La Corte rinasce
I primi decenni del Cinquecento furono molto turbolenti. I
continui assedi del Castello trasformarono questa splendida residenza in un
malconcio fortilizio militare per cui si dovette ricorrere alla vecchia corte
come alloggio di rappresentanza durante i brevi soggiorni del re francesi a Milano,
e forse in queste occasioni furono eseguiti alcuni affreschi di Butinone,
Zenale e del Bramantino ricordati dal Lomazzo. Una nuova e lunga stagione si
apre nel 1546 con l’arrivo del governatore Ferrante Gonzaga, che si stabilisce
nel palazzo come nuovo duca restandovi nove anni, durante i quali Milano riceve
le nuove mura e inizia la sua lunga “convivenza” con la Spagna, che ha ormai
definitivamente acquisito (5 luglio 1546) il possesso della Lombardia abbinando
alla corona il titolo imperiale di duca di Milano. Con il Gonzaga il palazzo
torna ad essere a pieno titolo Corte ducale, ma per diventarlo realmente
necessitano parecchi lavori. Il palazzo deve contenere anzitutto un
appartamento nobile, con la residenza del governatore e le sale di udienza. Si
sceglie a questo scopo il corpo dell’edificio posto tra il cortile e il
giardino, che viene riformato da Domenico Giunti, l’architetto di fiducia del
governatore. Serve anche molto spazio per gli uffici, che devono essere
situati, anche simbolicamente, sotto lo sguardo attento del governatore, posto
dalle Constitutiones Dominii
Mediolanensis del 1541 al vertice del complesso organismo politico e
amministrativo voluto da Carlo V. Mentre il lato del palazzo rivolto alla
piazza resta destinato prevalentemente al corpo di guardia (era probabilmente
così già dai tempi di Azzone), i due bracci laterali vengono destinati al
Senato (il Salone sulla destra) e ai Tribunali Regi, Magistrato ordinario e
straordinario. I locali verso l’attuale via del Palazzo reale erano adibiti
alle cucine e alla servitù. Altri locali per il governatore e la sua famiglia
sono ricavati nell’area del giardino.
La prima pianta del palazzo che noi
possediamo, risalente alla seconda metà del Cinquecento (fig. 1), ci mostra un
corpo di fabbrica porticato che prosegue lungo la via Rastrelli avvicinandosi
alla contrada delle Ore. Sappiamo che, per ampliare il palazzo, il Gonzaga fece
demolire l’antica chiesa di S. Andrea al Muro Rotto. Nessuno sa con precisione
dove fosse questa chiesa, ma alcuni indizi fanno pensare che poteva trovarsi
alla fine
di questo nuovo porticato, dove resterà per più di un secolo la
cappella segreta dei governatori. Sotto il porticato vengono ricavate inoltre
alcune stanze che dovevano già da allora servire come sede del Consiglio
segreto, mentre l’ala nuova in fondo al giardino era probabilmente già
riservata alla moglie del governatore e alle sue dame, secondo una
distribuzione dei Quarti nobili che resterà invariata per più di due secoli.
Una strada interna e chiusa portava dal cortile maggiore alla chiesa di S.
Gottardo e ai cortili di servizio confinanti con la contrada delle Ore,
utilizzati dalla servitù e dai numerosi artigiani al servizio della corte, che
avevano occupato anche l’area del convento dei Francescani già da molti anni
sostituiti da un semplice cappellano che risiedeva nei locali adiacenti alla
chiesa.
Nel palazzo inizia a svilupparsi una vivacissima vita di
corte. La vecchia struttura (decorata ancora con gli affreschi del Quattrocento
e del primo Cinquecento che il Lomazzo descrive nel suo Trattato del 1584) deve
confrontarsi con eventi memorabili come l’arrivo a Milano di Filippo II nel
dicembre del 1548, durante la quale si organizzano tornei e il nuovo “gioco
delle canne” nel quale “i cavalieri tiravano alcune bacchette con allegrezza et
piacere, sopra la più alta parte del palazzo et della chiesa...”
La grande novità di questo evento fu però l’allestimento di
due commedie da recitarsi nella sala del Senato: L’Alessandra di Alessandro Piccolomini e Gli inganni di Niccolò Secco, l’illustrissimo Capitano di Giustizia
di Milano, letterato dilettante. Un cronista dell’epoca (Manoscritto
dell’Ambrosiana Y 173, riportato in Vianello, Feste, tornei ...) ci descrive l’eroico atteggiamento del re
durante la rappresentazione della prima delle due commedie:
“Et fu certo notabile che essendo
stata Sua Altezza per spatio di più di sei hore continue attentissimamente a
vedere et a sentire recitar la prima commedia, vedendola finita disse a
Francesco Taverna Gran Cancelliere, che gli era dappresso queste parole, già sta cavada, quasi rincrescendogli che
fusse così presto finita.”
Questo evento, anche se organizzato con mezzi di fortuna e
con testi di assai scarso valore letterario, segna l’inizio dell’avventura teatrale
del palazzo: una storia lunga e appassionante che qui possiamo solo accennare,
ma che meriterebbe da sola di occupare un’intera lezione. A quest’epoca il
teatro non assume ancora grande rilievo. Il Gonzaga e i governatori che gli
succedettero nel corso del Cinquecento sembrano più interessati ad organizzare
giostre e tornei piuttosto che rappresentazioni teatrali. La fama di queste
magnifiche feste era talmente diffusa da indurre il signor Anton Francesco
Raineri, accademico trasformato, a
pubblicare un libro, intitolato Pompe,
nel quale molti di questi eventi sono minutamente descritti. Un solo esempio -
la Pompa dei Poeti Amorosi - può dare
un’idea del clima culturale e mondano dell’epoca. L’avvenimento ebbe luogo il
14 febbraio 1553 “in una amplissima Corte colonnata intorno, et adornata
nuovamente di figure bellissime, coperta tutta sopra di panni azzurri”. Questo
era il soggetto della festa:
“... essendo penetrata la fama
delle divine bellezze delle Donne di questa Città [Milano], non solo per l’Universo
tutto, ma insino ai campi Elisi, luoghi delle Anime beate; et pervenuta
all’orecchie de gli altissimi Poeti, Dante, Petrarca, Boccaccio, Bembo,
Sannazaro, et Ariosto, si accesero quelle Anime d’infinito desiderio di veder
una volta queste meravigliose bellezze; ed rotta per una notte sola l’eterna
legge, ritornaro in vita; col consenso e con la Guida d’Apollo; il quale per
honorar i suoi divini Poeti et adempire i desiderii loro, scese dal Cielo; et
con le nove Muse et molti pargoletti Amori degnò d’accompagnarli ...”
