Fondazioni religiose e lotte anti-imperiali dall'XI al XIII secolo
Le arche o fortezze urbane dei Baggio e Sicheri
La porzione del sestiere di
Porta Comàsina attestata nei pressi delle mura romane al Ponte Vetero si
presenta ricca di quelle arces o case
fortificate così peculiari del X e XI secolo.
I Baggio, detti localmente i Bagg del pont vèder, risiedevano nella
contrada del Lauro in una casa-forte probabilmente estesa anche lungo un tratto
della contrada di S. Giovanni alle Quattro Facce, chiesa di loro patronato. A
questa residenza apparteneva – secondo una tradizione locale – la brera/braida
del Guercio, che si estendeva tra il fossato delle mura romane (via dell’Orso), via
Pontevetero, via Pontaccio e via Borgonuovo. Era il recinto privato (hortus) riservato alla coltivazione dei
prodotti ortofrutticoli di uso privato, la dispensa domestica. Per i Romani era
l’heredium, la parte di terra che
seguiva l’erede, insieme al focolare e al tetto che lo proteggeva.
Dall'altro lato dell'isolato,
nella contrada dei Bossi, si trovava un'altra casa-forte, quella dei Sicheri,
la cui ubicazione è più problematica. Conosciamo l'esistenza di questo
fortilizio solo attraverso il titolo dell'oratorio che inglobava: S. Tomaso in arce sicariorum o ad crucem, scomparso nel XVI sec.
Entrambe le case-forti
vennero demolite dopo la vittoria del Barbarossa, lasciando sussistere le
chiese. Mentre i Baggio non risultano più fra gli abitanti della Porta nel XIII
secolo, i Sicheri si ritrovano ancora nelle liste dei nobili eletti nel 1388 a
Porta Comasina: Antonio è nella parrocchia di S. Simpliciano e Luchino in
quella di S. Carpoforo.
Le fondazioni religiose
Il secolo XI, è risaputo, fu
particolarmente generoso in fatto di costruzioni religiose e questa zona di
Milano non fa eccezione.
L'oratorio di S. Ilario venne
fondato nel 1056 ca. da Anselmo da Baggio, il futuro papa Alessandro II, presso
la sua casa-forte. Da una contrazione di Ilario sembra che derivi il nome di
Lauro dato alla via. Nella chiesa si festeggiava sin dal 1061 S. Maria
Maddalena, la patrona dei benedettini cluniacensi ai quali anche Anselmo aveva
aderito.
Di fronte alla Porta Cumana,
alla quale doveva essere collegata da un coperto, venne costruita la chiesa di S.
Marcellino. Per inciso sarebbe interessante appurare se ognuna delle sei porte
principali avesse nel lato verso la città una chiesetta e un coperto per le
merci e a quando può essere fatta risalire questa usanza. A Porta Romana, ad
esempio, esistevano chiesa e il coperto di S. Vittorello.
Scarsissime le notizie
riguardo alla chiesa dì S. Marcellino, che G. Castiglioni datava a prima del
1141, perché vi erano conservate alcune lapidi con questa data. Di un anno
posteriore è il testamento di Alberico de' Ferrari, che cita abbinata alla
chiesa la schola di S. Erasmo. Resta chiedersi se la chiesa avesse sin dalle
origini l'ingresso a est, sulla corsia, o se invece mutò l'orientamento in
epoca posteriore, come la contigua chiesa di S. Tomaso in terra mala.
Fuori le mura, verso il borgo
degli Ortolani, sorgeva chiesa di S. Protasio in campo foris. Scriveva il Latuada: "Si andava l'addietro ad essa per un vicolo, nominato dal volgo il
Guasto, in cui, come in parte rimota dalla città, stavano le pubbliche
meretrici; ma ai nostri giorni le abbiamo vedute ancora da tal luogo cacciate,
sendosi demolita affatto l'ala, che riguardava il castello, affine di ampliare
la di lui vastissima piazza".
Il Puricelli aveva trovato
documenti relativi a S. Protasio nell'archivio del monastero di S. Simpliciano,
dal quale la chiesa dipendeva dopo la costruzione dei bastioni che costarono a
S. Protasio la perdita della parrocchia. In un documento risultava che vi era
stato sepolto, il 13 gennaio 1015, Andrea Martignoni.
Vedi anche la pagina su Anselmo da Baggio
La riforma cluniacense a S. Simpliciano
I benedettini di S.
Simpliciano, ancora dipendenti dall'abate di S. Protaso ad monachos, si erano mostrati restii ad aderire alla riforma partita
da Cluny, tanto che Pier Damiani, in missione con Anselmo da Baggio a Milano nel
1059 per appoggiare il movimento patarino, rifiuta con sdegno un calice
offertogli dall'abate di S. Simpliciano.
