La vera storia della Monaca di Monza
di Paolo Colussi
La prima infanzia
I nonni paterni di Marianna erano Luigi de Leyva e Marianna
de la Cueva, principi d’Ascoli. Luigi apparteneva a un’illustre famiglia
spagnola salita a grande fama grazie a suo padre Antonio de Leyva, grande
comandante militare al seguito di Carlo V e primo governatore di Milano dopo la
morte del duca Francesco II Sforza nel 1535.
Il padre di Marianna, Martino de Leyva, secondogenito di
Luigi, era nato nel 1548 o 49. Come figlio cadetto aveva dedicato la sua vita
alla carriera militare. Lo troviamo a combattere a Granada, a Lepanto e alla
Goletta. A poco più di vent’anni è nominato comandante di una compagnia di
lance a Milano. Nel 1574 è ad Alessandria con le sue truppe. E’ ora ormai di
puntare a nomine di prestigio, ma per questo ci vogliono parecchi soldi e così,
il 15 dicembre 1574, a 26 anni, sposa Virginia Marino, la figlia ed erede
dell’uomo più ricco di Milano, il banchiere Tommaso Marino, per una dote
(promessa) di 50.000 scudi. Virginia era vedova del primo marito dal 1572, data
di morte anche del padre. Alla morte del marito era tornata a Milano a curare
l’eredità lasciando i suoi cinque figli a Sassuolo in cura ad uno zio.
Marianna, la prima ed unica figlia della coppia, nasce dopo
circa un anno. Non esistono documenti che certifichino il giorno esatto della
nascita, ma solo elementi indiretti. In particolare, nell’interrogatorio del
processo avvenuto il giorno 22 dicembre 1607 lei dice: “Io havrò 32 anni.” Da
ciò si è desunta una data approssimativa che va dalla fine del 1575 all’inizio
del 1576. La bambina prende il nome dalla nonna o più probabilmente dalla
madrina Marianna, sorella di Martino, che aveva sposato Massimiliano Stampa,
marchese di Soncino.
La coppia con la bambina abita in Palazzo Marino. L’atto del
2 settembre 1592 del notaio Pietro Cicereio dice che abitavano “quella
cantonata verso S. Fedele pigliando da detta cantonata sino a tutto il netto
dell’andito della porta che resguarda S. Simplicianino nel quale apartamento
interviene esso andito, una saletta et tre camere et un porteghetto con due
vasi necessari et un poco di giardino in larghezza di braccia cinque onze tre e
mezza in larghezza braccia 27 e mezza in circa, con un pozzo et due torriole,
le quali vanno a servire ad uno
apartamento superiore simile a questo et sotto le sue cantine con il medesimo
riparto, il tutto è in volta.” (Archivio di Stato - Palazzo Marino)
Dopo la morte del banchiere infatti il palazzo era stato
diviso in quartieri e Virginia aveva avuto in uso quello all’angolo tra piazza
san Fedele e via Caserotte. Il 29 agosto 1576 Martino de Leyva riceve
l’appartamento al posto della dote non ancora versata. A questa data la moglie
sta ancora bene, ma un mese dopo, il 1 ottobre 1576, quando fa testamento, la
malattia - probabilmente la peste che infuriava a Milano in quell’anno - è già
allo stadio finale.
Il testamento di Virginia è all’origine di una lunga vicenda
giudiziaria che si risolverà a danno di Marianna. Le volontà della madre erano
quelle di lasciare eredi la figlia Marianna e il primogenito del suo primo
matrimonio Marco Pio, ciascuno dei due al 50%. Il marito doveva ricevere
“l’usufrutto della dote e un anello con gemma di valore” (forse l’anello
nuziale). Il testamento viene subito impugnato dalle sorelle di Marco Pio
escluse che chiedono immediatamente un inventario dei beni.
Da questo inventario, eseguito dal notaio Giovanni Mazza il
10 ottobre 1576, sappiamo che nell’appartamento di palazzo Marino c’era una
culla con “copertura di grogran goernito di un pasaman di setta biancha
foderata di sandal biancho”. Il corredo della bambina comprendeva anche “tre
patelli di panno rosso, tre lanzoletti, tre orletti, sei patelli, e più doi
lanzoletti di cambraja goerniti di un lavor di refo fatto a osso”. E’ la prova
del soggiorno di Marianna nel palazzo, che, dopo la morte della madre, viene
lasciato quasi subito anche dal padre che nell’agosto-settembre del 1577 va a
combattere nelle Fiandre dove rimane per tre anni, fino al 1580. Marianna vive
con la zia paterna Marianna Stampa o con la zia materna Clara Torniello che
stava nell’appartamento adiacente di Palazzo Marino. Chi l’assiste è la balia
Vittoria alla quale Virginia ha lasciato un legato di 25 scudi d’oro forse
perché continui a curare la bambina.
