Atlante
milanese
Mauro Colombo
Candoglia: il marmo per il Duomo
|
Lasciandosi alle spalle il lago Maggiore all’altezza della
foce del Toce e superato l’adiacente laghetto di Mergozzo, sul quale si
affaccia l’omonimo e caratteristico Comune, ben presto si incontra il paese di
Candoglia, poche case costruite al di qua e al di là della strada che lo
attraversa, e che prosegue per Domodossola.
Sulla destra, il monte Orfano, che per secoli venne cavato
da laboriosi scalpellini al fine di trarne il meraviglioso marmo bianco che
servì per edificare il duomo di Milano. E che ancora oggi, seppur in misura
decisamente ridotta, fornisce il prezioso materiale per opere di restauro,
conservazione e rifacimento del Duomo.
Sulle motivazioni che spinsero i milanesi a recarsi a cento
chilometri di distanza da Milano, in val d’Ossola, per cercare il materiale che
sarebbe servito loro, la più immediata è che quelle zone erano, fin dall’epoca
romana, famose per essere ricche di marmi di gran livello qualitativo. Ma se i
romani avevano dovuto, per le difficoltà di trasporto, limitarne lo
sfruttamento, quando iniziò a prender forma il progetto per la nuova cattedrale
milanese il naviglio grande era già navigabile e permetteva di far arrivare a
Milano, via acqua, tutto quello che l’alto Verbano poteva offrire.
Così, quando l’arcivescovo Antonio da Saluzzo infervorò i
cittadini alla impresa del Duomo, questi mandarono dalle parti del lago
Maggiore, a Lesa, dei delegati per vedere di acquistare marmi e solo un
fortunato caso li condusse al monte Orfano.
Non abbiamo traccia, nei documenti d’archivio, delle
proposte e delle decisioni dei cittadini che fecero scegliere la cava di
Candoglia a preferenza di un’altra. Nel leggere i documenti dell’Archivio del
Duomo appare evidente che fino al 1387 questa scelta non era ancora stata
fatta. Anzi il 7 novembre di quell’anno fu mandato “il discreto uomo Antoniolo
da Giussano cittadino milanese dalle parti di Lexia e Vergante, allo scopo di
comperarvi e farvi lavorare marmi e sarizzi (graniti) nel modo che a lui
sembrerà più conveniente per il comodo e l’interesse della Fabbrica”.
Negli anni seguenti si parla sempre di mandare inviati e
messi genericamente “in partibus lacus
Majoris”, fino a quando finalmente il 27 febbraio 1390 si parla di
incanti fatti “ad tolleandum de
marmore et ad consignandum ipsum ad ripam Toxae”. E il 10 aprile dello
stesso anno si approva la spesa per la costruzione di una strada da Albo, vale
a dire da Candoglia fino alla riva del lago.
Non ci addentriamo in questo breve scritto nell’annosa
questione se la cava e i territori di Candoglia fossero dei Visconti, e se fu
il duca promotore dell’impresa, Gian Galeazzo, a donare la cava e tutto il
materiale cavato alla Veneranda Fabbrica. C’è chi sostiene che la cava fu
scoperta e quindi subito sfruttata dalla Veneranda, e che il duca stesso, per
accontentare la moglie invaghitasi di quel candido marmo, dovesse chiederne un
po’ (pagandolo pure) per edificare l’altare nella chiesa delle Case Rotte.
Certamente il duca era il Signore del territorio, senza
dubbio, ma non lo sarebbe stato dunque del marmo, che era di chi aveva scoperto
il filone e lo cavava.
La Fabbrica iniziò i lavori con sollecitudine e senno
pratico. Mandò cittadini al Monte, come si chiamava Candoglia, per riattivare
le cave antiche e aprirne di nuove. Le cave erano tre: della Fontana, del
Ciochirolo (cosiddetta per la campanella o cioca che chiamava gli operai al
lavoro) e la Superiore in cima al monte, e affinché l’opera procedesse regolare
in modo da soddisfare i bisogni della costruzione del tempio, si stabilirono
nella domenica 19 febbraio 1391 e nel luglio seguente gli ordinamenti per gli
operai. Salire alle cave era malagevole; bisognava arrampicarsi come le capre e
ogni giorno si perdevano molte ore inutilmente: allora si pensò di costruire delle
capanne vicine alla cava, ove alloggiassero e dormissero i lavoratori, e,
sempre per risparmiar tempo, uno spenditore della Fabbrica, che in quell’anno
era Teoldo de’ Scaldia (sostituito subito dopo da Giovannolo de’ Magenta),
faceva arrivare lassù i cibi e il vino, e un fabbro stava fisso in quota per
aguzzare i ferri sciupati nel lavoro.
Si pensi che ancora nel 1836, il conte Nava scriveva al
consiglio della Fabbrica che la salita alla cava richiedeva non meno di tre ore
di cammino, e risultava oltretutto “difficile, pericolosa, impossibile a
descriversi”. Solo nel 1874 si progettò una strada carrabile.
Per il visitatore che vuole oggi effettuare una breve
escursione in questi luoghi, la prima testimonianza di questa lunga storia è un
monumento, ovviamente in marmo di Candoglia, sul quale sono murate due lapidi.
La più bassa ricorda le leggi del 1927 e del 1935 che
attribuirono, senza più dubbi e diatribe, la proprietà esclusiva delle cave di
Candoglia alla Veneranda Fabbrica.
