Il Lazzaretto e i Cappuccini di Porta Orientale
di Paolo Colussi
Milano e la peste
Grazie alle misure di prevenzione severissime applicate in città da Luchino Visconti, Milano
uscì quasi indenne dalla terribile “peste nera” del 1348. Poco dopo il medico milanese Cardone de Spanzotis, facendo tesoro di questa fortunata esperienza, scrive un
trattato intitolato - De preservazione a pestilentia - dove viene messo in risalto il carattere contagioso della peste, un aspetto
della malattia fino a quel momento quasi del tutto ignorato dalla scienza medica, che aveva riservato ospedali speciali solo ai lebbrosi e ricoverava invece gli appestati negli
ospedali normali con tutti gli altri infermi.
Dalla seconda metà del Trecento si pone quindi per ogni città il problema di un ospedale
per gli appestati, lontano dal centro abitato e sistemato in modo da evitare che l’aria “corrotta” dai malati giungesse dov’erano i sani. Si riteneva infatti generalmente
che il contagio si propagasse soprattutto mediante l’aria infetta. A Milano, dove i venti dominanti giungono da ovest, bisognava quindi trovare un posto ad est, lontano
dall’abitato ma raggiungibile abbastanza facilmente dai carri che trasportavano gli ammalati e i morti di peste. Come è facile
immaginare, il problema non era di facile soluzione dato che nessuno gradiva la vicinanza di un luogo simile e quindi la “discussione” fu lunga e accidentata, e durò ... un
secolo.
Gian Galeazzo Visconti, primo duca di Milano, nel 1390 aveva già indicato come sede adeguata
del nuovo ospedale (non si chiamava ancora Lazzaretto) un suo terreno fuori Porta Orientale, chiamato locum Caminadellae, sulla strada
per Longhignana (ad est dell’idroscalo). Gian Galeazzo lo usava per tenervi i cani. La morte del duca e i gravi disordini che ne seguirono consigliò di sospendere
l’iniziativa e il problema venne rinviato. Nella prima metà del Quattrocento non si presentano gravi epidemie fino a quando, poco prima del 1450, iniziò a profilarsi in
Europa una nuova grave pestilenza, che raggiungerà il suo acme nel 1451 e sarà chiamata l’epidemia magna.
Per l’evenienza si ricorse al castello di Cusago, che allora era raggiungibile con le barche da Milano, ma la soluzione apparve subito molto scomoda per tutti. Finita
l’epidemia, molte città si mobilitarono per risolvere il problema. Nel 1468 Venezia fonda nell’isola di S. Maria di Nazareth un ospedale per appestati che verrà chiamato
volgarmente “nazarethum” o “lazarethum” per assonanza con il nome Lazzaro. Da allora anche in altre città, compresa Milano, questo tipo di ricoveri prenderanno lo stesso
nome senza tuttavia che c’entri per nulla San Lazzaro, un santo che non è mai stato invocato contro la peste.
Breve storia del Lazzaretto di Porta Orientale
Negli stessi anni ‘60, Lazzaro Cairati, notaio dell’Ospedale Maggiore, si adopera affinché
la grande opera, allora appena iniziata, venga completata da un enorme Lazzaretto da costruirsi “in loco Crescenzago” presso la
Martesana. Il canale avrebbe consentito un agevole trasporto degli ammalati. Questo primo progetto, modellato sui disegni del Filarete, prevedeva 200 camerette quadrate di 8
braccia per lato (4,75 m) disposte in un grande quadrato. I sette chilometri da percorrere per raggiungerlo e le vivaci proteste degli abitanti di Crescenzago dissuadono il duca
Galeazzo Maria Sforza dall’iniziare i lavori. Al termine però di una nuova grave pestilenza che colpì Milano negli anni 1484-90, Ludovico il Moro rompe gli indugi e ordina
che si trovi subito un sito conveniente ed adatto. E’ ancora Lazzaro Cairati a muoversi, per conto dell’Ospedale Maggiore. La zona fuori Porta Orientale, presso San Gregorio,
è ritenuta idonea dalla commissione sanitaria per cui, il 27 giugno 1489, si affida l’incarico dei lavori a Lazzaro Palazzi. Quest’ultimo personaggio, che viene spesso
indicato con l’architetto del Lazzaretto, difficilmente può essere considerato l’autore di un’opera così raffinata stilisticamente, anche perché da alcuni documenti
risulta che fosse analfabeta. Più probabilmente era soltanto l’impresario edile vincitore dell’appalto per la costruzione degli edifici. Chi si vanta invece esplicitamente
di esserne l’auctore è il nostro Lazzaro Cairati, che ha certamente utilizzato i disegni del Filarete per definire la forma e i vari
particolari dell’opera.
