Da quando, nel lontano 1550, erano iniziati gli imponenti
lavori per la costruzione della cinta bastionata, Milano si era data dei nuovi
e precisi confini, ben più estesi di quelli un tempo assestati sul circuito
medievale. Col passare dei secoli, le varie cascine e i vari borghi nati a
ridosso delle mura avevano dato vita ad un unico Comune, detto dei Corpi Santi,
dizione che rimandava alla pratica di inumare, ai tempi dei primi cristiani, i corpi
dei Martiri (appunto Santi) al di fuori delle mura cittadine. Per tale
antichissima prassi, tutto il vasto territorio extramurario aveva così assunto
questo curioso toponimo.
All’indomani delle
battaglie risorgimentali, Milano contava 184.920 abitanti, la maggior parte dei
quali (e precisamente 130.000) risiedeva nella parte più antica della città,
quella delimitata dalla cerchia dei navigli, cosicché al di fuori di essa, e
fino alle mura spagnole, la città era scarsamente abitata e urbanizzata, prevalendo
prati e orti coltivati: insomma, una vera “periferia”.
Da ciò si evince facilmente che ai milanesi spazio per
edificare nuove dimore o semplicemente per decongestionare la densità abitativa
del vecchio nucleo (quasi 500 abitanti per ettaro) certo non ne mancava, senza
sentire la necessità di estendere la città oltre le ciclopiche mura.
Il Dazio, una questione sempre aperta
Una delle fonti di maggior guadagno per il Comune milanese
era data dal dazio sui consumi, che portava annualmente nelle casse pubbliche
una cifra che si aggirava sui tre milioni di lire. Il dazio era una antica
gabella che colpiva, secondo percentuali diverse, le merci che “entravano” in
Milano, cioè che venivano fatte passare attraverso le mura spagnole che,
secondo la loro nuova funzione, segnavano egregiamente il confine del
territorio comunale e quindi daziario.
Le porte aperte nelle mura per gli scambi città-campagna
erano sedici, ed ognuna era presidiata da un drappello di guardie daziarie (in
tutto, la città ne aveva circa duecento, con caserma in via Luini), che
trovavano alloggio e sbrigavano le incombenze insieme al numerosissimo
personale amministrativo, in apposite costruzioni, detti caselli, alcuni dei
quali edificati su progetto di valenti architetti e con notevole dispendio di
denaro, a simboleggiare un preciso potere pubblico, quello della riscossione
del dazio al consumo.
Le porte, o varchi, o barriere che voler si dica, erano le
seguenti[1]:
Ticinese o Cicca (coi caselli del Cagnola del 1880),
Lodovica,
Vicentina,
Romana,
Vittoria o Tosa,
Monforte (coi caselli del Tormenti del 1889),
Venezia (coi caselli del Vantini del 1828),
Principe Umberto, a servizio della Stazione centrale,
Nuova (coi caselli dello Zanoia del 1813),
Tombone di san Marco (solo per merci su acqua),
Comasina o Garibaldi (coi caselli del Muraglia del 1826),
Tenaglia o Volta (coi caselli del Beruto del 1880),
Sempione o Arco della Pace (coi caselli pensati dal Cagnola,
ma realizzati solo nel 1838),
Magenta o Vercellina (i cui caselli furono i primi ad essere
demoliti insieme alle mura spagnole),
Genova o macello pubblico (coi caselli del Nazari del 1873),
Tombone di via Arena (solo per merci su acqua).
E poiché, come visto, al di là delle mura era un altro
Comune, quello dei Corpi Santi, non soggetto a dazio, lì tutto costava meno.
Comperare ad esempio a Milano un quintale di farina voleva dire pagarne il
prezzo più la tassa applicata in sede daziaria per la sua introduzione in
città.