Le cose cambiano mezzo secolo
dopo, quando ormai la riforma clumacense ha perso la sua spinta propulsiva e si
sono imposti nuovi movimenti più intransigenti. Nel 1096 papa Urbano II, in
occasione di una sua visita a Milano, concede la sua protezione proprio al
monastero di S. Simpliciano, unico a Milano a godere di questo privilegio. E'
l'anno dell'indizione della I crociata e i Lombardi vi partecipano con
entusiasmo: dietro il privilegio concesso è da vedere un particolare impegno
dei monaci di S. Simpliciano nel sostegno della crociata?
Nel 1097 viene eletto
arcivescovo a sorpresa, e non senza disordini civili, il cluniacense Anselmo da
Bovisio e due anni dopo si apre il famoso processo tra i monaci di S. Simpliciano
e i "vicini" o parrocchiani di S. Protaso ad monachos. E' un processo che evidenzia la lotta ancora aperta
tra i laici che vogliono partecipare alla gestione dei beni della chiesa e i
religiosi che pretendono l'assoluta autonomia. Nel 1096 papa Urbano per
eliminare la simonia (vendita delle cariche religiose) aveva stabilito che
fossero i vicini a eleggere i preti destinati ad officiare la loro chiesa. I
vicini di S. Protaso ad monachos
eleggono i sacerdoti di questa chiesa, che ritengono di poter controllare la
gestione di S. Simpliciano, nata secondo loro come dipendenza di S. Protaso. L'arcivescovo
Anselmo da Bovisio appoggia la rivendicazione d'indipendenza dei monaci, che
abbracciano la riforma cluniacense. L'autonomia di S. Simpliciano coincide con
l'ascesa di questa abbazia e il contemporaneo declino di S. Protaso.
Tra i primi interventi dei
monaci si colloca il restauro della loro basilica. Nei rifacimenti si lasciò
sostanzialmente inalterata la pianta paleocristiana, nella sua trasformazione a
tre navate attuata dai Longobardi. Si provvide a incamiciare l'abside
longobarda, si sopralzò il pavimento, si adattò una copertura a volta e a
crociera e, sopra la sesta campata, si elevò il tradizionale tiburio ottagonale
milanese. L'abside, simile a quella della chiesa del S. Sepolcro (1030), è
divisa in tre parti da due lesene leggermente aggettanti, allacciate da una
cornice ad archetti in cotto, sormontata da un fregio a mattoni disposti a
cuneo. Il tiburio ottagonale, oggi danneggiato dall'apertura di quattro
finestre, presentava in origine all'esterno un loggiato avente sugli spigoli
dei pilastri a mattonato, fra i quali si intercalavano per ogni faccia quattro
colonnine marmoree a sostegno di piccole volte. I lavori subirono una brusca
interruzione a causa delle guerre contro l'Impero e delle distruzioni di
Milano, per terminare con la facciata nel XIII secolo.
Le origini dell'assistenza laica. La rivoluzione
col testamento
Oltre alla sfida diretta
lanciata dalla feudalità minore contro i milites
e alle lotte patarine contro il clero maggiore, vi fu un altro attacco al
potere della grande feudalità, più strisciante e quindi meno facilmente
arginabile: il lascito testamentario alla Chiesa in vista di pellegrinaggi.
In regime feudale nessuno
poteva disporre per testamento dei propri beni, perché in realtà non gli
appartenevano, erano per così dire già ipotecati a favore del feudatario. Si
poteva espandere la propria attività economica finché si riusciva, ma alla fine
si rischiava di lasciare la famiglia in balìa delle lune del signore, non
esistendo a quel tempo istituti neutri ai quali affidare i propri beni. Ovvero,
forse uno, seppur non proprio neutro, si prestava a essere investito di questa
utilissima funzione: la Chiesa. Si trattava di escogitare la possibilità
giuridica di legare i propri beni alla Chiesa, ottenendone in cambio
l'usufrutto per sé e per i familiari.
Chi approvò questa manovra di
raggiro del sistema vassallatico dovette limitarsi a considerare l'esiguità
delle persone che potevano ricorrervi: solo i pellegrini avevano diritto a fare
lasciti testamentari alla Chiesa sotto forma di censum donum, ossia denaro del tributo, e viaggiare era oltremodo
costoso oltre che pericoloso, quindi non accessibile a tutti.
Il pellegrino correva reali
pericoli e nessuno poteva obiettare circa il suo desiderio di avere una
protezione divina, anche se a pagamento. Naturalmente se non fosse più tornato,
la Chiesa aveva l'obbligo di versare una rendita alla famiglia del defunto.