Il Lazzaretto, così come è stato realizzato dal 1489 al
1509, era un grande quadrato con al centro una chiesa e lungo i lati 288 camere di 8 braccia per 8 braccia ciascuna (4,75 m); 280 camere erano destinate agli infermi e le altre 8
(4 agli angoli e 4 ai due ingressi) erano destinate ai servizi.
Studi recenti hanno cercato di interpretare questi numeri sulla base della Cabala e nella
forma stessa del Lazzaretto si sono viste somiglianze con la moschea di Omar a Gerusalemme o con il caravanserraglio di Kashan in Persia. (cfr. Patetta in bibliografia)
La costruzione del Lazzaretto fu provvidenziale a fronte delle tre grandi epidemie che
colpirono Milano nel 1524 (peste di Carlo V), nel 1576 (peste di San Carlo) e nel 1629 (peste “manufatta”, ma oggi più comunemente detta “peste del Manzoni o dei Promessi
sposi”). In tutti tre i casi, anzi, l’enorme recinto di Porta Orientale non fu sufficiente ad accogliere tutti gli ammalati e si dovette ricorrere ad altri accampamenti di
fortuna, specialmente al Gentilino fuori di Porta Ticinese. La peste di Carlo V (1524-29) e la peste del Manzoni (1629-31) provocarono un numero molto elevato di decessi. Si parlò
allora di oltre 50.000 morti, quasi la metà degli abitanti di Milano. Molto meno cruenta fu la peste di San Carlo nella quale i morti non furono più di 10.000 grazie alla
rigidissima quarantena alla quale vennero sottoposti tutti i milanesi, confinati in casa per alcuni mesi.
Dopo
la peste del 1629 il Lazzaretto fu adibito a vari usi, spesso militari, mentre il prato era affittato dall’Ospedale Maggiore per orti o pascolo. Nel 1797 fu chiamato Campo
della Federazione in onore della federazione delle città cisalpine e serviva da alloggio alla Cavalleria. La chiesa centrale, che aveva già le pareti murate, fu ristrutturata
dal Piermarini. In epoca napoleonica l'Ospedale Maggiore lo mise varie volte in vendita senza trovare acquirenti. Nel
periodo della Restaurazione fu affittato a depositi e a una fabbrica di cannoni.
Nel 1844 le stanze erano diventate abitazioni e la chiesa serviva da fienile. Nel 1861 un
viadotto ferroviario lo tagliò in due e finalmente nel 1881 lo acquistò la Banca di Credito Italiano per lire 1.803.690. Demolito tra il 1882 e il 1890, ne resta un breve
tratto in via S.Gregorio e la chiesa con il portico murato, che venne riaperta al culto con il titolo di San Carlo nel 1884 dopo essere stata acquistata grazie a una pubblica
sottoscrizione dal parroco di S. Francesca Romana.