Le prime proposte di annessione
Nel 1860, sull’onda di una medesima richiesta fatta dalla
città di Pavia, Milano, per bocca del suo sindaco, Antonio Beretta, aveva fatto
domanda di un congruo aumento del proprio territorio giurisdizionale, poiché
moltissime persone residenti nella fascia sub-urbana dei Corpi Santi fruivano
dei vantaggi economici derivanti dalla vicinanza alla città, nella quale
quotidianamente entravano per lavorare e esercitare varie professioni, senza
tuttavia partecipare agli oneri che la città imponeva ai propri cittadini.
Insomma, alla Giunta municipale tutto questo non sembrava uno scambio equo.
La richiesta mirava ad annettere a Milano la fascia
abitativa ad essa più vicina, quella compresa nella distanza di un chilometro
dalle mura, lasciando quindi escluso una vasta porzione di territorio da riorganizzare
suddividendolo in cinque nuovi Comuni: Gratosoglio, Barona, Maddalena, Fontana,
Calvairate.
Il censimento del 31 dicembre 1861 aveva registrato la
popolazione di Milano in 196.109 anime (divise nei sei mandamenti cittadini),
mentre il Comune dei Corpi Santi ne annovera 46.348, divisi in due mandamenti.[2]
Il progetto venne tuttavia presto accantonato, e rimase
lettera morta per quasi un decennio.
Tornò però
baldanzosamente in auge agli inizi degli anni settanta dell’ottocento,
sotto la spinta di una diversa preoccupazione: ora non ci si crucciava più
tanto di chi, abitando fuori, sfruttava i servizi di Milano senza pagarli, ma
piuttosto dei milanesi che creavano ricchezza stabilendo fuori le mura nuove
fabbriche e industrie, portando ricchezza ma senza pagare il dovuto a Milano.
Nell’ultimo decennio erano state molte le imprese milanesi
che avevano spostato la loro sede nei Corpi Santi, basti pensare alla società
degli Omnibus, al Gasometro, ai cimiteri e alle stazioni ferroviarie. I
vantaggi erano notevoli: basti pensare che ogni impresa in Milano, comperando
materie prime, doveva pagarci il dazio, mentre se la stessa impresa trasferiva
la produzione nei Corpi Santi, le stesse materie le otteneva evitando il costo
del dazio, con notevoli vantaggi economici. Inoltre, la tassa sui redditi
prodotti a Milano era parecchio più elevata. Insomma, volendo definire tutto
ciò con un’espressione moderna, i Corpi Santi erano un paradiso fiscale!
All’epoca, sindaco di Milano era Giulio Belinzaghi[3],
a capo di una giunta di destra detta di riparazione.
Il comune dei Corpi Santi (che aveva sede, curiosamente,
all’interno del Comune di Milano, in via Crocefisso 11) aveva per sindaco il
dott. Noè[4],
40 consiglieri (molti dei quali abitanti a Milano), e una Giunta composta da 6
assessori più due supplenti. Contava 11 asili infantili e 28 scuole elementari
diurne, tra maschili e femminili, equamente distribuite sul territorio. Era
inoltre istituita una guardia nazionale composta da una legione di due
battaglioni.
Il problema dell’annessione fu apertamente sollevato in
Consiglio comunale (quello di Milano, ovviamente) dall’assessore Servolini[5]
il 14 ottobre 1871. Egli affermò tra l’altro che: ”Gli incrementi del
suburbio furono tutti conseguiti a spese della città”.
L’occasione di tale presa di posizione era stata data
dall’emanazione di un decreto del Parlamento (il n. 5815 del 18 agosto 1870)
che stabiliva la possibilità di aggregare due Comuni in via imperativa, anche
senza l’accordo dei due soggetti pubblici. Tale decreto forniva finalmente la
possibilità di annettere i Corpi Santi a Milano nonostante l’opposizione decisa
e datata del primo comune, ben conscio della sua situazione di vantaggio
extradaziario.