Il censum donum fa la sua comparsa a Milano intorno all'anno 881, con
un documento conservato presso la basilica di S. Simpliciano. Si tratta della
lapide testamentaria di Guilizone, un ricco possidente di Somma Lombardo, che
lascia la chiesa di S. Fede, un castro e la corte, nonché una piscaria sul Ticino
al monastero di S. Simpliciano fondato foris
prope civitatem Mediolani (Forcella, W, 135).
Se la condizione
indispensabile per fare i lasciti alla Chiesa era la partecipazione a un
pellegrinaggio, le opportunità si dilatarono a partire dal 985, quando il duca
Geza d'Ungheria aprì il suo territorio ai pellegrini per la Terrasanta,
inaugurando l'era dei viaggi via terra.
Il 1033 segnò l'inizio di un
incremento esponenziale dei pellegrinaggi e quindi dei testamenti: era stato
l'anno della celebrazione del millennio della morte di Cristo e in relazione
alle partenze per la Terrasanta si moltiplicarono i lasciti alla Chiesa. La
quantità di persone che si spostava divenne tale da rendere inadeguata la
struttura d'ospitalità al pellegrino gestita fino a quel momento dai
Benedettini. Sono nuovamente i testamenti a denunciare la carenza di luoghi di
ricetto dopo quel fatidico 1033: a partire da questa data, infatti, i lasciti
alla Chiesa esigono una particolare forma di investimento, ossia la fondazione
di hospitia per pellegrini e infermi.
Ospizi e ospedali a S. Sinipliciano
Nell'arco di tempo che va
dalla metà del secolo XI alla metà del XII si succedono tanti testamenti
destinati alla fondazione di hospitia
a Milano, da garantirne la presenza di più di uno in ogni sestiere.
Nel 1039 i coniugi Azzone e
Reinza donano all'abate di S. Simpliciano due case infra civitatem in loco qui teatrum dicitur et in terra mala,
presso la chiesa di S. Giovanni sul muro, nonché diverse terre fuori città. Coi
proventi di questi beni si dovevano accogliere in un hospitium i pellegrini e gli infermi. Non è detto dove i Benedettini
stabilirono questo hospitium, che
funzionò solo per pochi anni.
E' invece identificata la
collocazione di un secondo ospedale di S. Simpliciano, che venne istituito con
testamento del 29 agosto 1091: Lanfranco de la Pila e sua moglie Fraxia
(Eufrasia) stabilivano che nella casa di fianco alla loro abitazione presso S. Simpliciano
si alloggiassero poveri pellegrini. Lanfranco possedeva beni terrieri a
Niguarda e a Pratocentenaro, in territori lungo il Seveso.
La novità consiste nel fatto
che, nonostante la prossimità al monastero, Lanfranco sottopose la gestione
dell'ospedale ai boni homines della
Porta Comasina, laicizzando almeno temporaneamente il controllo di una
struttura assistenziale. Fu una breve esperienza perché l'ospedale era sorto
sul terreno del monastero, dal quale il fondatore aveva acquistato il fitto
perpetuo. I monaci rivendicarono il controllo e vennero appoggiati contro i boni homines dall'arcivescovo Oberto da
Pirovano nel 1147 e dall'arcivescovo Galdino nel 1170.
A questo proposito
s'inserisce il complesso e affascinante discorso sull'assistenza: per evitare la
carità gestita dalla Chiesa, i laici cercavano di avere il controllo delle
opere pie radicate in ogni quartiere, al fine di attuare una sorta di mutua
assistenza con un'autogestione dei fondi che erogavano. Per espressa volontà
testamentaria di Lanfranco, il suo spedale doveva essere difeso dai vicini di Porta Comasina, ai quali era
riservata l'elezione del rettore, escludendo tassativamente ingerenze
ecclesiastiche di qualsiasi tipo. Date le opposizioni da parte dei rettori
dell'ospedale ad accettare la dipendenza dal monastero, il vescovo Galdino
pensò di prendere l'ospedale sotto la sua tutela, sottoponendo la scelta del
rettore alla sua approvazione. Un regime di libertà vigilata, che né i boni homines né l'abate del monastero
vollero accettare. La controversia si protrasse fino alla fine del secolo e si
concluse con la vittoria dell'abate: nel XIII secolo l'ospedale è incluso fra
le proprietà del monastero.