La causa intanto va avanti. Nel 1580 Martino de Leyva torna
apposta a Milano per siglare un compromesso con le sorelle che snatura il
testamento di Virginia: di 12 parti dell’eredità, 5 vanno a Martino e alla
figlia, 7 ai figli di primo letto. E’ chiaramente un furto nei confronti della
bambina. Lo storico Ripamonti, fonte primaria di tutta la storia della Monaca
di Monza, dice che Martino agiva “sotto gli stimoli dell’avarizia”. Il
compromesso in perdita era dovuto probabilmente anche alla fretta che questi
aveva di lasciare Milano per seguire altre campagne militari.
La famiglia de Leyva comunque non era certo in ristrettezze.
Il bilancio delle entrate milanesi di Martino (e figlia) quale risulta da un
documento del 25 luglio 1580 ammontava a L. 9.382 l’anno corrispondenti alle
rendite milanesi derivanti dalla dogana e dalla mercanzia. C’erano poi le
tenute di Mirabello e della Torrazza, le rendite della contea di Monza, il
dazio dell’imbottato. La contea di Monza era un’entrata dei de Leyva che
turnavano tra loro fratelli ogni due anni.
Secondo il racconto del Manzoni, Marianna appare destinata
al chiostro fin dalla nascita, ma ciò non sembra corrisponda alla verità
storica. In una lettera del padre del 26 giugno 1586 si parla delle prospettive
matrimoniali di Marianna e di una dote di 7000 ducati. La svolta in questo
senso deve essersi verificata poco dopo, e precisamente nel carnevale 1588
quando il padre si risposa a Valenza in Spagna con donna Anna Viquez de Moncada
allontanandosi così definitivamente da Milano. Grazie a questo importante
matrimonio Martino ottiene la carica di Maestro di Campo generale della
cavalleria e della gente d’armi del regno di Napoli. Avrà inoltre dalla seconda
moglie i suoi veri figli: Luigi, Antonio e Gerolamo, che lo seguiranno nella
carriera militare. La tendenza a monacare le figlie viene attuata comunque
anche nei confronti dell’unica figlia spagnola Adriana. Le altre due figlie
nate dalla seconda moglie, Maddalena e Giovanna, muoiono all’età di 11 e 8
anni.
Marianna diventa suor Virginia
Nello stesso anno 1588 Marianna, che fino a quel momento era
vissuta sotto la tutela delle zie, entra nel monastero di Santa Margherita a
Monza e compie la Vestizione. Aveva 13 anni e tre mesi, un’età sufficiente per
quest’atto che secondo le norme doveva essere compiuto dopo i 12 anni. Il
monastero di Santa Margherita si allungava lungo lo Spalto di Porta de’ Grandi (oggi via Azzone Visconti)
che costeggia il Lambretto e vi si accedeva da un vicolo che oggi si chiama
appunto “Via della Signora”. Era stato un tempo delle Umiliate per passare poi
all’ordine benedettino. A quest’epoca ospitava 20 monache.
Il 15 marzo 1589 don Martino de Leyva compare per l’ultima
volta accanto alla figlia. Lo troviamo a Monza per promettere la dote di
Marianna consistente in un deposito di 6.000 lire imperiali che fruttavano una
rendita annua di L. 300. Secondo l’atto la somma doveva essere depositata
subito a Giuseppe Limiato, che infatti dice di averla ricevuta, il quale poi
l’avrebbe versata al monastero all’atto della professione. In realtà vedremo
poi che Giuseppe Limiato non ha ricevuto proprio niente. Sono presenti come testimoni l’agente
Giuseppe Molteno e il farmacista Rainerio Roncino (che ritroveremo in seguito
tra le vittime dall’Osio), e un certo Giuseppe Panzulio. Secondo i calcoli di
Luigi Zerbi, lo studioso che per primo ha compiuto una seria analisi dei
documenti riguardanti la monaca di Monza, con quest’atto in realtà il padre
rubava alla figlia 27.860 lire delle 39.861 che le spettavano.