Le prerogative dei Corpi Santi vennero tuttavia difese in
Consiglio dal radicale Mussi[6],
il quale, pur rappresentando un ceto medio borghese fatto di artigiani e
imprenditori che vedeva positivamente l’annessione, temeva di finire del tutto
sotto l’Amministrazione di Milano, della quale non condivideva gli orientamenti.
Il discorso di Mussi suonava così: ”Reputo grande sciagura se l’unione
avvenga con uno screzio fra la gran famiglia milanese urbana e suburbana. I
grandi centri gareggiano di vincersi e soperchiarsi nell’attrarre di preferenza
intorno a sé le industrie i commerci e le grandi amministrazioni. (…) Bisogna
che l’unione si compia col voto di tutti”. Concluse il concetto il collega
Pompeo Castelli[7]: ”Città
interna e città esterna sono tutt’uno. La città interna colle sue grandi
esigenze, coi suoi capitali, colle sue estese relazioni europee e mondiali
alimenta, dà vita e moto alla diuturna e feconda operosità delle industrie
suburbane. La città interna largisce e fa defluire la sua ricchezza e potenza
nel suburbio, ed il suburbio stende il necessario suo braccio a sostegno della
città che gli è madre (…).”
Alla fine del lungo
dibattito, il Consiglio comunale presentò istanza al Re affinché aggregasse al
Comune di Milano il Comune dei Corpi Santi. Il decreto reale numero 1413 venne
pubblicato l’8 giugno 1873: Milano divenne una grande città senza forse
rendersene troppo conto.
Conseguentemente il numero dei consiglieri comunali venne
portato da 60 a 80 posti, di cui 61 riservati alla città di Milano, mentre i
restanti 19 ai Corpi Santi. Le elezioni per eleggere i consiglieri comunali non
interessarono molto la popolazione, tanto che solo il 29% degli aventi diritto
si recò al voto. Considerando poi quanto scarsi fossero i cittadini aventi
all’epoca diritto al voto, bastarono circa tremila schede per eleggere i rappresentanti
di 262.000 cittadini. Belinzaghi venne confermato sindaco.
La grande Milano
Dal punto di vista amministrativo, si mantenne in parte la
suddivisione precedente l’aggregazione: il Comune di Milano risultò diviso in 8
Mandamenti, di cui 6 interni alle mura spagnole, mentre il 7° e l’8° riservati
all’ex Comune dei Corpi Santi.
Questi due mandamenti “periferici” (il 7° per la zona Nord
di Milano, l'8° per la Sud) furono divisi in 8 Riparti(zioni), e grosso modo
comprendevano le seguenti località:
Rip. 1: uscendo da porta Genova, la vasta area compresa tra
il naviglio grande e il naviglio pavese, più una parte un poco più a nord del
naviglio grande, vale a dire la zona dove oggi scorre la via Foppa. In questa
ripartizione era dunque la zona della Barona, la chiesa di San Cristoforo e la
recente fabbrica di porcellane Ginori, e terminava a sud confinando col Comune
di Assago. Comprendeva la stazione ferroviaria di porta Genova[8].
Rip. 2: uscendo da porta Ticinese o da porta Lodovica, era
una zona scarsamente estesa ma molto allungata, confinante a ovest col naviglio
pavese, e comprendente l’abitato del Gratosoglio e dei Tre Ronchetti. L’asse
viario centrale era il corso san Gottardo e il suo prolungamento (oggi via dei
Missaglia).
Rip. 3: uscendo da porta Vigentina o da porta Romana, la
zona nata a cavallo del proseguimento periferico del corso di porta Romana
(oggi corso Lodi) e della via Ripamonti, e comprendeva parte del Vicentino, e
si spingeva fino alla cascina Gamboloita, senza però ricomprendere l’abitato di
Rogoredo. Il suo confine meridionale era segnato dalla Vettabbia.