La festa iniziò al tramonto con la cena e il ballo. Verso
mezzanotte comparve il corteo dei Cupidini, seguiti da Apollo e le Muse (un
gruppo di musicisti vestiti da donna), poi i Poeti (sei nobili milanesi
mascherati) che presentarono doni d’oro alle dame prescelte con le quali
riaprirono le danze. La festa si concluse all’alba con rammarico di tutti.
Questa felice stagione viene bruscamente interrotta
dall’arrivo a Milano di Carlo Borromeo, nemico del teatro, dei Carnevali e
delle feste. Per prima cosa il nuovo arcivescovo reclama la residenza
episcopale, che gli Arcimboldi avevano iniziato a costruire alla fine del
Quattrocento, ma che poi, essendo inutilizzata, era tornata alla Corte che vi
aveva sistemato il Capitano di Giustizia con i suoi armati e le prigioni.
L’arcivescovo però non si accontenta del palazzo, ma vuole anche come nuova
Canonica degli Ordinari il grande cortile adiacente al palazzo, che era usato
da tempo immemorabile per le scuderie.
All’inizio, prima che il Borromeo venisse a stabilirsi a
Milano e manifestasse le sue intenzioni quaresimali e le sue idee sul potere
della Chiesa, c’è ampia disponibilità nei suoi confronti da parte dei
governatori, che gli cedono di buon grado tutto l’edificio pubblico costruito da
Giovanni Visconti. Subito dopo scoppia la tempesta, che si placa solo nel 1573
con l’arrivo a Milano del governatore Antonio de Guzman y Zuniga, marchese di
Ayamonte, che firma l’armistizio con il Borromeo. Pellegrino Tibaldi,
l’architetto di fiducia dell’arcivescovo, già impegnato nei lavori del Duomo,
nel palazzo arcivescovile e nel cortile dei Canonici, viene quindi gentilmente
prestato al governatore per risistemare anche il suo palazzo. Le trasformazioni
edilizie previste dal Tibaldi non sono mai state studiate ed è molto difficile
capire, dalle piante disponibili (fig. 1) quanto era già stato stato realizzato
dal Gonzaga e quanto viene fatto nei 25 anni che vanno dal 1573 al 1598.
Sappiamo soltanto che in questi anni viene rifatta completamente la decorazione
pittorica degli appartamenti nobili, dei portici, della cappella privata e
della chiesa di S. Gottardo. Collaborano a questa impresa i maggiori artisti
dell’epoca: Aurelio Luini, Ambrogio Figino, Antonio Campi, lo stesso Pellegrino
Tibaldi. Molte opere di carattere decorativo (grottesche, stucchi, trofei) sono
realizzate da Valerio Profondavalle (o Perfundavalle), un artista-impresario
fiammingo, di Lovanio, che realizzò anche alcune vetrate per il Duomo. E’
probabilmente nell’ambito di questi lavori che Pellegrino Tibaldi dipinge per
la Cappella segreta del governatore una Flagellazione.
Uno strano soggetto da contemplare ogni mattina, che fosse un regalo di S.
Carlo?
Il Teatro di Corte
Nel 1594 si sposa a Milano il figlio del governatore Fernandez
de Velasco. Nell’ambito dei festeggiamenti è allestito nel cortile del palazzo
un “Theatro di legname” dove si rappresenta La
caduta di Fetonte, uno dei primi esempi di melodramma. Il progetto del
teatro è di Giuseppe Meda che utilizza una fontana preesistente (un resto della
fontana di Azzone?) per una scena con la cascata. E’ l’inizio della lunga
storia che si concluderà con la costruzione del Teatro alla Scala.
Parallelamente a questo grande teatro dedicato agli spettacoli musicali doveva
essere già operante il più piccolo Teatro delle Commedie, che troveremo in
funzione nel Seicento e nel primo Settecento. Questo secondo teatrino occupava
la sala che si trova all’estremità nord-orientale del palazzo, che esiste
ancora ed è utilizzata dal Museo del Duomo per le più antiche vetrate e
sculture del Duomo.
La struttura provvisoria in legno del Meda forse era stata
rimossa, o forse ancora sopravviveva quattro anni dopo, quando lo stesso
Velasco ha l’incombenza di ricevere Margherita d’Austria in viaggio verso la
Spagna per sposare l’erede al trono Filippo, figlio di Filippo II. La futura
regina doveva arrivare nell’autunno del 1598 per cui già in luglio il Velasco
ordina che venga costruito un “salone a riserva di Theatro” che doveva servire
anche per banchetti, tornei ed azioni coreografiche. Questa grande sala, che in
seguito si chiamerà sempre Salone Margherita, viene realizzato utilizzando il
colonnato già esistente sul lato occidentale del secondo cortile, rispetto al
quale si allineano altrettante colonne di legno (quelle del Meda?). Il Velasco
aggiunge all’impianto già esistente una copertura fissa e sul fondo una fontana
con un sileno e tre mostri marini. Sopra la fontana si apre un loggiato al
quale si accedeva dall’appartamento della governatrice. La scena si trovava sul
lato prossimo al corpo tra i due cortili, probabilmente quindi sul lato opposto
rispetto al precedente teatro del Meda. La decorazione del lato verso il
giardino e della loggia, le scene e gli altri arredi sono del Profondavalle. Il
soffitto è affrescato da Camillo Landriani detto il Duchino con un soggetto
dettato dallo stesso Velasco: “una
leggiadra donzella addormentata (Margherita d’Austria) giacente in un cespuglio di fiori, sopra la quale Pallade, Giunone e
Venere versavano a gara i loro doni simboleggianti le belle doti ond’ella era
distinta”. E’ curiosa la
trasformazione avvenuta dopo 70 anni del medesimo soggetto nella guida del
Torre, dove è citato come “l’Insubria
sedendo in verde pianura contemplatrice d’un Ciel sereno colmo di Deità
gentilesche”. Nell’affresco troneggiava ancora il motto augurale “Pleno beant te Numina sinu”.
Margherita, che era attesa come principessa, arrivò il 30
novembre ormai quasi regina, perché nel frattempo era morto Filippo II e il
promesso sposo era diventato di conseguenza il nuovo re Filippo III. Il grave
lutto che aveva colpito la corte spagnola si rifletté necessariamente anche
sulle cerimonie milanesi. Lo spettacolo venne quindi affidato ai Gesuiti che
inaugurarono il teatro mettendo in scena “il caso di quel Re che, superbo, fu
umiliato”, una descrizione piuttosto sommaria del cronista che forse, durante
lo spettacolo, dormiva. Alcuni giorni dopo, per sollevare gli animi, nel Salone
ebbe luogo un grande ballo organizzato dal grande coreografo Cesare Negri detto
il Tromboncino. Il Bascapè ipotizza che le figure di danzatori riportate nel
libro Le Gratie d’Amore del Negri del
1602 (fig. 2) possano far riferimento a questo grande avvenimento.