Un altro testamento
interessante perché fornisce indicazioni sulle istituzioni della Porta Comasina
è quello del 26 gennaio 1142 di Alberico de' Ferrari, figlio di Bonfilio, del
borgo di Porta Comacina. Alberico lascia i suoi averi a favore della sua
parrocchia di S. Marcellino, della schola
di S. Erasmo, della chiesa di S. Carpoforo, dello spedale, monastero e labor di
S. Simpliciano. Attraverso il suo testamento conosciamo l'esistenza di una schola presso la Porta Comasina, cioè di
una congregazione di laici a fini assistenziali, e di un labor presso S. Simpliciano, ossia dell'ufficio che provvedeva ai
lavori edili per conto dell'abbazia.
All'inizio del secolo XI
l'abbazia benedettina si trovò in possesso di terreno sufficiente a Segnano, la
località confinante con Pratocentenaro (via Comune antico 65), per insediarvi
un complesso monastico che costituì un tipico borgo rurale a struttura chiusa
fortificata, con ingresso su un fontanile che si scavalcava con ponte levatoio.
Del complesso faceva parte una chiesetta, tuttora esistente e dedicata al
vescovo milanese S. Antonino, sepolto in S. Simpliciano. La zona si
caratterizzava per un terreno particolarmente fertile, con fontanili che anche
in inverno facevano affiorare acqua a 11 gradi.
Le mura comunali
Nel 1155-1157, in previsione
dell'attacco dell'imperatore Federico I il Barbarossa, mastro Guintellino
potenziò il vallo difensivo trasformandolo in una cerchia urbica più ampia. Le
mura romane erano state in parte manomesse, in parte abbattute, e non costituivano
certo un baluardo contro il nemico. Si provvide quindi ad ampliare il fossato e
a dotarlo di un terrapieno rinforzato da palizzate e da torri lignee.
Detto questo, si entra nella
nebbia più fitta riguardo all'andamento a nord di questo terrapieno; non è
chiaro se la basilica e il monastero di S. Simpliciano venissero per
l'occasione inclusi nelle difese della città. La Cronaca di Sire Raul descrive le postazioni dell'esercito di
Federico il Barbarossa nel 1158 nei maggiori monasteri appena fuori le mura:
l'imperatore presso la mansio dei Templari
alla Commenda, Vladislav di Boemia a S. Dionigi, Radevico di Colonia a S.
Celso, ma se l'esercito imperiale escluse S. Simpliciano si dovrebbe concludere
che il monastero doveva trovarsi dentro la fortificazione.
Se osserviamo i toponimi, si
nota una certa irregolarità proprio a Porta Cumana. Tutte le strade interne,
fino alle mura romane, prendono il nome di "corsia"; oltre le mura
romane e fino a quelle medievali si hanno i "corsi", ai quali seguono
fino alle mura spagnole i "borghi". Con questa logica, il corso di
Porta Comasina dovrebbe cominciare al Ponte Vetero e finire al Pontaccio,
invece finisce in via Anfiteatro; tra questa via e la curva della strada il
toponimo era Passetto, cioè
collegamento sopraelevato fra una porta e un'avamporta; il borgo di Porta
Comasina non cominciava al Pontaccio, ma dopo il Passetto.
Si potrebbe avanzare
l'ipotesi che il sistema difensivo ideato da mastro Guintellino si attaccasse
al portico di S. Simpliciano, smantellato proprio in occasione della sconfitta
milanese; ne sarebbe derivato un propugnacolo come quello tra la Porta Romana e
l'Arco Romano.
Occorre inoltre ricordare che
il fossato difensivo medievale era molto più ampio di quello che circondava le
mura romane e non attraversabile da un ponte levatoio, ma con un ponte fisso,
solitamente fortificato. Tutto il Passetto potrebbe corrispondere al fossato,
il terrapieno essersi trovato all'altezza di via Anfiteatro, unito ad una
rocchetta che difendeva il ponte alto o camminamento pensile, sia sul corso
Garibaldi sia su via Anfiteatro, collegati con un bastione. In questo caso il
fossato sarebbe passato sopra il monastero di S. Simpliciano, includendo anche la
basilica entro il terrapieno?
L'impatto dello scavo sul
territorio dovette essere stato disastroso e solo una motivazione di forte
pericolo poteva giustificare l'interruzione di strade e l'allagamento di parte
dei campi. Un fossato così ampio, probabilmente rifatto sotto la basilica già
durante la ricostruzione d mura nel 1167, non aveva più motivo di sussistere e
venne poi ancora notevolmente ridotto dai Visconti e ancor più dagli Sforza,
fino a diventare naviglio morto.