Rip. 4: uscendo da porta Vittoria, la zona a cavallo
dell’attuale corso XXII marzo e via Corsica, in estensione fino al fiume
Lambro, e comprendente quindi l’abitato di Monluè e di Calvairate, e la cascina
Tagliedo, dove sorgerà l’aeroporto omonimo (vedi).
Rip. 5: uscendo da porta Venezia, porta Umberto o porta
Nuova, a cavallo dello stradone di Loreto (oggi Buenos Aires), e confinante a
nord con il naviglio martesana; il confine di Milano era attestato al rondò di
piazzale Loreto, da lì partivano due strade (oggi via Padova e viale Monza) che
portavano rispettivamente ai comuni di Crescenzago e Precotto. Era un’area
molto frastagliata e non estesa, comprendeva la stazione centrale e la cascina
Maggiolina, ma i confini comunali terminavano molto prima di toccare zone che
sarebbero state agglomerate solo decenni dopo, come Lambrate (di Sopra e di
Sotto), Cimiano, Turro, Gorla, Greco.
Rip. 6: uscendo da porta Comasina-Garibaldi, estesa a nord
quasi fino al comune di Niguarda e Affori.
Rip. 7: uscendo da porta Tenaglia-Volta, comprendente il
Cimitero Monumentale, e gli abitati della Ghisolfa e della Bovisa. Confinava a
sud con corso Sempione. Vi si trovava la villa Simonetta e gli annessi
complessi agricoli.
Rip. 8: uscendo da porta Sempione o da porta Magenta, la zona
compresa tra la via Foppa (a sud) e il corso Sempione (a nord). Era divisa a
metà dallo scorrere dell’Olona. Vi si trovavano compresi i borghi di san Siro,
la zona della Maddalena (oggi De Angeli) e un’infinità di grosse cascine. Erano
esclusi gli insediamenti di Lorenteggio e Lampugnano (con Lampugnanello).
Come si può facilmente capire dalla descrizione fin qui
fatta dei vari riparti, la zona anulare annessa a Milano aveva caratteristiche
diversissime rispetto alla città, ma soprattutto un’estensione dal Duomo assai
difforme. Ad esempio, il Rip. 2 si estendeva per 7 chilometri oltre le mura
spagnole fino in aperta campagna, mentre il Rip. 3 solo di 3 chilometri,
arrestandosi a 3 chilometri di distanza dal Comune di San Donato, oggi
confinante con Milano. Lo stesso dicasi per il Rip. 8, esteso per ben 5
chilometri.
I problemi legati alle nuove periferie
Con l’annessione, la grande Milano così nata (da ora
suddivisa per praticità in circondario interno e circondario esterno) ebbe
subito a risolvere grossi problemi e clamorose proteste.
L’ex comune dei Corpi Santi era decisamente diverso dal
comune di Milano: era agricolo, scarsamente urbanizzato, e dal punto di vista
viario decisamente arretrato. Le strade erano prevalentemente sterrate, salvo
le principali d’accesso alla città, e per nulla o scarsamente illuminate.
Tuttavia accanto alle cascine, avevano ormai da qualche anno iniziato a
spuntare oltre alle fabbriche, anche le case degli operai, grigie, uguali,
tutte in fila.[9]
Questa condizione di inferiorità rispetto al decoro del
circondario interno, fu messo in luce in Consiglio dal giovane Giovan Battista
Pirelli[10],
votato dagli elettori del circondario esterno, e le cui capacità
imprenditoriali lo avevano già reso famoso nel campo della gomma.
Questi, nel 1877, lamentava che a quatto anni
dall’annessione, il circondario esterno, che pur si faceva ogni anno più
popoloso, dando asilo agli immigrati che trovavano impiego nelle industrie
fiorenti e sempre più numerose, si reggeva su strade pessime e disagevoli, e
testimonianza ne era la peggiore di tutte le strade, quella detta di
circonvallazione (che appunto girava tutt’attorno le mura) che pur rivestendo
l’importante ruolo di interscambio tra le due realtà cittadine, era perfino
senza marciapiedi, il che portava a continui allagamenti in ogni giorno di
pioggia.