Le feste e le rappresentazioni nei primi anni del Seicento
furono sempre più numerose e fastose. La città è euforica e piena di cantieri
per la favorevole congiuntura economica (questo periodo sarà chiamato l’Estate
di S. Martino dell’economia milanese) e per la canonizzazione di S. Carlo
Borromeo, circonfusa di miracolose guarigioni. Si pensa di creare nuove fontane
che portino acqua pulita nelle stalle, nelle lavanderie e nelle cucine del
palazzo. Il problema delle stalle viene risolto creando nuovi corpi di fabbrica
verso l’Arcivescovado. L’altare di S. Gottardo riceve una nuova splendida pala
del Cerano con S. Carlo in Gloria.
Nel 1613 Alessandro Bisnati, con l’aiuto del Mangone, ricostruisce con solide
murature e colonne di granito la parte in legno del Salone Margherita avviando
un programma regolare di spettacoli i cui proventi venivano devoluti al
Collegio della Vergini Spagnole che accoglieva le orfane di ufficiali e soldati
spagnoli.
La facciata, il Senato e gli altri uffici
Di fronte a tanto fasto ed opulenza, perché non pensare
anche al Duomo, che oltre tutto accoglieva le spoglie di S. Carlo e il grande
flusso di pellegrini che venivano da ogni parte a venerarlo? Il Duomo era
sempre fermo alla sesta campata per colpa della Corte che lo bloccava e il
problema della facciata era ormai maturo per essere affrontato. Così, nel 1616,
si arriva all’accordo tra il governatore e il cardinale Federico Borromeo per
demolire un altro pezzetto del palazzo in modo da consentire l’avvio dei lavori
della facciata. Si fanno progetti per rendere decoroso questo frastagliato
fronte del palazzo, ma poi si ripiega sulla soluzione più economica che
tagliuzzava ulteriormente un pezzo dell’antico fronte di Azzone, spostando
verso sud il vecchio portale sormontato da edicole e statue, molto simile, a
quanto si può capire dalle antiche vedute, alle edicole realizzate da Giovanni
di Balduccio per le porte che si aprivano sui Navigli. Questa brutta facciata,
coperta oltre tutto per l’intera sua lunghezza da bancarelle sovrastate da una
tettoia in legno, non subirà altri cambiamenti fino al 1773 quando sarà
interamente demolita dal Piermarini.
La peste del 1630 e la successiva grave crisi economica
fermano quasi tutte le iniziative avviate e progettate negli anni d’oro
d’inizio secolo. Nel Teatro di Corte si continuano a rappresentare melodrammi,
prima importandoli da Venezia e poi, dal 1653, avviando una produzione locale.
Nella sala più piccola continua a funzionare il Teatro delle Commedie aperto al
pubblico mentre sul corpo tra il cortile e il giardino viene creata una sala, sopra
la quale correva un ballatoio di ferro, chiamata “Sala dei Festini” dove si
svolgono i balletti.
Con la nomina di Bartolomeo Arese a Presidente del Senato
anche il Salone dove si tenevano le udienze di questa prestigiosa istituzione
riceve maggiore attenzione. Anzitutto viene ristrutturato il grande cortile che
fino a quel momento conservava l’aspetto trecentesco. Le finestre sono ridotte
da gotiche a quadre e sull’intonaco è dipinto un finto rivestimento di pietra.
Forse a quest’epoca risale il lungo ballatoio che correva lungo il lato
orientale del cortile svoltando poi fino alla vecchia torre. Il quadro esposto al Museo di Milano ci consente di vedere chiaramente l’esito di
questi lavori, che conferirono al cortile un aspetto molto severo, quasi
carcerario. (Fig. 3)
L’impresa più impegnativa è quella della decorazione
pittorica del Salone delle Udienze del Senato che si arricchisce di un
importante ciclo di pitture oggi parzialmente conservato nelle collezioni di
Brera o in deposito presso alcune chiese. Questa iniziativa, che fu
probabilmente promossa da Bartolomeo Arese, ebbe inizio verso la metà degli
anni ‘60 del Seicento ed era certamente conclusa entro il 1674, anno in cui
Carlo Torre scrisse il suo famoso Ritratto
di Milano. Prima del 1660, il Senato disponeva di una pala per la propria
cappella con la Pentecoste di Antonio
Campi. Negli anni ‘30 il cardinal Monti aveva donato un suo Cristo che porta la croce di Daniele
Crespi da collocare nel Salone forse per instillare maggiore serietà e
misericordia nei Senatori. Il ciclo, commissionato negli anni ‘60, prende
spunto da questa prima tela per completare le storia della Passione di Cristo.
Sono commissionati allo scopo questi altri cinque quadri da collocare lungo le
pareti:
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Cristo in croce di Ercole Procaccini il giovane, 1660 ca., passato poi a Brera e dal 1967 a SS Nazaro e Celso
alla Barona in via Zumbini, collocato
sul presbiterio a sinistra guardando l’altare; |
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Orazione nell’Orto di Stefano Montalto oggi nella Facoltà
Teologica; |
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Flagellazione di Giuseppe Nuvolone oggi
a S. Simpliciano; |
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Coronazione di spine di Antonio Busca
(1650-60), oggi nella parrocchiale di Misinto; |
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Elevazione di Cristo in croce di Carlo
Cornari, mai giunto a Brera, disperso. |
Il dipinto di Daniele Crespi è l’unico conservato a Brera.
Completava il ciclo una grande Crocefissione
del Cornara ordinata direttamente dal Presidente Arese. Sopra questa austera
serie di tele che misuravano 2.20 x 2.36 m, e che era intervallata con arazzi,
si svolgeva una seconda serie di tele più grandi (2.35 x 3.12 m) che
simboleggiano le proprietà della Giustizia Cristiana: Aequitas, Legislatrix, Distributiva, Commutativa, Vindicativa[3]. A rappresentare queste proprietà
furono scelti questi cinque soggetti tratti dal Nuovo e Vecchio Testamento:
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Salomone che dormendo chiede la Sapienza da Dio
di Stefano Montalto, passato da Brera a S. Marco e poi scomparso; |
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Samuele che unge il re David ancora pastore, 1670, di Agostino
Santagostino, in deposito a S. Marco; |
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I vecchioni lapidati per le false accuse
contro Susanna di Giuseppe Nuvolone, passato da Brera a S. Marco e poi
scomparso; |
|
Cristo interrogato dagli Ebrei sulla moneta,
di Antonio Busca, in deposito a S. Marco; |
|
Cristo che scaccia i mercanti dal tempio
di Ercole Procaccini il Giovane, passato
da Brera a S. Marco e poi scomparso; |
Tra i cinque quadri c’erano i ritratti di Francesco II
Sforza, e quelli dei re di Spagna Carlo V, Filippo II, Filippo III, Filippo IV
e Carlo II.
