I fratelli Lechi e Gaetano Belloni
di Paolo Colussi
Nei
primi anni dell'Ottocento il borgo di Porta Orientale, ormai diventato Corso della Riconoscenza, aveva ancora pochi palazzi di rilievo e numerose piccole abitazioni ad uno o due
piani, soprattutto sul lato che costeggiava i Giardini Pubblici (vedi ).
Questa situazione non si modificherà di molto fino agli ultimi decenni del XIX secolo quando ci sarà l'ultima rincorsa per occupare ogni spazio con i lussuosi edifici della
nuova borghesia. Fanno eccezione, nell'epoca napoleonica, i due episodi dei quali ci occupiamo, creati da personaggi diversissimi tra loro e con scopi diversi: il palazzo Lechi,
poi Batthyányi situato alla fine del Corso nell'area dei Giardini, oggi profondamente alterato, e il palazzo Belloni, poi Rocca Saporiti, sul lato opposto, all'altezza di via
Palestro.
La casa sul Corso della Riconoscenza
La storia avventurosa dei fratelli Lechi inizia, si può dire, prima ancora che nascessero. Stendhal (vedi )
nel suo diario di viaggio Roma Napoli e Firenze racconta le incredibili avventure del conte Vitelleschi, nobile bresciano che sembra un incrocio tra Casanova e il don
Giovanni di Mozart. Il conte Vitelleschi era in realtà il conte Lechi, non Faustino, il padre dei futuri generali come credeva Stendhal, ma il fratello Galliano, famoso in tutta
la Serenissima Repubblica per le sue stravaganze e intemperanze, che lo portarono prima in prigione e poi a morire assassinato in Valtellina.
Faustino era molto più tranquillo e obbediente alle leggi, ... anche di natura: ebbe infatti dalla moglie Doralice Bielli ben 19 figli, 11 dei quali
giunsero all'eta adulta, 7 maschi e 4 femmine. Molti membri di questa numerosa famiglia si faranno onore nella città di Brescia per le cariche ricoperte e per i loro studi, ma
il nome di due di loro - Giuseppe e Teodoro - sarà in pochi anni ben noto in tutta Europa. Anche la sorella Franca o Fanny, poi contessa Ghirardi, sarà famosa al suo tempo
anche se oggi è ricordata principalmente dagli appassionati stendhaliani.
La vita e le straordinarie avventure di Giuseppe e Teodoro Lechi
Giuseppe Lechi, figlio primogenito di Faustino, nacque ad Aspes,
vicino a Brescia, il 5 dicembre 1766. Suddito della Serenissima, intraprende la carriera militare nell’esercito austriaco raggiungendo il grado di capitano. Dopo l’arrivo di
Napoleone in Italia prepara con altri rivoluzionari bresciani e i fratelli la rivoluzione bresciana che esplode il 18 marzo 1797. La sorella Franca è l’anima di questa rivolta
e già alcuni giorni prima aveva cucito con le sue mani il tricolore. Giuseppe entra nel governo provvisorio di Brescia ed organizza la Legione bresciana autonominandosi
generale. Con la fondazione della Repubblica Cisalpina a Milano (9 luglio) i bresciani vi confluiscono subito portandovi tutta la loro irruenza. Napoleone, per evitare scompigli
nella capitale, invia la legione bresciana e i Lechi (Giuseppe, il comandante, Teodoro ed Angelo) prima in Emilia e poi, nell’inverno nelle Marche. Questo piccolo esercito si
fa subito onore entrando profondamente nell’Italia centrale spingendosi fino a Città di Castello. E’ qui che accade il famoso episodio, ancora oggi oggetto di dubbi e
sospetti, della donazione a Giuseppe Lechi da parte della città del quadro dello Sposalizio della Vergine
di Raffaello, oggi a Brera. Questo non è comunque l’unico quadro che arriva a Brescia dopo questa spedizione militare anche perché assieme a Giuseppe c’era il giovane
fratello Teodoro, grande appassionato d’arte. Tornato a Brescia, Giuseppe entra a far parte del Consiglio dei Juniori dal quale esce però subito per protesta assieme agli
altri bresciani. Nella primavera del 1799 è ancora una campagna militare in Valtellina per domare le rivolte antifrancesi. Giuseppe ne approfitta per vendicare lo zio Galliano
bombardando alcune case del paese dove lo zio era stato assassinato. Con l’arrivo degli austro-russi, dopo aver murato in casa il prezioso Raffaello, Giuseppe si ritira con i
suoi soldati a Digione partecipando alla costituzione della Legione italica nella quale assume il grado di comandante superiore, agli ordini del comandante generale Teullié.