Nel 1162 la distruzione delle
mura, ordinata dal Barbarossa, fu realizzata a Porta Comasina dai Comaschi. Gli
abitanti vennero deportati nel borgo di
Carraria, identificabile in via ipotetica come il borgo della Fontana,
equidistante dalla porta come Lambrate, S. Siro alla Vepra e Nosedo distano
dalle rispettive Porta Orientale, Porta Vercellina e Porta Romana.
Dopo cinque anni di
"esilio", gli abitanti della Porta Comasina misero mano alla
ricostruzione. Si alzarono le nuove mura e, all'altezza di via Pontaccio, si
aprì la Porta Cumana, nella quale vennero murate lapidi romane del I e 11 sec.
d.C., forse già utilizzate precedentemente come materiale edilizio.
La Porta Cumana o Comasina, la Pusterla di Algisio
e la Pusterla delle Azze
Sulla forma della Porta Cumana
non esistono ducumenti figurativi. Nella Cronica extravagans di Galvano Fiamma della prima metà del XIV secolo
appare come una porta con due torri; nella pianta del Lafréry del 1573 è ancora un arco affiancato
da due torri. E' scomparsa invece dalla pianta del Barateri del 1629.
La torre della porta
disponeva di due celle adibite a carcere già nel 1228, come del resto la
Rocchetta di Porta Romana, la porta Nuova e la pusterla di S. Ambrogio,
risultando in funzione ancora nel 1463.
Sempre nella pianta del
Lafréry si nota, nel lato interno della porta, un edificio che sembrerebbe
essere una chiesa con annesso forse un convento oppure un edificio con torre
tra le attuali vie Tivoli e l'ideale prosecuzione di Fiori Chiari. L'edificio è
scomparso dalla pianta di F. Agnelli degli ultimi anni del XVII secolo e non
ricompare più. Si tratta probabilmente della domus umiliata addetta alla
riscossione dei dazi.
La pusterla di Algisio si chiamò
così forse in onore dell'arciv. Algisio da Pirovano, eletto proprio subito dopo
la vittoria di Legnano, nel luglio 1176. Fu lui a dare il 3 novembre 1178 al
prete Guglielmo la cessione di alcuni diritti sulla brera del Guercio di
Baggio. Restaurata nel 1232 dal pretore genovese Pietro Vento e in seguito
chiusa, la pusterla venne infine dedicata da Ludovico il Moro alla consorte
Beatrice, con decorazioni di Pietro Foppa.
La pusterla delle Azze, detta
anche del Ponte Vetero, si apriva nel mezzo del tratto tra la Porta Comacina e
la Porta Giovia. Il termine "azze" si riferisce alle trame dei
fustagni, che venivano lavorate in laboratori lungo il Nirone, che qui si
immetteva nel fossato urbano. Nel 1260 si formerà il consorzio degli utenti del
Nirone, il cui statuto verrà elaborato dagli abati dei monasteri di S. Ambrogio
e S. Simpliciano, dal preposito della domus
umiliata della SS. Trinità, dal maestro del'Ospedale di S. Simpliciano e
dai consoli degli azzaioli e degli sbiancatori di fustagni.
Pianta di Milano di Galvano Fiamma
Pianta di Milano di Lafréry
Pianta di Milano di Barateri
Il sestiere guelfo
S. Simpliciano: la basilica del Carroccio
Il 29 maggio 1176 si ebbe
l'ultimo atto della guerra tra i Milanesi e Federico I, la battaglia di
Legnano, che rimase legata nella leggenda alla basilica di S. Simpliciano. A
Legnano lo scontro si risolse nei pressi della cappella dedicata ai SS.
Martirio, Sisinio e Alessandro, le cui reliquie erano venerate presso S.
Simpliciano. Mentre la battaglia infuriava, furono vedute spiccare il volo
dalla chiesetta tre candide colombe, che andarono a posarsi sul pennone del
carroccio e lì stettero finché la vittoria non arise ai Lombardi, poi
ritornarono alla chiesa e scomparvero presso l'altare. Per una strana
coincidenza, quel giorno cadeva la festa dei tre martiri anauni (della Val di
Non) e quindi le tre colombe vennero subito identificate con una loro protezione
celeste. La basilica divenne così la custode del Carroccio punto di riferimento
del guelfismo cittadino.
Conquistata finalmente la
pace, si poté mettere mano al compimento della facciata della basilica, alla
quale nel 1179 l'arcivescovo Anselmo Rho fece dono di una reliquia della Santa
Croce da inserire appunto nella facciata, ormai libera dal quadriportico.
Secondo il Puccinelli, il papa concesse delle indulgenze nel 1182 e nel 1193 a
chi sostava davanti a reliquia della S. Croce in S. Simpliciano, indizio che
per quella data la parte inferiore della facciata era compiuta. La nicchia
della reliquia è tuttora visibile in facciata, a sinistra del portale,
guardando la chiesa.