Il primo a descriverci questo apparato è Carlo Torre (Ritratto, cit., pp. 341-42; 365-67), con
il quale possiamo per la prima volta immaginare di visitare le diverse stanze
del palazzo e la chiesa di S. Gottardo. La visita inizia dallo scalone del
Senato, che porta alla Guardia dei
Soldati Tedeschi, una stanza dipinta con gli stemmi delle città (lombarde?)
sotto il dominio spagnolo. Da qui si apre la Sala dell’Udienza e una grande sala (senza nome, che correva lungo
via Rastrelli sopra il Teatro) che porta alla Cappella segreta (scendendo la scala in fondo perché la Cappella
era il piano terreno). Tornati alla Sala dell’Udienza si prosegue lungo il
corpo tra corte e giardino attraversando la Sala dei Festini, dipinta a prospettive da Francesco Villa con la
loggia di ferro dorato per gli
spettatori e proseguendo con le stanze del governatore decorate da poco con
soggetti mitologici e storici da pittori contemporanei come Ercole Procaccini
il Giovane, il Montalto, Federico Bianchi ed altri. Arrivati in fondo verso la
via del Palazzo Reale, si scende per la “Scala moderna”, il nuovo scalone posto
nel cortiletto che si vede entrando dall’attuale n. 14, che doveva essere stato costruito negli anni ‘60 in
concomitanza con la ristrutturazione della corte, e si arriva al Teatro per le
Commedie, che si affacciava sul cortiletto.
Da qui il Torre ci conduce al “gran
Salone, che da’ cittadini nostri Teatro dicesi”, e cioè al Salone Margherita,
che per essere adibito a melodrammi, feste, banchetti e tornei, non sembrava al
Torre un vero e proprio teatro. Ed in realtà che non ne avesse proprio
l’aspetto, lo dimostra l’incisione del Gherardini (vedi fig. 4) dove lo vediamo
usato per un ricco banchetto. Poi, girando intorno per il chiostro del giardino
dov’erano i ritratti dei governatori a partire da Carlo V, il Torre si dilunga
in encomi di questa lunga serie di personaggi, in realtà non tutti davvero
encomiabili. A noi interessa osservare che a quest’epoca la seconda corte è
diventata “giardino” ed è stata ristretta da tutti i lati con un nuovo giro di
portici, una campata dei quali si può ancora osservare sulla sinistra, entrando
dalla piazza del Duomo, nel piccolo andito che accede al Museo del Duomo.
Questi lavori, che avevano consentito di ampliare i locali su tre lati del
giardino, dovevano già essere iniziati (sul lato nord) negli anni ‘40 del
secolo sotto la direzione di Francesco Maria Richini, che aveva costruito la
Galleria appoggiata al lato nord del Giardino. Dopo una visita alla cappella e
al Salone del Senato con la descrizione delle pitture, si ritorna al portico
sul giardino con il lato richiniano “chiuso di vetri delizia de’ nostri
Governatori”. Da qui, attraverso l’antica via chiusa si giunge alla chiesa di
S. Gottardo.
Qui stranamente non si parla di pitture murali, forse sbiancate con la peste del 1630, mentre è ricordata la
pala del Cerano, il pavimento fatto di marmi bianchi e neri, e un piccolo
altare con una statua di S. Gottardo. La visita finisce nel Teatro delle
Commedie o delle Sceniche Recite che, secondo il Torre, era stato costruito
dov’erano i bagni dei Duchi. All’epoca del Torre si stava lavorando sui corpi
di fabbrica verso la contrada delle Ore per creare nuove stalle e alloggi per
la servitù. Una pianta del 1708 (fig. 5) evidenzia chiaramente questi mutamenti
avvenuti nell’area dell’antico convento francescano.
Il linguaggio immaginifico del Torre fa pensare ad una
reggia sontuosa, ma in realtà le opere secentesche furono poche e realizzate
con scarsi mezzi, per cui gli ingegneri ducali continuavano a lamentarsi per il
degrado. Anche i due teatri dovevano essere in cattive condizioni, se nel 1686
si deve ricorrere ad un completo rinnovo degli arredi del teatro piccolo,
giusto in tempo per consentire a Carlo Maria Maggi di allestirvi le sue
straordinarie commedie dove compare la nuova maschera di Meneghino. Per il
teatro maggiore l’anno 1695 segna l’inizio dei guai. Nella notte tra il 23 e il
24 gennaio è colpito da un incendio che lo danneggia sul lato sud, distruggendo
anche parecchie sale nel Quarto della Governatrice che, come si ricorderà, era
sistemato sul lato sud del Giardino. L’unico vantaggio che si trae da questo
disastro, è quello di ampliare ulteriormente il grande salone sovrastante il
teatro aggiungendovi il locale sopra la cappella. Veniamo a sapere così che il
salone funzionava da Sala della Balla (campo da tennis) e, così ampliato,
consentiva di praticarvi anche il gioco della pilotta. Questo corpo di
fabbrica, che almeno in parte è di epoca viscontea, doveva essere utilizzato
per i giochi già dall’epoca dei primi governatori, o forse anche da prima. Il
vecchio Salone Margherita viene presto restaurato e migliorato, ma altrettanto
presto (5-6 gennaio 1708) torna a bruciare e questa volta in modo devastante
riducendosi, come dirà in seguito il Latuada “in un mucchio di terra e sassi,
da’ quali nacquero negli anni successivi e sterpi e spine”. Vanno in fumo anche
i locali lungo la via Rastrelli, occupati fino ad allora dalla Segreteria di
Stato e di Guerra, dalla Cancelleria segreta e dalla Cappella. Gravi danni
subiscono la Galleria con le vetrate del Richini e i saloni delle udienze e dei
festini, che perdono i loro affreschi.