Senza poi sottovalutare che, come ricorda il Pirelli che di
operai se ne intendeva: “ Lungo le linee stradali che mettono capo a
stabilimenti ed officine che raccolgono buon numero di operai, obbligati a
percorrere quelle strade anche in ore di notte, l’illuminazione o manca affatto
o è insufficiente”.
La questione urbanistica fu messa nero su bianco nella
Relazione al “Piano generale che si propone per norma da seguire nella
successiva compilazione di piani regolatori parziali nel circondario esterno”
(1876).
Pur essendo questa Relazione generica e poco dettagliata in
termini di futuro sviluppo, interessante è la disamina della condizione viaria.
Infatti leggiamo:
“Un’altra condizione che si osserva nel suburbio è quella
della direzione delle strade (…). I canali navigabili (i Navigli) il cui corso
converge alla cerchia, e le principali arterie di strade, ossia le antiche
nazionali, che si irradiano precisamente dal centro, dividono il comune
aggregato in altrettanti spicchi senza collegamento. Le minori strade comunali
hanno tutte un obiettivo al di là del Comune; e concorrono perciò anch’esse a
dare un indirizzo in senso di sola irradiazione alla vita e allo sviluppo del
territorio. Il sorgere di nuovi edifici si verifica quasi sempre seguendo
inconsultamente la direzione delle strade esistenti; ciò è provato dal fatto
che in relazione al numero grandissimo dei medesimi (edifici) scarse furono le
proposte di nuove vie.
Dal che deriva che gli abitati mancano di comunicazioni
trasversali; e quando il bisogno esige che uno si rechi da un abitato posto su
di un raggio ad un altro posto sopra altro raggio occorre che quel tale venga a
raggiungere la circonvallazione, percorra tutto il tratto che questa dista
dall’altro raggio, e quindi ripieghi su quest’ultimo per raggiungere la meta.
(…) È necessaria dunque una comunicazione in linea trasversale; e ritenuto poi
come distanza ragionevole dalle attuali mura quella di 600 ad 800 metri perché
offrisse un facile invito e perché fosse compresa la parte che costituisce
l’immediato suburbio, e presi quindi come punti determinati quelli risultanti
da tali dati si tracciò una via anulare” (si progettava, dunque, quella che è
l’attuale circonvallazione della filovia 90 – 91). “Questa via deve avere
larghezza di metri quindici, ma potrebbe estendersi a venti, e riuscirà una
terza cerchia che verrà a segnare un’epoca dello sviluppo del nostro comune, e
avrà lo scopo di trattenere e divergere in senso anularmente trasversale
l’espandersi e lo svilupparsi delle nuove fabbriche che seguono oggi un
indirizzo puramente irradatorio (..)”.
La relazione poi spiegava i progetti di nuove arterie che
avrebbero aiutato il già ben avviato sviluppo urbano che la città stava vivendo
nella zona Nord.
La causa per la quale, di contro, lo sviluppo a Sud stentava
o addirittura non sbocciava neppure venne con veemenza stigmatizzata dal
Consigliere Giuseppe Ferrario[11],
che chiese alla Giunta di avviare le necessarie pratiche perché il Governo
decretasse dalla parte meridionale della città l’allontanamento delle risaie e
delle marcite.
Il cavaliere Ferrario fece notare infatti che: ”La zona
suburbana, che sette anni fa costituiva comune a se, e che poi venne aggregata
al comune di Milano, si estende buon tratto oltre le mura della città, ed in
certi siti, come a nord-ovest, sino alla distanza di cinque chilometri. E
perché mai noi vediamo la numerosa popolazione suburbana stanziata intorno alle
mura della città, mentre per ragioni di economia, dovrebbe e vorrebbe preferire
la campagna? La ragione (…) sterminate risaje tanto infette a ciò che havvi di
più prezioso: l’aria, il clima e la salute”.