Periodicamente infatti, nei secoli passati, nascevano
controversie che vedevano contrapposti alla Veneranda Fabbrica soggetti
pubblici o privati che a vario titolo pretendevano di essere loro i proprietari
della cava o di avere comunque anch’essi il medesimo diritto di escavazione.
Nel secolo scorso, nel 1863, il sindaco di Mergozzo chiese
che si pagasse un canone annuo per la parte di territorio comunale occupato
dalle cave. La pretesa si chiuse con transazione nel 1870, secondo la quale
Mergozzo cedeva i terreni alla Veneranda Fabbrica per 4.637 lire e rotti, più
un compenso annuo di 50 lire.
Più in altro, sotto lo stemma della Veneranda Fabbrica, con
l’effige della Madonna che sotto il mantello svela il duomo, un’altra lapide in
latino ricorda che nel 1386, vescovo Giovanni da Saluzzo, per volere di Gian
Galeazzo Visconti duca di Milano, ebbe inizio la costruzione del Duomo di
Milano dedicato a Maria Nascente, costruito col marmo proveniente dalle cave di
Candoglia.
Guardando il monumento, alle spalle del quale si inerpicano le
viuzze del tranquillo paese, a sinistra si trovano gli uffici amministrativi
delle cave, contigui ai quali c’è la costruzione della scuola di avviamento
professionale della Veneranda Fabbrica del duomo per marmisti e ornatisti.
Poco più avanti, è visibile una vecchia ruota che azionava
una teleferica per il trasporto di materiali e personale lavorante. Accanto
alla quale è visibile il canalone (“menore”) nel quale venivano fatti rotolare
in caduta libera i blocchi di marmo, affinchè dalle cave in quota (ad
un’altezza compresa tra i seicento e gli ottocento metri s.l.m.) giungessero a
valle, fino al paese. Quest’operazione alquanto sbrigativa e rozza spesso
comportava la rottura in più parti di detti blocchi, con loro danneggiamento e
con pericolo per le case del villaggio. Solo i pezzi ritenuti più pregiati e di
rara bellezza venivano fasciati perchè risultassero protetti, come la Veneranda
Fabbrica aveva imposto fin dal 1393. Si dovette tuttavia attendere sino al
1624, dopo una rimostranza dell’architetto Fabio Mangone che si era recato in
visita a Candoglia, perchè si cominciasse ad imbragare in appositi scheletri di
legno i blocchi di marmo al fine di calarli lungo i canaloni piano piano,
trattenendoli con robuste funi, fino a quando non fossero arrivati sani e salvi
in valle.
A destra del monumento, invece, si può vedere il moderno
edificio industriale (la segheria) con relativo piazzale dove, una volta
portati in valle dalle cave, vengono sgrossati e preparati i blocchi di marmo
che, ancora oggi, servono per le manutenzioni ordinarie e straordinarie del
Duomo, delle sue statue, delle sue guglie, dei suoi rivestimenti.
A destra del nuovo capannone ci si imbatte in una
costruzione tanto degradata quanto apparentemente misteriosa: l’antica segheria
eretta nel 1880. Si tratta di un edificio a più piani, con al piano stradale la
zona per il taglio dei blocchi e la successiva lavorazione dei marmi, e il
cortile per il loro accatastamento; al primo piano gli uffici con le stanze dei
sovrintendenti, con struttura a ballatoio. Il tutto è reso ancora più
caratteristico dalla presenza di una torretta con balconcini lignei e tetto a
spioventi con copertura d’ardesia.
Qui, una volta arrivati più o meno integri, e dopo un primo
lavoro di sgrossamento effettuato come visto negli appositi laboratori, il
materiale era imbarcato (presso un porticciuolo detto piarda) su barconi che
poi scendevano lungo il Toce fino ad immettersi nelle calme acque del lago
Maggiore, in quello specchio d’acqua denominato golfo borromeo.
Il resto del viaggio
è ormai leggenda: la barche navigavano in direzione sud, fino a Sesto Calende,
dove il lago restituisce le sue acque al Ticino, che veniva navigato (non senza
difficoltà vista la presenza di undici rapide; i problemi del viaggio di ritorno
vennero risolti da una ingegnosa invenzione del Cattaneo, del 1858: una
ferrovia per barche, la cosiddetta Ipposidra) fino a Tornavento, dove il marmo
veniva dirottato lungo il Naviglio Grande, sempre sopra i caratteristici
barconi contrassegnati dalla ormai famosa scritta a.u.f., perchè si sapesse
che erano esenti dal pagamento di dazi e gabelle, in quanto, appunto, portavano
marmo ad usum fabricae (e fino a non molto tempo fa, l’espressione ad ufo
significava infatti gratuitamente, a sbafo).
Giunto a Milano, il prezioso carico era scaricato nel
laghetto di Sant’Eustorgio, e poco dopo, con l’entrata in funzione della chiusa
detta dell’imperatore, viaggiava per acqua ancora un poco, lungo la fossa
interna, fino all’approdo presso il laghetto di santo Stefano, poi detto
dell’Ospedale (interrato nel 1857 per motivi di presunta salubrità dell’aria,
lo ricorda oggi il toponimo della via Laghetto).
Una volta a terra, grazie all’utilizzo di una gru detta
falcone o falconetto, il marmo era portato con appositi carri fino al vicino
cantiere del Duomo, la cosiddetta cascina degli scalpellini, dove era preso in
consegna da operai esperti sotto la guida di architetti, progettisti, artisti.
Il risultato di tante fatiche è sotto gli occhi di tutti.
Ultima modifica: domenica 14 ottobre 2007
maucolombo@hotmail.com
|