La prima dominazione austriaca
Che l’incuria regnasse in questi anni a palazzo non stupisce
affatto, se si ricorda che Milano era nel pieno della bufera della Guerra di
Successione Spagnola. Dal 1707 era governata per conto dell’Austria da Eugenio
di Savoia, occupato in mille campi di battaglia e che non alloggiò nel palazzo
neppure durante i suoi brevi soggiorni in città. Le vicende cominciano a
sbrogliarsi nel 1714 con la pace di Rastadt che assegna Milano all’Imperatore e
in pratica all’Austria. All’inizio del 1717 arriva il primo governatore
austriaco - il Loewenstein - che avvia il 26 aprile i lavori del nuovo teatro, più
grande e armonioso del precedente, attrezzato con quattro ordini di palchetti e
un loggione disposti modernamente a ferro di cavallo e una grande platea. Il
progetto viene oggi attribuito a Francesco Bibiena, che l’avrebbe realizzato
servendosi del suo allievo Giandomenico Barbieri e di Domenico Valmagini. Il 26
dicembre dello stesso anno, il teatro è già finito e può essere inaugurato con
l’opera Costantino di F. Gasparini,
assente il governatore per un improvviso malore. Pianta e alzato del teatro
sono riportati con giusto orgoglio nell’opera del Latuada (fig. 6).
Sul
proscenio sopra un grande arco splendevano due medaglie con l’imperatore Carlo
VI e una Fenice con la scritta “Rediviva
sub ottimo Principe hilaritas publica”, che coglieva intelligentemente il
gusto milanese per l’aspetto ludico della cultura; una tendenza sottolineata
dalla presenza del tutto nuova, accanto al teatro, di un Ridotto e un Ridottino
per i giochi d’azzardo, di pasticcerie, bottiglierie e negozi per bigiotterie e
maschere. Altro che le misere caffetterie e bookshops proposti oggi con tanto
accanimento!
La costruzione del teatro è chiaramente un’operazione
politica che mira a rendere meno traumatico il passaggio dalla Spagna, lontana
e favorevole a larghe autonomie, verso un’Austria molto più incombente e
minacciosa soprattutto per la borsa dei Milanesi, dal momento che era piena di
debiti per le continue guerre contro la Francia. All’inizio per il palazzo non
sono previste altre spese. Danneggiati dagli incendi i lati sud e nord del
giardino, il governatore si rifugia nel “Quarto dei potentati”, il locali del
piano nobile della Manica corta che erano stati finora utilizzati come uffici.
Un incendio del 1723 che finisce di distruggere l’ala più nobile del palazzo
con i saloni delle Udienze e dei Festini, avvia dei lavori per ricavare un
nuovo Quarto nobile verso il giardino, sistemando nello stesso tempo al di
sotto gli uffici della Segreteria di Stato e di Guerra, dov’era l’ormai
devastata Galleria con le vetrate del Richini.
Dal 1725 al 1733, nel periodo del governatore Wilrich Philip
Daun, la politica austriaca palesa ai milanesi le sue tendenze che evidenziano
una svolta nei confronti della politica spagnola e prefigurano l’imminente
epoca illuminista: l’avvio del nuovo catasto, che sarà poi chiamato
“teresiano”, e la fondazione della Società Palatina che aveva lo scopo di
stampare le monumentali opere letterarie curate da Ludovico Antonio Muratori.
Qui interessa sottolineare che il nome “Società Palatina” viene proprio dal nostro
palazzo, in quanto i privati che l’avevano costituita possono utilizzare la
tipografia di Stato per stampare le
loro famose pubblicazioni. Si verifica in questo caso felicemente quella
sinergia pubblico-privato oggi tanto invocata ma raramente attuata. La
stamperia era uno dei servizi presenti nel palazzo probabilmente fin dai primi
governatori spagnoli. All’inizio si trovava nella Manica corta, ma in
quest’epoca, da quando probabilmente questa zona diventa residenza del
governatore, si sposta in alcuni locali del corpo verso la piazza, all’incirca
dov’era la vecchia porta.
Il Daun, con la minima spesa, cerca anche di rendere più
decoroso il palazzo facendo ridipingere il cortile in modo da eliminare quel
cupo aspetto carcerario che aveva assunto nel Seicento. Le pareti diventano
chiare e le finestre sono incorniciate con finte cornici barocchette disegnate
da Carlo Rinaldi. Il risultato ottenuto è ben evidenziato dalla veduta del
cortile inserita nell’opera del Latuada e in quella di Marcantonio Dal Re.
(figg. 7 e 8) Anche S. Gottardo, diventata ormai Regio-Ducale Cappella, riceve
una nuova tinta chiara ed è ornata con stucchi e dorature. E’ rifatta la loggia
per il governatore ed è predisposta una pedana per l’orchestra. E’ un primo
segno della passione per la musica strumentale che ci arriva dall’Austria
lasciando un segno profondo nella cultura milanese. Contemporaneamente però
cessa di esistere il vecchio Teatro della Commedia, aperto al pubblico, che
forse, agli occhi dei nuovi governatori, conferiva una punta di volgarità, al
Palazzo.
La situazione del Palazzo in questa prima metà del
Settecento è illustrata dettagliatamente sia dal Latuada (Descrizione, cit., vol. II, num. 58, pp. 127-199) sia da una pianta
del piano nobile che risale agli anni 1743-45 (fig. 9). Il Latuada, oltre a
descrivere il teatro e la Sala del Senato, ci parla diffusamente dei vari
uffici presenti al piano terreno del grande cortile: l’ufficio del Gran
Cancelliere, il Magistrato ordinario e straordinario, il Magistrato della Sanità,
il Giudice delle Monete, gli uffici della Veedoria Generale e della Contadoria
Principale, l’Offizio della Mezza Annata. Tutti questi uffici avevano compiti
amministrativi, gestivano cioè entrate e uscite della Stato e risolvevano per
via giudiziaria i contenziosi. Il governo dello Stato era invece collocato
nelle nuove stanze approntate sul lato nord del giardino dove si riuniva il
Consiglio Segreto presieduto dal Governatore. Come in epoca spagnola, tuttavia,
il potere di questo Consiglio era fortemente limitato dalla volontà del vero
governo che risiedeva a Vienna. Al piano nobile vengono restaurati il Salone
dei Festini e quello dell’Udienza che prende ora il nome di Salone degli
Imperatori. Il governatore e la governatrice alloggiano nelle nuove stanze che
si affacciano sui lati settentrionale e meridionale del Giardino. Tra i due
Appartamenti, sul lato verso l’arcivescovado, vengono creati i Quarti per gli
ospiti, modificando il cortile delle Cucine (o della Fontane) che da
triangolare diventa quadrato, mentre scompaiono completamente le scuderie
create nel Seicento in questa parte dell’edificio. Questo cortiletto, che aveva
un aspetto molto trasandato, riceve un minimo di risistemazione nella primavera
del 1739 in occasione dell’arrivo a Milano di Maria Teresa, che viene
alloggiata nelle stanze che su di esso si affacciavano.