Infatti: “A Ronchetto, alle Case Nuove, a Gratosoglio,
alla Conca Fallata, ad Annone , etc, siamo sempre nel Comune di Milano,
quantunque più di 5 chilometri dalle sue mura, ed abbiamo le scuole comunali,
gli asili, la sorveglianza municipale e le tasse come nell’interno, ma nulla di
tutto ciò concorre ad alleviare quelle popolazioni dai fatalissimi danni delle
risaie. Queste, specialmente nella stagione estiva, emanano esalazioni
perniciosissime e di un carattere tanto maligno, da ridurre in poco tempo in
fin di vita, non solamente donne e fanciulli, ma anche uomini di tempra
robustissima.”
E a testimonianza di quanto affermato, portava l’esperienza
delle condizioni di pessima salute dei quasi mille operai delle cartiere
dell’amico Binda, alla Conca Fallata.
La ricerca delle soluzioni
Sempre nel 1877, il sindaco Belinzaghi, pur ammettendo che
il circondario esterno soffriva di una situazione di inferiorità rispetto al
circondario interno, soprattutto in tema di servizi pubblici, e prendendo a
cuore le lamentele di centoventidue cittadini del borgo degli ortolani, che
chiedevano vie migliori e illuminazione serale, tuttavia (e nonostante gli
attacchi dell’opposizione), dichiarava che: ”Nel sobborgo, man mano che
l’occasione si presenta, va estendendosi quella trasformazione nel sistema di
manutenzione stradale richiesta (..). Quanto all’illuminazione, ammetto che il
circondario esterno sia più scarsamente illuminato, ma trovo ciò naturale. Il
circondario interno, per mantenere quello stato di cose più decoroso e ricco
che ovunque è proprio della parte centrale dei grandi comuni, soggiace anche a
sacrifici maggiori; parmi che una differenza tra l’uno e l’altro circondario
debba sempre sussistere (…).”
Il 7 giugno 1878 si applicarono al circondario esterno i
criteri toponomastici della città, quelli che avevano stabilito quando usare il
termine via, viale, corso, piazza, ecc. Nacquero così, al posto delle dizioni
precedenti un po’ campestri, corso Loreto, corso XXII Marzo, corso Sempione,
corso Como e corso Vercelli.
Nel 1881 in sede di discussione di bilancio, venne
nuovamente a galla il fatto che il circondario esterno (che anno dopo anno
otteneva comunque migliorie non da poco) fosse meno gravato fiscalmente
rispetto al circondario interno. La giunta tentò così di unificare almeno alcune
tasse, quali il dazio sul vino e liquori, quella sui domestici e le vetture, e
quella sui cani.[12]
Il problema diede vita ad un duello aspro tra i vari
consiglieri, tanto più che come è ovvio i membri del consiglio votati dal
circondario esterno si mostravano sempre contrari ad ogni parificazione
fiscale.
Fu in quella sede che cominciò a circolare la proposta del
Pirelli, il quale chiese che fosse, una volta per tutte, abolita la elezione a
scrutinio separato fra i due circondari, che creava in consiglio una
maggioranza e una minoranza aprioristicamente impegnate a combattersi.
Così, a partire dalle elezioni dell’11 gennaio 1885, la
votazione fu unificata senza distinguere più tra circondario interno ed
esterno.