Attraversate le Alpi con Napoleone, Giuseppe (sempre con Teodoro ed Angelo) appoggia l’azione delle truppe Francesi percorrendo la linea delle Prealpi
(Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia) per confluire poi con il grosso dell’esercito a Marengo dove è nominato Generale di divisione sul campo. Prosegue poi le operazioni
militari nelle Venezie partecipando alla conquista di Trento. Dopo la pace di Luneville (9 febbraio 1801) che pone temporaneamente fine alle ostilità con l’Austria tutto
l’esercito viene riformato. Sotto il comando di Murat, le truppe della Cisalpina vengono organizzate in divisioni al comando del generale Pino e di Giuseppe Lechi. Giuseppe
entra in politica, partecipa ai Comizi di Lione ed entra nel nuovo Corpo legislativo della Repubblica italiana. E’ forse per sostenere questa sua nuova carriera che vende per
50.000 lire il Raffaello ad un collezionista milanese, Giacomo Sannazzaro.
Stringe rapporti sempre più stretti con Gioacchino Murat partecipando alla creazione a
Milano della prima loggia massonica di rito scozzese e di tendenze filofrancesi (sino a quel momento la
massoneria a Milano era stata filoaustriaca) denominata “Fratelli riuniti”. Qui cominciano alcuni equivoci che si trascineranno per tutta la vita di Giuseppe: chi sono i
fratelli riuniti? Italiani e Francesi come pensavano allora Napoleone e Murat oppure “padani” e napoletani? Molti napoletani infatti, sfuggiti alle persecuzioni dei Borboni,
erano a Milano e spingevano per una liberazione del Regno di Napoli dai Borboni. Giuseppe lega subito con loro, suscitando i sospetti del Melzi e di Napoleone, contrarissimi
all’idea di un’Italia unita. E’ in questo contesto che ha luogo a Milano nel 1802 quella riunione segreta tra Giuseppe Lechi, Domenico Pino e alcuni patrioti napoletani per
sollecitare l’unità d’Italia che Benedetto Croce indicherà come la data di nascita del Risorgimento italiano.
Questa situazione confusa e ambigua spiega gli avvenimenti successivi. Nel 1804, quando il generale Saint Cyr avvia la spedizione di Napoli che porterà
Giuseppe Bonaparte sul trono dei Borboni, Giuseppe Lechi (ma non gli altri fratelli Lechi) è subito pronto ad aggregarsi e spinge le sue truppe alla liberazione delle regioni
adriatiche del Regno di Napoli. I suoi successi e i suoi stretti legami con i patrioti napoletani spingeranno ben presto i Francesi a sospendere le azioni delle truppe italiane
nel sud rispedendole a Milano. Giuseppe Lechi al suo ritorno è ormai “napoletanizzato”. Quando il 20 giugno 1805, in occasione dell’incoronazione di Napoleone, tutti i
Sorveglianti delle Rispettabili Logge massoniche si riuniscono a Milano per costituire il Grande Oriente d’Italia di Rito Scozzese Antico Accettato (RSAA), Giuseppe Lechi
partecipa all’incontro nella veste di Gran Maestro del Grande Oriente di Napoli al fine di unificare le due fratellanze.