La Corte si ingentilisce
Con l’arrivo del Pallavicini a Milano, prima ministro
plenipotenziario e poi governatore, la tendenza sopra accennata verso un
maggior rigore fiscale accompagnato da un rinnovamento delle cultura si
accentua ulteriormente. Riprendono infatti i lavori del catasto, ma si aprono
contemporaneamente nuove opportunità culturali per la città. Il Pallavicini
prima di tutto riscontra la grande povertà e vetustà degli arredi, che devono
essere completamente rinnovati. Ordina a sue spese bureaux, trumeaux, “scabeletti” sul modelli dei tabourets parigini, argenti, maioliche e
porcellane, lampadari e “placche” (applique)
e soprattutto centinaia di sedie, segno che ormai, contro l’uso antico delle
Corti, i frequentatori dei saloni nobili non dovevano più restare perennemente
in piedi. Le austere sale disposte intorno al Giardino ricevono nuova grazia
per merito dell’architetto Francesco Croce, che sistema anche in alcune di
queste sale i nuovi arazzi raffaelleschi di manifattura Gobelin ordinati
appositamente per il palazzo. La trasformazione più significativa viene
realizzata nel corpo verso il cortile dove le sale dei Festini e degli
Imperatori vengono unificate in
un’unica enorme Sala da Ballo di
circa 46 metri per 17. Sui due lati minori del salone sono sistemati, in alto
sopra una specie di vestibolo, i palchi per le orchestre. Il Pallavicini era un
ammiratore del musicista Sammartini, con il quale organizzò grandiose “Serate
musicali” sulla spianata ad ovest del Castello (oggi piazzale Cadorna). Forse
fu proprio per la grande Sala da Ballo della Corte che il Sammartini inventò
quella nuova forma musicale destinata ad avere tanto successo: la sinfonia.
Un’altra interessante novità introdotta dal Pallavicini
nella Corte è la Salle à manger, un
locale destinato esclusivamente ai pasti, secondo una moda francese ancora
sconosciuta a Milano. La nuova sala venne ricavata ampliando un locale che si
affacciava sul lato nord del cortiletto quadrato, comunicante con le
sottostanti cucine e facile da raggiungere da tutti i quarti nobili. La nuova
distribuzione degli ambienti voluta dal Pallavicini è stata recentemente
studiata da Marica Forni nel suo libro
sul Palazzo Regio Ducale dal quale abbiamo tratto anche la pianta riportata in fig. 10. Nel 1752, prima di lasciare Milano, il Pallavicini riesce a vendere
alla Regia Camera gran parte degli arredi che aveva portato a palazzo. Maria
Teresa, piena di debiti e poco amante di Milano, acconsente suo malgrado
all’acquisto solo perché aveva appena siglato l’accordo con gli Estensi che le
avrebbero ceduto il ducato di Monaco in cambio delle nozze tra Maria Beatrice
d’Este (che aveva allora solo due anni) e un figlio di Maria Teresa. Siccome il
patto prevedeva anche la nomina a governatore di Milano di Francesco III
d’Este, l’imperatrice non se la sente di inviare il futuro consuocero in una
dimora spoglia e disadorna. Forse sperava di cavarsela così a buon mercato, ma
non aveva fatto i conti con la voglia di spendere (e di guadagnare) del figlio
Ferdinando.
Cambiano i tempi. Rivoluzioni nel palazzo
Dopo quasi vent’anni, cresciuti ormai i due promessi sposi,
ci si avvicina alle nozze. Ferdinando, il 15 ottobre 1771, sposa in Duomo Maria
Beatrice d’Este e diventa il nuovo governatore della Lombardia austriaca. Il
palazzo, così come gli è giunto dopo mille rimaneggiamenti, non gli piace
affatto. Probabilmente all’inizio è tentato di lasciarvi gli uffici pubblici e
di trasferire la propria residenza in un palazzo nuovo, costruito secondo il
nuovo gusto neoclassico. Si spiegherebbe così l’arrivo del Vanvitelli e la sua
successiva delusione all’annuncio che Vienna non intendeva spendere così tanti
soldi. Si spiegherebbe altresì il progetto trovato tra le carte del Piermarini
che colloca il nuovo palazzo, con ampio giardino, nell’area dei Giardini
Pubblici. Mentre la giovane coppia si sistema provvisoriamente a Palazzo
Clerici, si studia un compromesso: il vecchio palazzo sarà ristrutturato in
modo da avere finalmente un aspetto esterno decoroso: grande novità per Milano
che aveva sempre lodato le facciate disadorne e i saloni pieni di stucchi,
dorature, affreschi e specchi. Molti
uffici sarebbero stati trasferiti altrove per lasciare posto alla corte, ma il
teatro doveva rimanere per offrire alla città le delizie del melodramma. I
lavori iniziano nel 1773 sotto la direzione del Piermarini, affiancato da
Leopoldo Pollack inviato da Vienna per controllare le spese.
Il Piermarini elimina subito il vecchio e sbrindellato corpo
di fabbrica verso la piazza trasformando il cortile in un grande piazzale con
una nuova facciata “moderna” e due grandi braccia laterali. Poiché queste
braccia o “maniche” sono molto diverse tra loro, vengono rese eguali dividendo
la più lunga in due parti: le prime sette finestre sono costruite eguali a
quelle dell’altra manica e della facciata, mentre il corpo che sopravanza resta
più basso e decorato più modestamente. Il centro della facciata è rinforzato
con quattro semicolonne giganti al posto delle paraste e da un triplice portale
che regge una balconata. Sul coronamento era previsto un grande stemma centrale
e una serie di statue e trofei (mai realizzati).
Nel corso dei lavori, la notte del 26 febbraio 1776, brucia il
Teatro di Corte in circostanze piuttosto sospette. Molti sostengono che
l’”incidente” fosse opera dell’Arciduca Ferdinando che non voleva nella sua
dimora un simile impiccio, che comportava un pericolo per gli incendi e un
andirivieni di estranei proprio accanto agli appartamenti privati. La città,
privata bruscamente del suo maggiore divertimento, decide subito di crearsi un
nuovo teatro che viene costruito in due anni demolendo la chiesa di S. Maria
della Scala, appartenente alla Corte e dove sinora si celebravano le cerimonie
solenni alla presenza di illustri ospiti. Lo spazio così liberato viene
utilizzato per nuovi saloni di rappresentanza e per allargare verso ovest il
Giardino. Per la Corte il Piermarini, dov’erano le antiche Scuole Cannobiane, crea
anche un secondo teatro che dopo molte vicissitudini è diventato l’attuale
Teatro lirico.