I Cappuccini a Milano
Negli anni ‘20 del Cinquecento, come risposta al tremendo scossone provocato nella Chiesa
cattolica dalla predicazione di Lutero, sorsero numerosi movimenti e nuovi ordini religiosi miranti ad una riforma dei costumi e ad un intervento più efficace nella società
europea travagliata da terribili guerre, carestie e pestilenze. Anche tra i francescani ci furono numerose iniziative in questo senso, specialmente nell’ambito
dell’Osservanza. Quella destinata ad avere il successo più duraturo sorse nelle Marche ad opera di Matteo da Bascio di Ancona ed è universalmente nota con il nome di
Cappuccini dal grande cappuccio cucito dai padri e dai frati sul loro saio. Le prime Costituzioni dei Cappuccini sono del 1529 (“Costituzioni di Albacina”) e pochi anni dopo,
nel 1535, eccoli già a Milano, alloggiati fuori città presso la cappella ducale di San Giovanni alla Vedra che si trovava dov’è oggi via Vepra, una piccola traversa di via
Foppa. Non passano molti anni, e vanno a stabilirsi nel piccolo convento di San Vittore all’Olmo situato nel borgo delle Oche dov’è ora il carcere e dove la tradizione
voleva che fosse stato decapitato il martire San Vittore. Qui resteranno molto a lungo, gratificati dalle frequenti visite di San Carlo che amava recarsi a pregare in questo
remoto e suggestivo angolo di Milano. Cresciuto di importanza e di numero, verso la fine del Cinquecento l’ordine dei Cappuccini sentì il bisogno di una seconda sede più
ampia dove collocare anche una biblioteca e una scuola per i conversi della Lombardia.
Le offerte dei privati non tardarono ad arrivare né mancarono i
contributi pubblici, vista la grande importanza ormai assunta dai Cappuccini nei domini asburgici. La costruzione della nuova chiesa nel borgo di Porta Orientale inizia il 2
maggio 1592 e termina con la benedizione del 13 giugno 1599. Nel 1603 Federico Borromeo la consacra solennemente dedicandola a Santa Maria dell’Immacolata Concezione. La
chiesa, oggi scomparsa, si trovava sulla destra del borgo di Porta Orientale per chi esce dalla città, un po’ rientrata dalla strada in modo da formare davanti a sè una
piccola piazza che inizialmente fu decorata con dei faggi (Torre, p. 288), poi con gli olmi citati dal Manzoni. L’edificio era molto semplice, ad una sola navata con il coro e
due cappelle per lato. Agli altari tuttavia figuravano quadri di artisti di prim’ordine: Camillo Procaccini, il Cerano e Carlo Francesco Nuvolone. Sulla facciata un affresco
del Cerano. Alcune di queste pitture sono conservate attualmente nei depositi di Brera. L’area del convento era molto grande e corrisponde alla lottizzazione che ha formato
piazza Duse e le vie circostanti intorno al 1930.
Dopo la peste il complesso conventuale crebbe lentamente
formando due grandi chiostri che il Torre così descrive: “in questi Chiostri altro non evvi di vasto, che la solitudine; fra di lori i
Cittadini Milanesi sanno cogliere quella Pace dell’animo, che non sa trovar Porto negli ondeggiamenti degli affari; per tanto veggonsi d’ogn’ora in passeggio, per ricrearsi
varie qualificate persone, quivi allettate dalle delizie, che trasmettono, riesce poi difficile l’uscita, se s’incontrò facile l’entrata.” (pp. 288-89)
Con il Torre siamo ormai nel 1674 e la zona di Porta Orientale sta lentamente iniziando la
sua ascesa sociale, grazie alla nuova fabbrica del Collegio Elvetico ormai funzionante. Per questo troviamo dai Cappuccini “qualificate persone”, giunte probabilmente al
convento dopo un’amena passeggiata in carretta lungo la via Marina. Il convento di Porta Orientale gode di un’ottima fama grazie anche alla sua ricca biblioteca dove
giungevano documenti da tutta Europa dato che vi si teneva un grande archivio storico dell’Ordine. Nel 1805 però le soppressioni napoleoniche si abbattono come una tempesta
sui Cappuccini. I conventi di San Vittore e dell’Immacolata Concezione vengono soppressi e le chiese sconsacrate. La chiesa dell’Immacolata verrà poco dopo (1810) demolita e
al suo posto sorgerà il palazzo Rocca-Saporiti. Anche dopo la restaurazione austriaca i Cappuccini non tornano a Milano fino al 1849. Dopo le Cinque Giornate, Radetzky, che non
si fidava più molto del clero milanese, li richiama a Milano destinandoli a sovrintendere l’ospedale militare di S. Ambrogio e riconsegnando loro la vecchia sede di San
Vittore all’Olmo. Ma i guai non sono ancora finiti: dopo l’unità d’Italia l’ordine è molto malvisto dalle autorità per il suo duro atteggiamento antisabaudo, per cui i
padri devono nuovamente sloggiare con il pretesto della costruzione del nuovo carcere. Senza perdersi d’animo, riescono comunque a restare a Milano, quasi clandestinamente e,
con l’aiuto di alcuni benefattori, creeranno a partire dal 1876 il nuovo complesso del Monforte (oggi viale Piave) dove esercitano tuttora molto efficacemente la loro opera di
carità nei confronti dei poveri.