Non è strano quindi se lo ritroviamo l’anno dopo con Murat nella seconda spedizione di Napoli e questa volta Giuseppe è a capo di tutta l’ala sinistra
dell’esercito. A Napoli i legami con Giuseppe Bonaparte e con Murat si fanno sempre più stretti mentre si allentano quelli con la Lombardia e con gli altri fratelli che
passano al servizio di Eugenio di Beauharnais.
Negli anni 1808 e 1809 Giuseppe Lechi è con il generale Pino in Spagna al servizio di Giuseppe Bonaparte, che ha ceduto il regno di Napoli a Murat.
Qui succede qualcosa di strano, che i biografi di Giuseppe non sanno o non vogliono raccontare. Giuseppe, dopo un lungo assedio, prende Barcellona e ne
diventa il governatore. Alla fine del 1809 rientra a Parigi con le truppe decimate dalla malaria e riceve da Napoleone una dote di 10.000 franchi annui. Poco dopo però viene
arrestato e rinchiuso nel castello di Vincennes per le “prepotenze” e le “prevaricazioni” compiute in Spagna. Il processo viene insabbiato per non infangare l’esercito
e Giuseppe Lechi viene “regalato” a Gioacchino Murat, re di Napoli. Il Lumbroso, uno dei pochi che si sia occupato in seguito di questo personaggio storico, parla di “accuse
di orrori, malversazioni e abusi infiniti” ma conclude dicendo che “sulle colpe del Lechi non si sa bene quante e quali fossero. Denaro certamente. La pratica fu
archiviata.”
Giuseppe, tornato a Milano ma al servizio del Murat, comincia a tramare con Domenico Pino contro Eugenio di Beauharnais e contro Napoleone. Nel novembre del
1813, quando Murat transita da Milano di ritorno dalla Russia, i due passano molto tempo assieme a confabulare sotto gli occhi sospettosi della polizia. Poi Giuseppe raggiunge
Murat a Napoli e, al precipitare degli eventi, diventa luogotenente del re di Napoli nella campagna degli austro-napoletani contro l’esercito di Eugenio. Il 31 gennaio 1814
Giuseppe è nominato governatore della Toscana e in questa veste cede Livorno agli Inglesi facendo infuriare Napoleone. Nel 1815, infine, conduce l’ultima disperata campagna di
Murat contro l’Austria che costerà la vita all’aspirante re d’Italia e il carcere al generale bresciano. Al ritorno dalla prigionia a Lubiana, nel 1818, Giuseppe si
stabilisce nella villa di famiglia a Montirone vicino a Brescia. Si sposa con Eleonora, figlia
del Pari di Francia Simeon e trascorre gli ultimi anni strettamente sorvegliato dalla polizia, isolato anche dai fratelli. Muore di colera a Montirone nel 1836. Personaggio “più
temerario, più spregiudicato e meno scrupoloso” degli altri fratelli, come lo definisce Fausto Lechi, lo studioso pronipote di Teodoro che ha raccontato le vicende
napoleoniche della famiglia nella Storia di Brescia, Giuseppe ha lasciato delle Memorie autobiografiche ancora inedite, che sono conservate manoscritte nella
Biblioteca Queriniana di Brescia e che meriterebbero di essere studiate e pubblicate, viste le ombre che circondano ancora questa strana figura di soldato.
Quanto è oscura e torbida la figura di Giuseppe, altrettanto
limpida e solare è invece l’immagine del fratello Teodoro, “mon beau général”, come lo chiamava familiarmente Napoleone. E' molto probabile che sia proprio
ispirata a Teodoro Lechi la nobile figura di ufficiale descritta da Stendhal nella Certosa di Parma come conte di Pietranera.