Un particolare interesse
riveste quella parte di braccio meridionale del transetto dove venne eretto,
rompendo il muro più antico, il campanile romanico, a filo con la parete
paleocristiana. L'architetto del XII secolo sfruttò in misura inusitata
materiale di recupero (sarcofagi paleocristiani di sarizzo), per dare una base
all'altissima torre. Questa osservazione concorderebbe con l'identico uso di
materiale lapideo di recupero realizzato per la ricostruzione delle porte
urbiche.
I1 portale, in base a
considerazioni stilistiche, sembra essere stato eseguito intorno al primo
decennio del XIII secolo. L'iconografia alquanto oscura: a destra un uomo con
tunica e pallio respinge l'ingresso di un corteo di donne che reca delle
offerte; sotto di lui un grifo artiglia un serpente. Nel corteo, dal punto di
vista stilistico, le prime due donne differiscono dalle altre.
I1 preposto Carlo Annoni nei Saggi di patria archeologia, rimasti
incompiuti, credette di interpretare le sculture del portale come
rappresentazione della fondazione della basilica, che fu consacrata il 21
ottobre 1246 dal vescovo Giovanni Bono e non dall'arcivescovo di Milano, il
francescano Leone da Perego.
Le famiglie guelfe aderenti alla Motta
I1 quartiere tra il vecchio
fossato romano e la chiesa di S. Carpoforo era stato occupato da famiglie per
lo più aderenti alla Motta, che raggruppava
la piccola feudalità milanese. I Chivasso diedero il nome a via Civasso o
Ciovasso, il vicolo del Melone porta il nome della famiglia aderente alla
Motta, come gli Orso. Inizialmente la contrada dell'Orso si limitava al tratto
tra via Ciovasso e il Ponte Vetero, essendo l'altro tratto denominato contrada dell'Olmetto.
Giulini al 1258 indica come appartenente alla Motta Beltramo dell'Orso.
La zona Comasina, forte delle
sue tradizioni guelfe, sembra distinguersi nel XIII secolo per il suo appoggio
alla fazione dei Torriani. La famiglia dei Cusani, abitante da tempo
immemorabile nella contrada che già in uno strumento del 1230 da loro prendeva
il nome, appoggiò i Della Torre. Questo non impedirà ai Cusani di inserirsi
proficuamente nel successivo governo visconteo.
Gli anni 1276-79 videro la
prima decisiva sconfitta dei Torriani a Desio e nel gennaio 1277 l'ingresso di
Ottone Visconti a Milano. Ne conseguì un disastro economico per la parte
guelfa; nei documenti d'archivio si registrano innumerevoli atti di
compra-vendita che segnano la liquidazione di grossi patrimoni da parte di
personaggi guelfi, che si trasferirono in parte ad Aquileia, ove era patriarca
Raimondo Torriani, in parte a Como e a Lodi. Matteo Visconti fu nominato
capitano del popolo a partire dal 1287 e ricevette il titolo di vicario
imperiale per la Lombardia nel 1294.
Accanto alla chiesa di S.
Tommaso in terra mala (via S. Tommaso
n. 4) era la casa di Enrico da Monza, il famoso Mettifuoco, capitano della
Compagnia dei Forti creata per la difesa del Carroccio, simbolo comunale.
Matteo Visconti soppresse questo simbolo, divenuto ingombrante in tutti i
sensi, e la rivalità tra Matteo e i guelfi ha come esempio l'atteggiamento nei
confronti di Enrico, che nel 1299 è podestà a Crema. Matteo cita in giudizio
Enrico da Monza e, al suo rifiuto di presentarsi, fa deliberare che il suo
palazzo turrito accanto a S. Tommaso venga demolito. Enrico da Monza è comunque
presente a Milano il 13 giugno 1302 per organizzare il governo cittadino dopo
la cacciata di Matteo e del figlio Galeazzo.
Una pacifica occupazione: fondazioni degli ordini
mendicanti
Nel 1215 si tenne uno dei più
importanti concili ecumenici della Chiesa occidentale, il Lateranense IV. Il
canone XIII recita: "Affinché una
troppa diversità di ordini religiosi non porti confusione nella Chiesa, proibiamo
assolutamente di dare principio a un nuovo ordine religioso ed esortiamo
chiunque voglia darsi alla vita religiosa ad entrare in uno degli ordini
approvati. Parimenti chi volesse fondare ex novo una casa religiosa, prenda le
regole dalle religioni già approvate".
