Milano, 16 marzo 1946:apre la Casa della Cultura
L'inaugurazione in via Filodrammatici e il trasloco nello scantinato di via
Borgogna: da sempre una bussola della sinistra
ISABELLA MAZZITELLI
Il 16 marzo del 1946 Ferruccio Parri fece una lunga passeggiata, a piedi, dalla
sua casa in via Melzi d'Eril fino a via Filodrammatici assieme a Raffaele De
Grada, che gli aveva proposto di mandarlo a prendere in macchina, per
inaugurare la Casa della Cultura. Parri aveva rifiutato l'auto, e anche la
scorta: «Preferisco camminare», aveva detto. Si era appena dimesso da
Presidente del Consiglio, quello era stato il modo - se così si può dire - per
ufficializzare la decisione: di buon passo il padre della patria andò in
centro, al microfono della neonata Casa della Cultura parlò di «vigilia
antelucana» e altro pezzo importante della storia della neanche nata Repubblica
italiana venne scritto a Milano. Accanto a Parri - in piedi - il profilo
affilato di Antonio Banfi, e poi Piero Montagnani Marelli e Francesco Scotti;
dietro, nella foto, signore senza nome ma con eleganti cappello e signori con
occhialini rotondi e lenti spesse.
Disse Parri quel giorno: «Che cosa sarebbero stati quei nostri gruppi di operai
e di militari sbandati senza lo studente, l'avvocato, il professore che vennero
a inquadrare gli uomini, la lotta e le idee? Ed è questa magnifica leva
spontanea dei nostri intellettuali che ci dà cuore quando l'impreparazione, la
superficialità, il disordine, l'arrivismo, ci fan dubitare dell'avvenire».
Questa era la Casa della Cultura, associazione «dove medici e filosofi,
ingegneri e artisti, letterati e politici, scienziati e giuristi - come si
legge nel programma - che nell'esercizio delle loro attività hanno raramente
occasione di uscire dai limiti del proprio ambiente, potranno veder soddisfatto
questo loro desiderio». Il tutto, in un «aristocratico palazzo del centro
confortato da un buon ristorante e da un elegante servizio bar».
Nel palazzo accanto alla Scala, l'ex esclusivo Circolo dell'Unione passato,
come per un curioso contrappasso dalla reazione al progresso, dalla destra alla
sinistra, c'era anche una piccola e fornita libreria einaudiana e che, tra il
magnifico giardino e le sale eleganti con le poltrone di pelle, nasceva un
intreccio senza pregiudizi tra intellettualità democratico - liberale e cultura
di sinistra. E che cultura: nel primo stampato dell'associazione si fa un
elenco dei soci fondatori che va dalla «A» di Anceschi alla «V» di Vittorini
passando per Bompiani, Cantoni, Carpi, Carrà, Cassinari, De Grada, Einaudi,
Emanuelli, Ferrata, Gavazzeni, Greppi, Garzanti, Hoepli, Malipiero, Mattioli,
Morandi, Montale, Manzù, Pajetta, Quasimodo, Rogers, Saba, Solmi, Treccani,
Venanzi, Wittgens, Sereni.
Non era però certamente un circolo di anime belle, anzi. Quando nel luglio del
‘46 arrivò Sartre a parlare di esistenzialismo, non solo Banfi e molti
intellettuali comunisti (Trevisani lo definirà «filosofo degli invertiti») lo
accolsero con durezza e disprezzo, ma dato il clima incandescente, in via
Filodrammatici c'erano, benché in borghese, i poliziotti: come ha ricordato De
Grada, «Bisogna pensare che alla Casa della Cultura gravitava ancora
un'aristocrazia operaia; il pubblico era fatto in gran parte dai sindacalisti
della Falck, della Breda, della Pirelli, della Isotta Fraschini».
Tutto si teneva però, «tutto era tollerato salvo il fascismo», sottolineava De
Grada: erano anni di ideali forti, di grandissima curiosità e vivacità
intellettuale, culturale, politica. Cesare Musatti, che ne fu per alcuni anni
presidente - e fin dall'inizio brillantissimo animatore - di quegli inizi
quarant'anni prima, ricordava nel 1986: «La psicologia era una materia nuova
per la maggior parte del pubblico, vissuto nell'epoca dell'ignoranza fascista.
Io avevo quindi cose da dire. Bene: telefonavo alla segreteria di questa
neonata Casa della Cultura. «Sono il prof. Musatti, quello della psicologia.
Avete una sala libera questa sera? No. Allora domani? Va bene per domani. Ci
sono alcuni amici venuti da Roma. Vorremmo parlare della psicoanalisi. Sì:
psicoanalisi. È una dottrina alquanto sconosciuta da noi, perché avversata dai
fascisti. Può interessare. Va bene così. Quale sala ci dai? La seconda? Resta
inteso».
Questa era la Casa della Cultura: che nel 1950, tre anni prima della mostra a
Palazzo Reale che scatenerà la polemica, organizza un dibattito su Pablo
Picasso, l'artista che sul Corriere della Sera Montanelli chiamerà «il pittore
dei nasi storti», l'autore di «duecentocinquanta deformazioni, mostruosità e
talvolta sconcezze».
L'esordio degli anni Cinquanta coincide con molti cambiamenti, di forma e di
sostanza: il clubino dei nobili, il palazzo settecentesco, deve essere
restituito. E la crisi dell'unità antifascista scuote gli intellettuali
milanesi della Resistenza che hanno fondato la Casa della Cultura. «La prima
Casa della Cultura si spense nella querela o nell'imbarazzo fra comunisti e
socialisti e nella crisi del Partito d'azione. Ma si dividevano anche comunisti
e comunisti, diversi intellettuali lasciavano il partito. Insomma, la guerra
fredda irrigidì, raggelò e rese più fragile tutto». Questa è l'analisi di
Rossana Rossanda, che traghettò le spoglie della Casa della Cultura da via
Filodrammatici a via Borgogna, domandandosi se «i comunisti milanesi
insistessero più di altri per una resurrezione della defunta Casa soltanto per
non restare isolati, o per far fronte a quella che chiamarono offensiva
oscurantista».
E comunque resurrezione fu: per di più comprando la sede, in un'ansia
puntigliosa di trasparenza proprietaria e finanziaria.
Uno scantinato, ma in via Borgogna 3, costato al grezzo 18 milioni, pagati per
quote da 500mila lire l'una che, annota Rossanda, «allora non erano poca cosa».
La Repubblica
29.3.2001