Teodoro Lechi nasce a Brescia il 16 gennaio 1778, quattordicesimo figlio di Faustino e quinto dei sette maschi sopravvissuti dopo Giuseppe, Giacomo, Angelo e
Bernardino. Ancora molto giovane al momento della rivoluzione bresciana, segue i fratelli maggiori nelle vicende che porteranno Giuseppe fino al grado di generale dopo la
battaglia di Marengo. Ha modo di farsi notare per il suo coraggio durante la presa di Trento: è il primo ad assalire la città.
Il suo carattere più schietto e leale, meno contorto di quello di Giuseppe, lo tiene lontano dalle congiure per l’unità d’Italia tramate forse dal
fratello con i napoletani, si schiera invece subito e decisamente con il Melzi e con Napoleone ed entra nella nuova Guardia Presidenziale della Repubblica Italiana che diventerà
poco dopo la famosa Guardia Reale. Teodoro, con i migliori quadri della Guardia, trascorre quasi due anni a Parigi (dal 1803 al 1805) per addestrarsi alle nuove tecniche militari
francesi. Quando torna a Milano con Eugenio di Beauharnais, nuovo viceré del Regno d’Italia, è comandante dei Granatieri della Guardia Reale. Ha persino l’onore, dopo
l’incoronazione, di ospitare Napoleone nella villa di famiglia a Montirone (13 giugno 1805) ed è nominato Scudiero del Re d’Italia. Ma la vita sedentaria di corte non fa per
lui. Vuole seguire il suo idolo nei campi di battaglia ed eccolo infatti a Ulma, ad Austerlitz e in tutte le avventure napoleoniche di questi anni trionfali. Dal 1807 al 1809,
passa di battaglia in battaglia, di vittoria in vittoria, nel Veneto, in Dalmazia, in Albania, in Ungheria. Dopo la battaglia di Wagram (6 luglio 1809) alla vigilia della quale
aveva formato con la sua Guardia il quadrato attorno all’imperatore, è nominato Barone dell’Impero con diritto di trasmissibilità del titolo, privilegio quest’ultimo
conferito a pochissimi italiani.
Dal 1810 alla fine del 1811, mentre il fratello Giuseppe è in carcere o comunque in disgrazia, Teodoro si gode a Milano le grandi feste e i balli di questo
raro periodo di pace. E’ forse in questi anni che acquista la casa in Porta Orientale, dove ammasserà i più di 800 quadri raccolti durante le sue campagne militari, qualcuno
persino in Albania.
Bello, colto, ricco e famoso, il 10
febbraio 1812 Teodoro parte per la campagna di Russia dove ogni avversità si scatena contro l’esercito francese. Anche qui, però, nei terribili giorni della ritirata, la sua
buona stella lo assiste. Riesce a salvarsi con molti della sua Guardia e a meritare l’elogio dell' imperatore per le sue grandi capacità di comandante e di combattente.
L’anno successivo, Eugenio si affida interamente a lui per ricostruire un esercito a Milano dopo la catastrofe, e Teodoro riesce a partire per la nuova guerra contro
l’Austria con 10.000 uomini. Ma ormai la sorte di Napoleone è segnata. Teodoro segue Eugenio nell’avanzata e nella ritirata in Italia dopo la sconfitta di Lipsia. Lentamente
ma inesorabilmente devono ripiegare dal Friuli, poi dal Veneto attestandosi nel febbraio 1814 a Salò, ultima linea di difesa per non perdere Milano. Gli Austriaci incalzano a
est, gli austro-napoletani di Murat e Giuseppe Lechi sono attestati oltre il Po in attesa degli eventi. Sembra che sia ormai arrivato il momento in cui i due fratelli si
scontreranno in un’ultima battaglia decisiva tra due Italie o tra due modi di concepire l’Italia, ma Eugenio firma l’armistizio con l’Austria sperando di conquistarsi così
il trono. Teodoro lo supplica di andare a Milano prima che i suoi nemici - soprattutto il
generale Pino - facciano svanire le sue speranze. La Guardia Reale, per bocca di Teodoro, proclama la sua fedeltà ad Eugenio il giorno 19 aprile, ma il giorno dopo ci sarà la
rivolta di Milano e la fine del sogno bonapartista in Italia. Teodoro, per non consegnare all’Austria le bandiere delle Guardia Reale le fa bruciare dai suoi ufficiali che poi
ne mangiano le ceneri. Salva solo le aquile che donerà a Carlo Alberto nel 1848 (una è conservata al Museo del
Risorgimento di Milano).