I1 canone venne subito
disatteso, segno che si poneva come misura repressiva del fermento riformatore
in atto. In quegli anni si costituirono infatti gli ordini mendicanti, i più
famosi dei quali furono i francescani e i domenicani.
Mentre i monaci, benedettini
riformati o meno, vivevano nei loro monasteri che erano centri d'irradiazione
religiosa, culturale e politica, i nuovi ordini mendicanti si proponevano un
più diretto contatto con la gente attraverso la pubblica predicazione. Rifiuto
della proprietà privata e dell'ordine, con scelta di vivere d'elemosina. Solo
la città garantiva loro sufficienti mezzi di sussistenza e offriva gli utenti
più idonei all’ascolto delle loro prediche, perché le città ospitavano ogni
sorta di eretici.
Agli ordini mendicanti
vennero associati gli Agostiniani Eremitani e i Carmelitani, sebbene
appartenenti a una matrice eremitica e quindi ostile alla città.
Carmelitani alla Pusterla delle Azze all’Annunciata
I Carmelitani sono un ordine
originario del Monte Carmelo in Terrasanta, costituitosi alla fine del XII
secolo con la partecipazione di pellegrini e crociati, che si ritirarono presso
una sorgente sul monte chiamata fontana
d'Elia, per vivere come anacoreti. Verso il 1208-1209 i fratelli del Monte
Carmelo si erano fatti stilare dal Patriarca di Gerusalemme la loro regola. I1
patriarca era S. Alberto, lo stesso che nel 1201 aveva dettato la Regola per
gli Umiliati, quando era ancora vescovo di Vercelli. Papa Onorio III approvò il
30 gennaio 1226 la Regola scritta da S. Alberto, basata su apostolato, preghiera,
silenzio e penitenza. Elemento caratteristico dell'ordine era la devozione
mariana. Verso il 1236, diventate difficili le condizioni politico-religiose
della Palestina, i Carmelitani scesero dal Carmelo e si diffusero in Occidente,
tra il 1245 e il 1247, sotto il pontificato di Innocenzo IV, che li esentò
dalla vita eremitica.
Vennero a Milano verso il 1250,
all'epoca di Martino Torriani. L'impatto con l'Occidente fu drammatico, perché
venne loro vietato di abitare o costruire case in città, di celebrare funzioni
nelle proprie chiese e di seppellire i morti senza l'intervento del clero
diocesano. Inizialmente abitarono nel convento di S. Ambrogio ad nemus, poi su concessione di Ottone Visconti
edificarono nel 1268 la chiesa dell'Annunciata e il convento in una località
nota come stretta della Monaca o di Monavacca, citata negli Statuti del 1260
degli utenti del Nirone. L'ubicazione è descritta anche in uno strumento
relativo a un'altra proprietà: "jacent
in P.C. foris, in par. S. Protasii in Campo, in pasquario de Aziis, post domum
habitationis fratrum de Monte Carmelo, quibus cohaerent a mane flumen Nironis,
a meridie FF de Mie Carmelo a sero similiter".
L'assistenza agli appestati
fu per i Carmelitani lombardi una tradizione ed è proprio in concomitanza con una
pestilenza alla metà del XIII che li vediamo comparire a Milano. Nei pressi
della pusterla delle Azze si teneva il mercato della paglia e del fieno e
questo particolare è interessante perché i Carmelitani fondarono spesso i
conventi in zone di mercato. Vi si radunavano anche muratori e scalpellini per offrire
quotidianamente la loro manovalanza.
Era da poco stata terminata
la chiesa (1285), quando, un incendio la distrusse quasi interamente nel 1329 o
1331. Dal 1333, dopo la ricostruzione che ne seguì, il convento del Carmine di
Milano divenne la sede di studia
generalia per l'ordine, ospitando nel 1345 il capitolo generale. La fama
dei Carmelitani doveva essere tale da meritare, da parte del mercante Martino
Cappello, Scolaro dell'Abito, un lascito testamentario datato 1 giugno 1354,
col quale donava all'ordine case, fondi e poderi che possedeva sotto la
parrocchia di S. Carpoforo, in una zona detta "degli Olmetti", per
fabbricare una nuova chiesa e convento. Papa Bonifacio IX concede licenza di
trasferimento all'ordine in data 1391, ma solo il 10 novembre 1399 i
Carmelitani ottengono il permesso dal duca Gian Galeazzo Visconti di spostarsi
nella loro nuova sede.