Anche all’interno il palazzo subisce molte trasformazioni,
che portarono ad una distribuzione dei locali rimasta in seguito quasi
invariata fino ad oggi. L’impresa di maggiore importanza è rappresentata dalla
famosa Sala delle Cariatidi, con le statue del Franchi, le cariatidi del Calani
e gli ornati di Giocondo Albertolli. Questi artisti, assieme ai pittori
Giuliano Traballesi e Martino Knoller, saranno all’opera anche per decorare
tutte le parti nobili dell’edificio, compreso il nuovo grande scalone costruito
in fondo al secondo - e ormai unico - cortile, proprio a ridosso della facciata
di S. Gottardo, che da questo momento scompare completamente. Anche l’interno della
chiesa subisce lo stesso trattamento del palazzo, con nuove pale d’altare e una
decorazione neoclassica. Si salva solo il campanile, considerato un modello
dell’idea di bellezza architettonica del tempo di Azzone Visconti. Darà
compimento a questa rivoluzione neoclassica dell’edificio uno stuolo di
artigiani, con al vertice la famiglia Maggiolini che inizia a fornire mobili
alla Corte probabilmente a partire dal 1788, proseguendo la sua opera anche in
epoca napoleonica.
Sono acquistati nuovi arazzi gobelins con le Storie di Giasone da affiancare a quelli
raffaelleschi del Pallavicini. Dal punto di vista artistico, però, le opere più
interessanti sono rappresentate dai soffitti affrescati dal Traballesi e dal
Knoller, che avviano una ciclo di lavori di notevole pregio, che sarà
completato nei decenni successivi dall’Appiani e dall’Hayez. I primi soffitti
affrescati negli anni ‘70 e ‘80 sono del Traballesi:
|
Amore che porta
Psiche in cielo nel centro della volta del Gabinetto Grande di Parata.
Nella stessa sala il Traballesi dipinge sulle sovrapporte Sincerità, Fermezza, Pudore e Fecondità; |
|
La luce che mette in
fuga la notte e gli spiriti maligni delle ombre sulla volta dello Scalone; |
|
le sovrapporte nella Terza Sala degli Arazzi; |
|
I riposi di Giove
nella Sala del Balcone; |
|
Trionfo d’Igea
nella volta della Sala da Pranzo. |
I soggetti sono suggeriti dal Parini. Per la localizzazione
di questi ambienti vedi fig. 11.
Martino Knoller dipinge invece le sovrapporte e la volta
della Sala dell’Aurora con l’Aurora.
Nel 1779 anche l’Appiani inizia a lavorare nel palazzo eseguendo alcune
decorazioni nella Terza Sala degli Arazzi come assistente di Giuseppe Levati.
L’arrivo di Napoleone nel 1796 sconvolge tutta Milano. Il
Palazzo Regio-Ducale, privato dello stemmone che troneggiava sulla facciata,
diventa Palazzo Nazionale e sede degli organi di governo che si succedono negli
anni della prima Repubblica Cisalpina, e cioè il comando militare, prima e poi
il Direttorio. Nelle innumerevoli stanze del palazzo si accampano le truppe
francesi di passaggio. Quando nell’aprile 1799 devono lasciare precipitosamente
Milano per l’arrivo degli austro-russi, gli arredi del palazzo vengono messi
all’asta. Sono venduti molti mobili e quadri. Si salvano gli affreschi e le tre
tele di S. Gottardo perché nessuno volle acquistarle. Tra la partenza dei
Francesi e l’arrivo degli Austro-Russi la folla entra nelle sale e si porta via
parte di quello che era rimasto, ma il saccheggio viene presto fermato dalla
Guardia Nazionale.
Dopo cinque anni di sconvolgimenti, però, con la
proclamazione della Repubblica Italiana e poi del Regno d’Italia, il palazzo
non solo rinasce, ma raggiunge il suo apogeo. Non è più la sede del governo di
un piccolo ducato, ma di un vasto regno comprendente tutta l’Italia
settentrionale. Si riparano i danni e si acquistano nuovi sontuosi arredi. Sede
di una grande corte, tra il 1809 e il 1812 viene ampliato nella parte
posteriore da Luigi Canonica, che vi aggiunge tutto l’isolato attualmente
occupato dagli Uffici Comunali dove vengono sistemate le nuove scuderie, un
ampio maneggio e molti locali per uffici. Un ponte aereo congiunge questo nuovo
corpo con il teatro della Cannobiana. Ad Andrea Appiani è affidato il
completamento degli affreschi nei saloni di rappresentanza. Si inizia nel 1802
con la serie dei Fasti di Napoleone per la Sala delle Cariatidi. Segue nel 1808 nella Sala del Trono l’Apoteosi di Napoleone-Giove nella
medaglia della volta e le Virtù cardinali
nelle lunette (attualmente nella Villa Carlotta a Como); nel 1909 affresca la
scena con Minerva mostra a Clio lo scudo
istoriato di Napoleone e i Quattro
Continenti nella Sala delle Udienze Solenni; inizia a decorare la volta
della Sala della Lanterna con Muzio
Scevola, La generosità di Scipione, Discoboli e Pugilatori (la volta resta incompiuta, sarà completata più tardi da
Pelagio Pelagi e Hayez). Nel 1810 infine, in occasione delle seconde nozze di
Napoleone, dipinge nella volta della Sala della Rotonda La Pace ed Imene(1810) che allude all’importante avvenimento:
rappresenta Imene con Amore e la Pace alata con un giovane che porta la palma e
la corona. Imene porge un ramoscello d’ulivo alla Terra (Maria Luisa d’Austria)
seduta su un carro trainato da due leoni. Tutti questi affreschi sono stati
distrutti durante il bombardamento del 1943.
Con la caduta di Napoleone nel 1814, l’enorme palazzo inizia
una progressiva perdita di importanza che l’ha condotto alla miserevole
condizione in cui oggi si trova. Durante la Restaurazione è ancora Corte regia,
dal momento che ospita il vicerè del Regno Lombardo-Veneto. I Fasti di
Napoleone vengono tolti dalla loro sede e depositati a Brera. Per volontà
dell’imperatore invece possono restare al loro posto gli affreschi dell’Appiani
anche se inneggianti al deposto imperatore. Qualche miglioria viene apportata
agli arredi. Nel 1837, in
concomitanza con l’incoronazione di Ferdinando I,
l’Hayez affresca sulla volta della Sala delle Cariatidi il Trionfo di Ferdinando mentre il pittore Carlo Arienti crea una
nuova serie di tele da appendere alla balconata con i Fasti di Maria Teresa e dei suoi successori. Le modifiche apportate
in quest’epoca e l’uso che si faceva dell’intero palazzo è stata minutamente
descritta dal Cassina, che ci ha lasciato una dettagliata pianta del palazzo
(fig. 12) e molte incisioni con le decorazioni delle sale.
L’inizio della fine?