Fu un grande passo verso una vera unificazione di due
territori, ma ancora non bastava: la linea daziaria rimaneva attestata sul
circuito delle vecchie mura, sempre più malandate e già vittime delle prime
demolizioni. Insomma, fiscalmente almeno, le città rimanevano sempre due:
l’interna e l’esterna.[13]
Le grandi rivolte
Nel 1886, la Giunta,
che probabilmente aveva notato un affievolirsi della sistematicità dei
controlli ad opera delle guardie daziare, che sull’ingresso delle merci “per
uso personale” tendevano a chiudere un occhio, emanò un (a prima vista innocuo)
decreto col quale si ricordava che a far data dal primo aprile il regolamento
del dazio sarebbe stato applicato integralmente. Se ciò apparve, inizialmente,
come una giro di vite abbastanza prevedibile, ci si rese subito conto di cosa
avrebbe significato. Infatti, centinaia di operai del suburbio entravano
quotidianamente nel centro città per lavorare, e facevano ritorno alle proprie
abitazioni periferiche solo a sera, terminata la giornate di fatica. Tali
manovalanze, per rispettare le esenzioni daziarie, avrebbero dunque potuto
portare con se solo mezzo chilo di pane a testa, dato che una quantità
superiore sarebbe stata tassata come importazione. Tuttavia, per abitudine, gli
operai entravano con due micche di pane per il pasto del mezzodì, equivalenti
ciascuna a 380 grammi circa. Per rispettare il dazio, dunque, ogni operaio
avrebbe dovuto portarsi come pranzo solo una micca e mezza, e comprarsi
eventualmente il resto in città (pagandolo di più), oppure portarsi due micche,
pagando il dazio per l’eccedenza del mezzo chilo.
Bastò poco perché scoppiasse una violenta rivolta dalle
parti di porta Ticinese, al grido di Abbasso il comune approfittatore che
vuole costruire i palazzi con l’imposta sulla fame.
Gli operai, molti dei quali aderenti al neonato partito
operaio, si rifiutavano di assoggettarsi alle imposizioni daziarie del sindaco
Negri, il quale si vide costretto, per mantenere la legalità, a schierare la
fanteria e gli alpini. La guerriglia durò due giorni, e le carceri si
riempirono con più di cento arresti. Ma alla fine il tre aprile il
provvedimento del sindaco di ferro fu revocato: si autorizzò l’introduzione di
pane per lo sfamarsi quotidiano fino a 800 grammi a testa.
La battaglia sul dazio, sulla vera unificazione tra le “due
città”, continuò tra alti e bassi, tra scontri continui tra maggioranza ed
opposizione.
Ma questa battaglia fece anche illustri vittime: nel
dicembre del 1896 si suicidò, schiacciato dalle pressioni della minoranza per
la riforma del dazio, l’assessore avv. Domenico Ferrario[14],
le dimissioni del quale erano state respinte, il giorno innanzi il tragico
fatto, dal sindaco Vigoni[15].
L’anno successivo venne anche promossa una causa, innanzi la
quarta sezione del consiglio i stato, da 4.000 cittadini del circondario esterno,
in merito al temuto allargamento della linea del dazio.
Ma il popolo milanese dovette passare attraverso i
sanguinosi giorni del maggio 1898 e attraverso le cannonate di Bava Beccaris,
prima di vedere finalmente abolito il dazio sui generi alimentari di prima
necessità, quali farine, paste, riso.
Così, perdendo sempre più di importanza l’istituzione del
dazio, e crollando quasi del tutto le mura spagnole sotto il peso del piccone
dell’ammodernamento edilizio, anche la distinzione tra i due territori divenne
sempre più labile, favorendosi così l’amalgamarsi di circondario esterno ed
interno.
Questo tuttavia spostò solo di qualche chilometro il
problema delle periferie, che anche oggi, spesso e purtroppo, vivono condizioni
qualitative assai inferiori rispetto alla parte più antica e centrale della
città. Ma questo forse è il destino di tutte le grandi metropoli... come direbbe,
se potesse, il fu sindaco Belinzaghi.
Bibliografia
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Storia illustrata di Milano, a cura di F. della Peruta, vol.7, 1993
Fava F., Storia di Milano, 1997
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Milano”, n.5, 1968
Punzo M., Il Comune fino al 1898: sindaci, giunte e
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vol.9, 1993