Tornato “borghese” dopo aver rifiutato il giuramento all’Austria, Teodoro vive tranquillo, circondato dai suoi quadri, a Porta Orientale. Ma è solo
per pochi mesi. A settembre, mentre è nel suo giardino con un vaso di fiori in mano, entra un suo ex collega ed ex fratello massone che gli dice: “Teodoro, è il momento di
deporre i fiori e impugnare la spada!”
Il generale si risveglia in lui ed eccolo coinvolto nella congiura massonica degli ex generali del 1814. Le congiure però non fanno per lui: arrestato in
dicembre è rinchiuso nel Castello Sforzesco, al secondo piano nel cortile della Rocchetta, poi viene tradotto a Mantova. Condannato prima a morte, la condanna viene poi
commutata in cinque anni di carcere anche perché non ammise mai la sua partecipazione né denunciò gli altri congiurati. Rimesso in libertà nel 1819, si infierì ancora su di
lui, condannandolo a pagare al fisco una cifra enorme come rimborso per le gratifiche ottenute da Napoleone. Cerca di vendere a Londra i suoi quadri, ma gli si nega il permesso
di esportazione. Deve vendere allora la casa di Porta Orientale, che passa al conte Batthyányi, membro di un’illustre famiglia d’Ungheria.
Tornato
a Brescia nella casa di famiglia dove vivevano alcuni dei suoi fratelli, nel 1829 sposa Clara Martinengo-Cesaresco dalla quale ha tre figli, uno solo dei quali, Faustino,
raggiunge la maggiore età. Nel 1832 riesce finalmente a contrattare l’esportazione dei quadri. In cambio cede a Brera il Martirio
di Santa Caterina di Gaudenzio Ferrari e la Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Girolamo di Callisto Piazza. Con i soldi ricavati acquista dal
fratello Luigi l’isola Lechi sul lago di Garda. Nel 1843, per fornire una buona scuola a Faustino, torna a Milano e prende in affitto un appartamento nella casa Bellotti in via
Brera. E’ destino però che Milano non consenta a Teodoro di vivere finalmente in pace. Il 18 marzo 1848, all’inizio delle Cinque Giornate, bussano di nuovo alla sua porta
perché, a 70 anni suonati, torni ad impugnare la spada. E’ condotto al Broletto, si vuole che sia a capo delle milizie rivoluzionarie. Fa appena in tempo ad accettare, che è
subito arrestato e condotto nuovamente alla Rocchetta dove resterà fino al termine dell’insurrezione. Cercherà invano nei mesi seguenti di consigliare Carlo Alberto a
correggere la disastrosa campagna militare che sta conducendo. Alla fine ripara a Torino con la famiglia subendo il sequestro dei beni e una multa di 40.000 lire. Nel 1854 scrive
per il figlio la sua autobiografia che verrà pubblicata alla fine dell'Ottocento. Nel 1859 può finalmente tornare a Milano in un appartamento di palazzo Taverna di via Bigli
dove muore il 2 maggio 1866.
