca - in questo caso -dell'Italia, che non necessita di armature o di altre coperture per imporsi, bastandole la sua tradizione.
Riassumendo il messaggio pubblicitario della decorazione di facciata: orgoglio di appartenere a uno stato che non ha
bisogno di ricorrere alla forza né per la conquista, né per la sua protezione, essendole sufficiente una "lira".
A completare questa presentazione dello status sociale del proprietario si aggiunge il valore simbolico della candelabra,
l'elemento che ricorre insistentemente in tutto il palazzo. Il motivo deriva dai monumentali candelabri marmorei romani che appartenevano alla categoria dei costosi arredi
architettonici sacri, funebri e profani. Nelle ville doveva accrescere auctoritas, maiestas e dignitas
dell'ambiente. Nel recupero della classicità Piero della Francesca aveva usato il candelabro come colonna ad Arezzo, quale sostegno del trono di Cosroe. Coi pittori veneziani
del gruppo dei Bellini il motivo ornamentale del candelabro trova un'ampia diffusione, rilanciata anche dalla corte di Ferrara, dove i pittori di ornato usano in tutte le
combinazioni possibili questa pittoresca colonna, che entra in modo dirompente nella scenografia architettonica. In Lombardia viene applicata dipinta, scolpita su lesene o funge
da supporto architettonico a monumenti funebri, portali, portici e finestre. All'epoca in cui si costruisce casa Fontana la candelabra era già entrata a far parte del gusto
locale e connotava chi la usava come una persona di cultura umanistica, dotata di auctoritas e dignitas.
Un'opera di Bramante o bramantesca?
Tenendo una data appena posteriore o coincidente col 1487 per la decorazione della facciata, consideriamo se è
plausibile assegnarla a Donato Bramante, secondo quanto affermato dal Lomazzo.
Come risaputo, Bramante aveva lavorato alla prima grandiosa opera di illusionismo prospettico a Urbino, nello studiolo di
Federico da Montefeltro. Nel 1477, trasferitosi a Bergamo, affrescò la facciata del palazzo del Podestà con una complessa architettura prospettica, articolata con paraste e
nicche nelle quali erano collocate monumentali figure di filosofi. Il tema della decorazione era quello dei Sette savi dell'antichità,
tema di origine medievale che non comportava un elenco univoco di filosofi (fissi erano solo Chilone e Pittaco); alle figure furono aggiunte delle scritte scelte dal committente
come monito al buon governo. Di tutta la decorazione si è salvato frammentariamente il solo Chilone, trasportato nel salone del Palazzo della Ragione. Questa decorazione
sembrerebbe costituire un modello per quella di palazzo Fontana, tanto più che lo scopo era anche qui quello di adattare sottostanti edifici medievali ai nuovi parametri
stilistici.
Secondo un'ipotesi di A. Bruschi, uno dei maggiori studiosi di Bramante, tra l'urbinate e Ludovico il Moro correvano
rapporti se non di amicizia di conoscenza e di stima, per cui si suppone che l'architetto arrivasse a Milano in coincidenza col ritorno di Ludovico nel settembre del 1479 dopo il
suo esilio in Toscana. Lo troviamo intorno al 1482 a dirigere il cantiere di S. Maria presso S. Satiro,
dove lavoravano l'Amadeo come architetto, il de Fondulis come decoratore di terrecotte e il Bergognone come pittore.
Affine
alla decorazione di casa Fontana e datata presso a poco agli stessi anni è quella di casa Panigarola in via Lanzone, che Bramante eseguì su commissione di Gasparo Visconti.
Anche qui, come a Bergamo e in casa Fontana, troviamo figure gigantesche sotto nicchie, Uomini d'Arme, ora al Castello Sforzesco. In
tutte queste decorazioni si nota una certa uniformità, ma niente che giustifichi una diretta esecuzione da parte di Bramante, che lavorava di solito come prospettico insieme a
pittori di figura.
C'è infine un'ultima considerazione da fare: le figure gigantesche di casa Fontana sono malamente sovrapposte alle
lesene, lasciando supporre che a un primo progetto decorativo di facciata si aggiungessero le figure in un secondo momento, cercando di adattarle nel miglior modo possibile.
Anche le Allegorie della Musica del salone non sembrano di grande qualità artistica, tanto da poter escludere la paternità del Bramante. Essendo ormai completamente scomparse
le quattro figure di facciata, continua a rimanere solo la testimonianza del Lomazzo circa l'attribuzione al Bramante dei lavori in casa Fontana. Sembrerebbe che l'Urbinate si
sia occupato del progetto di architettura prospettica dipinta, ad imitazione di architetture nuove come casa Marliani, inserendo solo in un secondo tempo gli affreschi in
facciata, probabilmente in conseguenza di un avvenimento che necessitava grandi festeggiamenti (come la riconquista di Genova?).
Un'eredità tutta femminile. I Pirovano
Passiamo ora brevemente a esaminare la storia successiva del palazzo. Per un breve periodo tra gli abitanti della casa
figurano gli Scaccabarozzi, senza che vi siano tracce della loro permanenza, poi passa ai Pirovano, come abbiamo visto.
Filippo Pirovano, decurione, aveva
l'incarico di distribuire il sussidio regio. Fu anche oratore per l'Italia alla corte di Carlo V. Il suo primogenito Giacomo fu
senatore (nel 1530); Matteo, uomo facoltoso, fu questore e magistrato straordinario delle Entrate.