La chiesa dell'Annunciata
venne affidata al dero secolare, che la tenne fino al XVI secolo, mentre il
convento veniva parzialmenie demolito per ampliare le difese del castello. In
un documento del 1456 (ASM Registro Ducale, K n. 2,21 luglio 1456, lettera a
Giacomo Calcaterra, ambasciatore presso il papa) Francesco Sforza scrive “presso nostro Castello di Porta Giobia ghé
una giesiola de Sancta Maria del Cannine (Annunciata) che may non fò finita che
non è altro che una capella uno poco grandeta e poy atachata a quella ghé una capelleta
picola cum un poco de casamento". Lo Sforza demolì la cappelletta e
incorporò nel Castello la chiesa dell'Annunciata, che fu abbattuta nel 1500;
nel 1582 il castellano Alfonso Pimentel fece scomparire le ultime vestigia del
chiostro dei Carmelitani.
Eremitani di S. Agostino fuori dalla Pusterla di
Algisio a S. Marco
La storia della chiesa
precedente l'ampliamento deciso da Lanfranco Settala sfuma tra leggende e
memorie raccolte dai cultori di storia patria.
Una lapide rinvenuta nel
chiostro dei morti così recita: "Reliquiae
Bocalini de Vicomercato, qui die 5 feb 1137 obiit", ma di per sé non è
sufficiente a fissare l'esistenza di una chiesa conventuale già in quella data.
E' invece possibile che esistesse, in uscita dalla strada di Brera verso il corso
del Seveso, una cappella cimiteriale appena oltre il fossato urbano.
Su questo nucleo primitivo si
costruì dopo la vittoria di Legnano una chiesetta dedicata a S. Marco, le cui
tracce sono riconoscibili nel transetto meridionale; si trattava di una chiesa
orientata come l'attuale, con pianta a croce latina, a tre navate terminanti
con tre absidi semicircolari. I lavori andarono molto a rilento, senza giungere
mai a conclusione.
Funzionava però il convento
di Agostiniani Zambonini, penitenti che seguivano la Regola di S. Agostino.
Giovanni Bono, giocoliere e trovatore mantovano, si era convertito a vita
penitente nel 1209; dal 1215 aveva cominciato ad accogliere discepoli restando
però rigorosamente ritirato in una cella per circa quarant'anni quando, sentendo
approssimarsi la sua fine, lasciò l'eremo vicino a Cesena per tornare a
Mantova, dove vi erano molti eretici catari. A questo convento di Zambonini
venne fatto nel 1250 un lascito da parte di Isabella Vellate (o da Velate) di 5
libre d'argento per il suffragio della sua anima (ASM Fondo di religione, S.
Marco, cart. 435) e nel chiostro dei morti venne sepolto nel 1252 fra'
Domenico, il compagno di Pietro da Verona, dopo l'attentato nel bosco di
Barlassina.
Nel 1254 Lanfranco Settala
diede un nuovo impulso ai lavori della chiesa su scala tanto più grandiosa da
farla ritenere un fondazione, aggiornata secondo il funzionale modello delle
chiese cistercensi. Era una chiesa comunque più corta dell'attuale, fermandosi
a quattro campate. Nel transetto si aggiunsero le cappelle e l’abside semicircolare
fu sostituita da un'ampia campata rettangolare. Il Liber Notitiae Sanctorum Mediolani cita come presenti nel 1304-11
sette cappelle dedicate a S. Alessio, S. Biagio, S. Erasmo, S. Maria, S. Nicolao,
S. Cristoforo e a Tutti i Santi.
Il 9 aprile 1256 papa
Alessandro IV con bolla Licet Ecclesiae
Catholicae costituì l'ordine
mendicante dei frati Eremitani di S. Agostino, formato da cinque diverse
congregazioni di eremiti; Lanfranco Settala, nato nel 1201, superiore degli
Zambonini, fu eletto primo generale de degli agostiniani. Fu un grande
sostenitore del valore della cultura e fondò il primo studio generalizio degli
agostiniani a Parigi.
Le prime costituzioni dell'ordine
vennero approvate a Regensburg nel 1290. Tra le altre regole, si stabiliva
l'assetto architettonico che dovevano avere i conventi agostiniani: la
cittadella-convento doveva essere circondata da mura, al di fuori e ben isolata
dal perimetro cittadino. Per essere più sicuri della protezione e dell'isolamento
del convento di S. Marco venne chiusa la Pusterla d'Algisio che si apriva nelle
mura medievali e che immetteva nella cittadella degli Umiliati.
Ogni convento doveva disporre
di almeno tre chiostri: al primo accedevano anche i fedeli per recarsi in
chiesa, gli altri due quello riservato al noviziato e quello per la comunità
dei frati, erano di clausura. La biblioteca, per quest'ordine ritenuto
"dotto", era uno dei luoghi principali del complesso; nel 1297 nel
convento di S. Marco si trovava lo Studio generale dell'ordine.
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