La festa del conte Batthyányi nel 1828
Dopo tante turbolenze, nella casa di Porta Orientale ecco trascorrere un periodo sereno e festoso. Il conte Batthyányi viveva con grandi mezzi ricevendo la
migliore aristocrazia della città. Celebre fu la festa mascherata del 1828 che ci è stata raccontata con dovizia di particolari dal Bascapè nel suo libro I palazzi della
vecchia Milano (pagg. 301-3) dove si finge che sia il conte Mellerio nel 1838 a illustrare i palazzi di Milano. Riportiamo le sue stesse parole:
« Il Batthyányi arricchì ed abbellì la propria casa, ove dieci anni or sono diede un ballo in costume tanto sfarzoso, che restò nelle cronache come
un avvenimento memorabile. C'ero anch'io, a quella festa, e non posso dimenticare lo splendore dei saloni, il gaio movimento delle danze, la magistrale scelta dei pezzi musicali
che venivano eseguiti alternatamente da due orchestre, e soprattutto la ricchezza dei costumi degli invitati. L'aspettativa per quei costumi era tale, che una folla di persone
si era preparata sul marciapiedi, per assistere all'arrivo degli ospiti, e quando questi scendevano dalle carrozze per entrare in casa, erano salutati da un mormorio di
approvazione, e qualcuno, più splendido ed ammirato, fu persino applaudito... Bei tempi! »concluse malinconicamente il Mellerio. Ma le dame chiesero altri particolari, ed
egli narrò che tutto era stato combinato in precedenza: la scelta dei personaggi e quella del vestiario, sicché furono evitate possibili stonature. « Pensate un po', ad
esempio, se a due dame fosse saltato in mente di acconciarsi da Caterina de' Medici? O se nei saloni si fossero incontrate due... reincarnazioni di Francesco I? Insomma, il
ballo fu organizzato nel modo più perfetto, e ogni famiglia ricostituì, per qualche ora, una Corte o un gruppo dinastico: v'erano personaggi della Signoria fiorentina e di
quella milanese, sovrani e principi italiani e stranieri, perfino
un sultano -ma... senza harem - e infine una serie pittoresca di costumi popolari, da quelli magiari, indossati da ungheresi amici dell’ospite (magnifici abiti, a fondo bianco,
costellati di minutissimi ricami rossi e neri: contadinelle della puszta di Hortobágy, pastori domatori di cavalli) a quelli polacchi, tartari, persiani, scozzesi, montenegrini,
ecc., brillantissima poi la Samoiloff, in veste di contadina russa, che fu oltremodo ammirata e... corteggiata. Il padrone di casa indossava uno sgargiante costume montenegrino,
azzurro con ricami, e un mantello rosso; le contesse Filippina ed Eleonora Batthyányi, in abito da persiane, trionfavano fra un gruppo multicolore di gentiluomini - nella corte
di Francesco I brillavano la principessa Cristina di Belgioioso col consorte, essa in abito di velluto viola, egli in bianco; e c'era il Lusignano, re di Gerusalemme, il
marchese Giorgio Trivulzio, e molti altri. I costumi erano stati disegnati dai pittori Hayez e Migliara, ed eseguiti con lusso principesco dalle principali sartorie di Milano, di
Parigi e di Vienna. Fu una visione superba, indimenticabile. L'Hayez, presente alla festa, cercò di fissarne lo splendore in un disegno, ma non poté dare che un pallido
riflesso di quella mirabile adunata, in cui lo sfarzo dei colori, dei ricami, la profusione dell'oro e dell'argento, la lucentezza delle armi e delle armature, col movimento
della scena, costituivano un insieme magnifico e festoso, ch'era impossibile eternare colla matita o col pennello. All'ultimo momento arrivò don Rodrigo, col Griso e con una
fosca e minacciosa turba di bravi, e non sto a dirvi quanti brividi quell'apparizione suscitasse nelle molte Lucie presenti! Era del resto una prova del successo che il romanzo
del Manzoni aveva avuto... Ma don Lisander a quella festa non c'era, perché, pure essendo uomo di mondo e gentiluomo garbato, non ama il chiasso dei balli». Usciti dalla casa
Batthyányi si avviarono alla barriera.
Dopo l'unità d'Italia la casa passò in proprietà di Carlo Ruga, poi divenne casa Rossi. Agli inizi del Novecento vi abitava il pittore Paolo Sala.