Per una singolare coincidenza torneranno ad avere in seguito una seconda sede “fuori Porta
Vercellina” con la costruzione del grande complesso di piazza Velasquez.
I Cappuccini e la peste del 1629
Nel capitolo XXXI dei Promessi sposi (testo)
il Manzoni spiega con grande chiarezza le procedure e i motivi dell’ingresso dei Cappuccini al Lazzaretto nel 1629 sottolineando le attività di assistenza e di controllo
esercitate dai padri. I Cappuccini infatti non erano un ordine ospedaliero, come ad esempio i Camilliani, capace di svolgere un’attività medica o infermieristica nei confronti
degli ammalati. In realtà, quando l’epidemia era ancora all’inizio e si pensava di curare i ricoverati, erano stati proprio i Camilliani o Crociferi a intervenire. Poi
l’ondata dei ricoveri, che portò la popolazione del Lazzaretto fino a 16.000 persone, portò lo scompiglio e lo scandalo. Ci furono canti e balli, sconfinamenti tra la zona
maschi e femmine, prostituzione, tumulti e risse. Le guardie ordinarie erano utilizzate in città per gli sgomberi delle case infette ed anche nei piccoli lazzaretti di fortuna
creati fuori delle varie porte; era difficile pensare a mantenere l’ordine pubblico in un così vasto assembramento di persone disperate con guardie prezzolate e corruttibili.
Solo delle persone dedite incessantemente al mantenimento e alla cura di tanti infermi, e nello stesso tempo capaci di imporre a se stessi e agli altri un rigido codice di
comportamento potevano sperare di suscitare il rispetto e il timore necessari per mantenere l’ordine. Tra tutti, spiccava soprattutto il temutissimo padre Michele la cui opera
viene così descritta dal La Croce:
“Scorreva, terribile sempre, di continuo per il
Lazzaretto, ed era tanto temuto, che al sol gridarsi ch’egli veniva, nonché all’apparire, ogni garrire, ogni confusione maggiore in bell’ordine, in bel silenzio per sè
medesimo si riduceva tutto, perché avevan veduto e vedevano come esatto e severo correttore egli era sempre dei delinquenti.
Rondava di notte sei o sette ore continue, con tanto
zelo d’ovviare sinistri e massime quelle sozzure che dalle corruttele della carne sogliono pullulare, e non ebbe riguardo a rispetti umani in castigare rigorosamente chi lo
meritava, come si vidde in una meretrice spalleggiata da persone di gran qualità, la quale egli colse in eccesso così fatto, dopo averla attesa quattr’ore intere posto in
agguato una notte al sereno; e quando spezzò musicali istrumenti a chi nel Lazzaretto invece di placare l’ira giusta di Dio con lacrime e sospiri, maggiormente l’irritava
con danze e canti. Il giusto rigore e il di lui nome volava famosissimo anco per tutta la città di Milano, facendo testimonianza molti che, se il rigore di Padre Michele non
fosse stato, sarebbe andato quel luogo sottosopra in abissi di disordini e confusioni.”