Nel 1848, per creare una più ampia zona di rispetto tra il
Palazzo e il Duomo, si accorcia di due finestre la Manica corta la cui testa
viene così ad allinearsi con l’edificio retrostante e l’Arcivescovado. E’
l’inizio di una serie di smantellamenti che lo porteranno in un secolo alle
dimensioni attuali.
Nel 1859, con l’annessione della Lombardia al Piemonte, il
palazzo passa ai Savoia. I Fasti di
Napoleone dell’Appiani, in onore di Napoleone III, tornano nella Sala delle
Cariatidi, ma anche i Savoia vogliono essere celebrati e così nel 1863, nella
Sala della Lanterna, sono disposti vari quadri di battaglie che compongono una
specie di Fasti di Vittorio Emanuele II.
Una guida di questo stesso anno, riedita dal Vandoni, ci illustra lo stato del
palazzo in quest’epoca, quando era ormai diventata una corte virtuale, a
disposizione di un re che non la utilizzò quasi mai.
Nel 1894 si demolisce la passerella che collegava il palazzo
al teatro e quest’ultimo viene venduto al Sonzogno che lo restaura facendone un
importante teatro d’opera. Ormai il palazzo è quasi disabitato, il re Umberto I
soggiorna prevalentemente nella Villa Reale di Monza. Dopo l’assassinio del
padre, Vittorio Emanuele III si tiene più che può lontano da Milano. L’ultimo
ricevimento a Corte viene dato nell’aprile 1906, per l’inaugurazione
dell’Esposizione Internazionale al Parco Sempione. Nella notte del 4 novembre
1918, nel momento stesso in cui veniva firmato il trattato di pace che metteva
fine all’impero austriaco, un pezzo dell’affresco di Hayez con il Trionfo di Ferdinando piomba
pesantemente a terra. Un segno del destino o incuria nella manutenzione?
L’anno dopo i Savoia, forse per liberarsi di tante spese,
cedono il Palazzo Reale allo Stato assieme a molte altre loro proprietà in
Italia. Il palazzo di Milano viene assegnato al Ministero dell’Istruzione
Pubblica che lo destina a Museo d’Arte Applicata all’Industria. Una parte resta
a disposizione dei Savoia e tutta l’area verso via Larga è donata al Comune.
Altri locali infine sono assegnati a uffici statali.
Inizia una trattativa tra Comune e Stato per l’uso del
palazzo. Nel 1921 si ipotizza uno scambio di questo tipo: il Palazzo sarebbe
passato in uso perpetuo al Comune che si sarebbe lì trasferito con tutti i suoi
uffici, usando i saloni d’onore come Museo. In cambio Palazzo Marino sarebbe
stato concesso in uso perpetuo alla Biblioteca di Brera. L’accordo non si
concretizza, ma va avanti l’idea del Museo d’Arti Applicate, che verrà
allestito con arredi provenienti dal Palazzo stesso e da altri edifici storici
dello Stato. Questi arredi sono affidati al Comune in deposito temporaneo.
Migliaia di altri oggetti di valore presenti nel Palazzo (argenterie, porcellane,
mobili, tappeti) prendono la via dei Ministeri romani. Gli arazzi su disegno di
Raffaello sono spediti ad Urbino. Il Museo viene aperto l’1 dicembre 1922. Nel
1925 è distrutto il corpo verso via Larga per avviare la costruzione del nuovo
palazzo per uffici. I lavori nel palazzo in questi anni mettono in luce le
antiche finestre gotiche sulla via Rastrelli e sulla facciata (queste ultime
poi ricoperte). Nel 1929 si scopre su un lato del campanile di S. Gottardo un
importante affresco trecentesco con la Crocefissione.
Si apre un ampio dibattito tra gli storici dell’arte che lo attribuiscono a
Giottino giovane (Coletti, Marcucci) o a Stefano, identificato poi con Puccio
Capanna (Longhi, Salmi). Più tardi C. Volpe opta per un artista lombardo, ma L.
Castelfranchi Vegas torna a Puccio Capanna. Mentre si discute, dal 1929 al
1953, l’affresco resta esposto alle intemperie e si rovina irrimediabilmente.
Più fortunata la tomba di Azzone Visconti, smontata e venduta ai Trivulzio dal
Piermarini, che viene donata da questi ultimi al Comune nel 1930 e rimontata
nella chiesa di S. Gottardo. Purtroppo si sono invece perse le tracce della
tomba di Luchino Visconti andata dispersa sul mercato privato al tempo del
Piermarini.
Nel 1936 prosegue l’opera di erosione: per costruire
l’Arengario viene abbattuta la parte più bassa della Manica lunga e parte della
parte più alta fino alla Sala delle cariatidi. Al palazzo restano a questo
punto due “braccine” eguali di cinque finestre. Durante la demolizione
rispuntano gli arconi del portico di Azzone con affreschi che risalgono al
periodo di Francesco Sforza. Possiamo vederli ... in fotografia. (Fig. 13)
Con i bombardamenti dell’agosto 1943, il palazzo riceve un
colpo quasi mortale. L’incendio distrugge i Fasti dell’Appiani e tutti gli
affreschi sulle volte dei saloni. Si salvano gli arredi che erano stati
trasferiti altrove e proprio in questi giorni (settembre 1998) si sta cercando
di rintracciarli nel tentativo di ricomporre il vecchio Museo d’Arte Applicata.
L’evento più significativo del dopoguerra è l’acquisizione del Palazzo Reale da
parte del Comune nel 1956, in cambio della cessione allo Stato dell’Ospedale
Maggiore.
Un po’ di vita intanto ricomincia a circolare nelle sale
minori del palazzo. Nel 1953 si inaugura il Museo del Duomo con ingresso sotto
il portico centrale (si vede ancora il portone con la scritta). Il Museo viene
in seguito ampliato negli anni ‘70 raggiungendo le dimensioni attuali ed
occupando, al piano terreno, quasi tutta l’area del Broletto Vecchio. Nel 1984,
dopo una serie di restauri operati dal gruppo Belgioioso, sono di nuovo agibili
l’ala ovest al piano terreno, dedicata a mostre temporanee, e il secondo piano
destinato al CIMAC (Civico Museo d’Arte Contemporanea). I saloni di
rappresentanza, che, pur disadorni, hanno visto nel dopoguerra l’allestimento
di straordinarie mostre d’arte, sono attualmente in restauro. Resta ancora in
forse il destino della Sala delle Cariatidi, che si volle lasciare nel
dopoguerra nelle condizioni in cui l’aveva ridotta il bombardamento a
testimonianza dei “disastri della guerra”. Ne sentiremo parlare ancora a lungo.
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Ultima
modifica: lunedì 29 luglio 2002
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