Nel
1556 Matteo acquista una casa e un terreno con sostra dai fratelli Ermes e Gerolamo Pallavicini di Bogone, ramo estinto; il contratto verrà successivamente contestato e darà
origine a un groviglio di ricorsi perché Matteo aveva chiuso il passaggio ai cavalli che si recavano ad abbeverarsi al Naviglio. Per le manovre del Pirovano, i vicini non
poterono mai ottenere udienza dal Magistrato, così che, come si legge in un memoriale del 1563 "stracchi i poveri vicini sono stati
costretti soprassedere sino ad hora che detto Matteo con favori ha quasi forzato gli heredi di Antonio Carcassola et Ludovico d'Adda che havevano una sostra coherente a detta
strada a vendere la detta sostra ad una sumissa persona di detto Matteo". La proprietà dei Pirovano giunse così a inglobare una parte del terraggio di S. Damiano con
l'accesso a un piccolo porto sul Naviglio.
Paolo Lomazzo nella sua opera Idea del tempio della pittura del 1590 indica
l'edificio come appartenente ancora a Matteo Pirovano.
L'ultima dei Pirovano a possedere la casa è Isabella, figlia di Uberto; si
sposò a quindici anni col conte Landriani, ma rimase presto vedova, come appare dalla sua richiesta del 1635 di poter liberamente amministrare i suoi beni. A diciotto anni
Isabella si risposò col conte Guido Antonio Stampa di Moncastello. La casa Fontana-Pirovano divenne per tutti casa Stampa e così è citata da tutti gli autori settecenteschi di
storia milanese.
Dagli Stampa e Castiglioni ai Silvestri
Il Latuada nella sua guida riferisce che in questo palazzo abita il conte Carlo
Stampa, consigliere di Stato, Generale di Fanteria e Comandante di Artiglieria.
La pronipote di Isabella Pirovano, Isabella Stampa sposò il marchese
Gerolamo Castiglioni e portò nella famiglia Castiglioni il fide-commisso Pirovano di cui era erede. Un loro nipote, Giuseppe Castiglioni,
visse di luce riflessa dalla moglie Paola Litta Visconti Arese, immortalata nella poesia del Parini. Paola aveva donato al poeta i sei volumi delle tragedie dell'Alfieri
nell'edizione parigina del 1788 ed egli le aveva dedicato le odi Il dono (testo)
oltre a La recita dei versi (testo).
Durante la Restaurazione il palazzo ospitò il Consolato d'Inghilterra.
Nel 1868 la casa perviene in proprietà dei Silvestri. Il senatore Giovanni Silvestri,
nipote per parte materna dell'ing. Sarti, aveva costruito il tronco della ferrovia Milano-Monza con stazione a Porta Vittoria. Suo padre aveva fatto parte del'industria
meccanica Comi, Grondona & C., divenuta poi Miani & Silvestri e infine O.M. (Officine Meccaniche), della quale Giovanni era presidente.
Erano famosi i ricevimenti dati dai Silvestri nella loro casa: vi parteciparono i magnati dell'industria di tutto il
mondo e perfino qualche sovrano.
Le fasi successive e l'ampliamento verso il Naviglio
Si deve alle famiglie Stampa di Moncastello e Castiglioni la riedificazione della casa verso il Naviglio con veste
settecentesca e la decorazione neoclassica all'interno.
Due
incisioni della serie di M.A. Dal Re del XVIII secolo mostrano la casa Stampa: la prima illustra in primo piano palazzo Arese, seguito da palazzo Stampa, da costruzioni più
basse e infine da un fabbricato addossato alla torre di destra della Porta Orientale, torre che sembra ridotta a casa di abitazione. La seconda incisione riproduce la parte verso
il Naviglio di S. Damiano, adorna di numerose finestre sormontate da una decorazione rococò. Il giardino è contenuto sulla sinistra da un fabbricato merlato, imitazione
medievale realizzata nel Settecento per magazzini. Sulla destra il giardino è delimitato da un palazzotto settecentesco a due piani che termina e risvolta su un vicoletto.
A
questa fase corrispose all'interno la decorazione architettonica a stucchi dorati e una serie di affreschi - distrutti - dell'Appiani e del Traballesi. Il Nicodemi così la
ricorda: "Inizia qui la collaborazione dell'Appiani con Traballesi in varie case di Milano... Il Traballesi nel soffitto della stanza
ha la solita durezza di disegno, che lo squisito languore delle tinte leggermente rosate maschera con incomparabile grazia. La pittura dell'Appiani, oltre al disegno qui corretto
rivela un notevole progresso tecnico quanto alle ombre. La pittura di quel tempo poneva regolarmente la luce come se venisse da due parti. Una luce più debole, appena
avvertibile a volte, veniva dal fondo e, dove sono le figure, che indicano il soggetto del dipinto, s'incontrava con quella assai più forte, proveniente dal lato dove si trovava
lo spettatore". Di tutta la decorazione interna restano solo i dipinti attribuiti al Bossi e al Traballesi ora nella villa Pizzo, che ornavano un salone a Milano. E'
probabile che la committente sia stata la marchesa Paola Castiglioni, nata Litta Visconti Arese, in rapporti di stretta amicizia col Parini, che potrebbe aver suggerito al poeta
le composizioni. Al Parini non era insolito questo compito, affrontato anche nel Palazzo di Corte, in palazzo Greppi, in palazzo Confalonieri e nella Villa Belgioioso.
La facciata verso il Naviglio venne rifatta nell'Ottocento dal Besia, decorata con un affresco del Sanquirico.
Bombardato durante l'ultima guerra mondiale, fu restaurato da Ferdinando Reggiori.
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