Padre Michele, stremato da tutte queste fatiche, morì dopo pochi mesi come altri dodici
padri o frati citati nelle cronache e come il ben noto padre Cristoforo nel romanzo manzoniano. A questo proposito, senza addentrarci nella annosa questione sulla vera identità
del celeberrimo personaggio, questione per altro mai risolta, diremo soltanto che nell’elenco dei cappuccini morti nel Lazzaretto figurano almeno due indiziati: padre
Cristoforo da Cremona e padre Galdino della Brusada. Il primo per il ritratto che ne fa il La Croce di figura esemplare di religioso, il secondo perché, nella prima versione del
romanzo, il personaggio si chiama per l’appunto Galdino e non Cristoforo, mentre il frate cercatore di Pescarenico non si chiama ancora Galdino ma Canziano.
Il vero protagonista della storia è però padre Felice Casati. Nato nel 1583 da nobile
famiglia milanese, si fa cappuccino nel 1605. A lui, come figura più autorevole e dotato di grandi capacità organizzative, vennero offerti i pieni poteri nel Lazzaretto ed egli
svolge il suo compito con grande efficacia e abnegazione, ammalandosi ben due volte di peste. Fu sua l’idea di provvedere con le capre all’allattamento dei bambini, fu lui a
reclutare ostetriche per le partorienti, fu ancora lui a provvedere con ogni mezzo a nutrire i ricoverati e a reperire i mezzi di trasporto per seppellire i cadaveri o far uscire
i convalescenti.
Terminata l’avventura della pestilenza, padre Casati fu due volte provinciale
dell’Ordine. Stimato dalla città per la sua grande statura morale, fu inviato nel 1644 a Madrid per invocare dal re Filippo IV un alleggerimento delle tasse nei confronti di
un paese stremato. Tanto onore gli procurò subito invidie e inimicizie, tanto da essere spedito in Corsica per due anni malgrado le vivaci proteste dei suoi concittadini non
immemori del suo passato. Nel 1656, eletto Custode generale, partì a piedi per Roma (aveva 73 anni) per partecipare ad un’importante riunione. Giunto a Livorno si ammalò e
morì misteriosamente, tanto che si sospettò lo zampino del governo spagnolo. Fu sepolto nella chiesa dei Cappuccini di quella città.
Le molteplici attività che si svolgevano nel Lazzaretto sono state illustrate da un pittore
che vi fu ricoverato, ma che riuscì a cavarsela. Cliccando in molte aree della stampa qui a lato si
possono vedere le varie funzioni svolte dai Cappuccini e da altri durante quei terribili giorni del 1630.
Alessandro Manzoni e i Cappuccini
Il rapporto tra il Manzoni e i Cappuccini è considerato generalmente idilliaco: i Cappuccini
hanno fornito al romanziere con padre Cristoforo il modello più elevato di santità mentre il Manzoni ha dato agli italiani un’immagine estremamente positiva dei Cappuccini.
In realtà questo rapporto non è stato sempre così positivo, ma ha visto un curioso alternarsi di reciproca simpatia e antipatia.
Alessandro Manzoni ha trascorso l’infanzia nella casa paterna del Caleotto a Lecco, a pochi
passi dal convento di Pescarenico dove c’era ancora un nucleo di Cappuccini. Sappiamo dei buoni rapporti tra i padri e la famiglia Manzoni che fu generosa di doni al convento.