Nel 1933-34, con la costruzione della casa adiacente e della Torre Rasini di E. Lancia e G. Ponti, venne profondamente alterata, ma conserva ancora qualche
traccia della sua antica facciata neoclassica.
Gaetano Belloni
Il Palazzo Rocca-Saporiti di corso Venezia 40, tanto è appariscente con il suo grande loggiato decorato da splendide
colonne ioniche, quanto è poco studiato nella sua storia. Purtroppo le scarne notizie qui riportate sono le uniche che è stato possibile rintracciare, sempre le stesse ripetute
di libro in libro.
Il palazzo viene costruito nel 1812 da Gaetano Belloni sull'area dove sorgeva la chiesa dei Cappuccini e l'adiacente piazzetta ricordate anche dal Manzoni
nei Promessi Sposi. La chiesa venne demolita mentre il convento rimase ancora in piedi per molti decenni come alloggio di fortuna per gli immigrati che raggiunsero sempre
più numerosi Milano nell'Ottocento.
Gaetano Belloni, il primo proprietario, aveva ottenuto, con il ritorno in Italia di Napoleone nel 1800, la gestione del Ridotto della Scala, una vera e
propria miniera d'oro perché era il più frequentato dei locali dov'era consentito il gioco d'azzardo. In cambio il Belloni doveva versare una quota del ricavato
nell'allestimento degli spettacoli. Per il disegno della facciata venne incaricato lo scenografo Giovanni Perego, un giovane già famoso che lavorava alla Scala accanto al
Sanquirico. E' indubbio che la competenza scenografica abbia avuto un peso notevole nella concezione di quest'opera, che raggiunge un grande impatto visivo, difficile da
dimenticare, arricchito dalle statue degli Dei Consenti di Grazioso Rusca e Pompeo Marchesi allineati sulla balaustra posta sopra il cornicione. Anche il fregio con
vicende tratte dalla Storia di Milano (non ben identificate) di Pompeo Marchesi, pur richiamandosi esplicitamente al Palazzo Serbelloni, conferisce all'edificio un ulteriore
elemento di pregio. Ad attenuare l'effervescenza del piano nobile in pietra molera, il Perego ha posto al piano terreno un severo zoccolo di granito, quasi un basamento di un
ideale tempio ionico sospeso nell'aria.
All'interno il salone da ballo è affrescato alla maniera dell'Appiani e altre sale ricevono arredi e stucchi neoclassici ancora conservati.
Terminata l'età d'oro napoleonica, il Belloni si traferisce a Roma nel 1818 e vende il palazzo a Marcello Saporiti. Diventato poi per via ereditaria Rocca
Saporiti, il palazzo viene infine acquistato dagli Archinto che tuttora vi abitano.
Bibliografia
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Lechi, Fausto, Note autobiografiche del conte generale Teodoro Lechi, illustrate e annotate da F. Lechi, in Ateneo di Brescia - Miscellanea di
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Lumbroso, Alberto, Il generale d'Armata, conte Teodoro Lechi e la sua famiglia, estr. dalla "Rivista storica del Risorgimento italiano",
Torino 1898 (Brera Misc. Novati K 800)
Martinucci, Paolo, Premesse storiche e culturali dell'insorgenza nel Bergamasco e nel Bresciano (seconda parte), nel sito dell'Istituto
per la storia delle insorgenze
Re, Luigi, Il conte Luigi Lechi nel processo del 1821, in Ateneo di Brescia - Miscellanea di studi su Brescia nel Risorgimento, Brescia-Torino
1933, pp. 171-226 (Brera ATTI ACCAD 42 anno 1933)
Stendhal, La Certosa di Parma, in Romanzi e racconti, vol. II, Firenze, Sansoni 1956, pp. 348-49
Stendhal, Roma Napoli e Firenze, Bari, Laterza 1990, pp. 41-43
Viviani, Ambrogio, Storia della massoneria lombarda dalle origini al 1962, Foggia, Bastogi 1992
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