I rapporti tra il giovane Alessandro e i frati si colorano di leggenda via via che si allarga la fama del romanzo. Si parla di un tentativo di furto (una mela) nella dispensa dei
frati bloccato da un cartello con la scritta “Dio ti vede”, di un bambino che indossa la cotta per servire messa ai padri, ma
anche di un adolescente Alessandro-Don Rodrigo che deride un frate e molesta le fanciulle lecchesi. Più avanti con gli anni, dopo la famosa conversione, il Manzoni non sembrò
afflitto più che tanto dalla temporanea soppressione dell’ordine che considerava ormai superato e anche dopo il ritorno dell’ordine a Milano intrattenne solo qualche
relazione saltuaria con un padre del Monforte. D’altro lato, i Cappuccini dell’Ottocento, ostilissimi al Regno d’Italia e all’indirizzo rosminiano del Manzoni, non
manifestarono alcuna riconoscenza nei confronti del loro grande apologeta. Alla sua morte non ci furono cerimonie di sorta ed anzi non se ne fece neppure cenno nelle
pubblicazioni dei frati. Peggio ancora, alla morte dell’unico padre che intrattenne qualche rapporto con l’”eretico” si vollero bruciare tutte le sue carte per paura che
contenessero qualche apprezzamento nei confronti di idee non ortodosse dello scrittore. Il tempo sanò queste ferite e nel 1927, per il primo centenario dei Promessi
sposi, il sole ritornò a splendere e il Manzoni ricevette dai frati rappacificati un solenne omaggio di riconoscenza e d’amore.
Difficile quindi sostenere che il Manzoni si sia fatta un’opinione così entusiasta di
quest’ordine religioso attraverso la conoscenza diretta. Le fonti che hanno informato e convinto lo scrittore sono state altre e molto più antiche. Anzitutto lo storico
seicentesco Giuseppe Ripamonti che parlò ampiamente dei frati nel suo libro sulla peste del 1629. Poi la Memoria manoscritta di Pio de
La Croce, una relazione tarda di un padre cappuccino di Milano che si servì per redigerla di molti documenti conservati nel convento. Tra questi il cosiddetto Processo
autentico, i verbali che contengono le deposizioni dei cappuccini sopravvissuti alla peste sul loro operato nel Lazzaretto. Su quest’ultimo documento c’è un piccolo
giallo non risolto. Con la soppressione dell’ordine dei Cappuccini nel 1805, l’archivio venne depositato all’Archivio di Stato allora a San Fedele e incluso nella classe
“Finanze”, sezione “Demanio e Diritti Uniti”. Tra queste carte c’era anche il Processo autentico che il Manzoni avrebbe potuto facilmente consultare negli anni ‘20 e
‘30. In seguito però i documenti più antichi passarono all’Archivio Diplomatico mentre i moderni, compresi quelli dei Cappuccini, restarono alle Finanze. Alla fine i
documenti dei Cappuccini furono separati da quelli degli altri ordini perché erano storici e non amministrativi e finirono in uno scaffale morto delle Finanze fino al 1870
quando un diligente archivista li ritrovò e li segnalò allo storico Cusani e al Cantù. I due, a questo punto, pensarono che il Manzoni non poteva averli visti e utilizzati per
il romanzo e questa rimase da allora l’opinione corrente degli studiosi. Solo recentemente Giuseppe Santarelli ha ricostruito il lungo iter delle carte che dimostra la loro
reperibilità nei primi decenni del secolo e quindi la possibilità di un loro utilizzo nel romanzo. Un passo avanti tuttavia non decisivo perché non abbiamo sufficienti indizi
per affermare che il Manzoni li avesse effettivamente letti.
Link utili
Storia della Zona 3 di Milano
Edifici storici della Zona 3 di Milano (Lazzaretto, S. Gregorio, S.
Carlo)
Ampia storia del Lazzaretto con foto
Breve storia dei Cappuccini in Lombardia e a Milano
La peste in Manzoni (a
cura del Liceo Scientifico “D. Bramante” di Magenta)
Bibliografia
AA.VV., "Settimana manzoniana" omaggio dei
Frati Minori Cappuccini nel Primo Centenario dei Promessi Sposi (1827-1927), "Annali Francescani", Milano 1928
I Cappuccini ne i Promessi Sposi,
in "L'Italia Francescana", 2 (1929), pp. 444 sgg. (Sormani N PER 38 Q)
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Ultima modifica: lunedì 29 luglio 2002
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