Il 26 agosto 1591, trascorso il giusto periodo di noviziato,
l’arcivescovo autorizza la richiesta delle novizie di ricevere la professione.
Le tre novizie sono suor Virginia Maria, suor Benedetta Felice [Homata], suor
Teodora [da Seveso] e suor Ottavia [Caterina Ricci].
Il 12 settembre 1591 Marianna compie la Professione e
diventa Suor Virginia Maria. Sappiamo che a questa data le suore non avevano
ancora visto il deposito di 6.000 lire promesso due anni prima. Durante un
incontro avvenuto due giorni prima con il Limiato avevano concesso due anni di
dilazione. In realtà da una causa del 1626 (!) sappiamo che a quell’epoca non
era ancora stato versato. Vengono invece versate regolarmente le rendite annue.
Ma com’era a sedici anni questo strano personaggio, reso indimenticabile
dal Manzoni anche grazie al suo inquietante ritratto? Il Ripamonti così ce la
descrive a sedici anni: “era la de Leyva modesta, circospetta, affabilissima,
soffusa di un invidiabile candore, amica con tutte, delle discipline letterarie
istrutta, come lo poteva essere in allora una giovinetta ben educata,
obbediente, per nulla dispettosa, esempio di contegno sociale perfetto.”
Tutta Monza sembra essere concorde nel lodarla. Il 20 maggio
1594 il letterato monzese Bartolomeo Zucchi le invia una lettera molto
ampollosa nella quale si loda la sua
scelta di farsi monaca. A vent’anni suor Virginia diventa “La Signora”
perché esercita per mandato del padre
il biennio di sovranità a Monza, consistente nell’emettere gride, ordinare
arresti, rimettere le pene, ecc. Esiste un’ordinanza del 26 dicembre 1596
riguardante la pesca sul Lambro a sua firma. In questo periodo riscuote
l’ammirazione di tutti per il suo contegno.
L’amante segreto: Giovan Paolo Osio
Nel 1597 Marianna è maestra delle educande (circa 20
ragazze) tra cui Isabella degli Hostesi. Dal Ripamonti conosciamo il primo
episodio della tragedia. Giovanni Paolo Osio, la cui casa confinava con il
monastero, sale su un albero del suo orto e scambia saluti con Isabella, che
viene sgridata da Marianna, tolta dal collegio e maritata. L’episodio è
raccontato anche da suor Virginia durante il processo in questi termini:
“Detto Gio. Paolo Osio faceva l’amore con la signorina
Isabella Ortensia secolare la quale era nel monastero in dezena et havendo io
trovato che stavano guardandosi l’uno e l’altro alla cortina delle galline gli
feci un gran rebuffo che portasse così poco rispetto al monastero massime che
detta giovane era data in mia custodia [...], et esso se n’andò via bassando la
testa senza dire altro”.
Poco tempo dopo, nell’ottobre 1597, viene ucciso l’ex
soprastante a Monza dei de Leyva, il Molteno, che aveva circa 60 anni.
L’uccisione è addebitata all’Osio. Le cause non sono chiare: forse una vendetta
contro suor Virginia per lo sgarbo ricevuto oppure poteva anche essere un
omicidio concordato con il Limiato per questioni di interesse. Entrambi i
soprastanti erano dei furfanti che cercavano in tutti i modi di arricchirsi a
spese dei signori assenti. La seconda ipotesi sembra più probabile tanto è vero
che poco dopo - il 24 novembre 1597 - i De Leyva da Napoli sostituiscono il
Limiato con Luigi Trezzo detto Perruccone.
Suor Virginia comunque è in questo periodo la Signora di
Monza ed amministra la giustizia. Il giovane Osio da una finestra che guardava
nel monastero cerca di contattare suor Virginia e le fa cenno di volerle
mandare una lettera, forse per giustificarsi, ma la Signora, in collera con lui
per l’omicidio, ne ordina l’arresto. L’Osio allora fugge da Monza e resta
bandito per un anno. Poi, per intercessione di molti e su pressioni della
superiora, ottiene la grazia.
L’Osio a quell’epoca, secondo alcuni indizi, doveva avere
circa 25 anni. Il Ripamonti lo definisce “ricco e ozioso”. Il padre Giovan
Paolo e il fratello Cesare erano molto noti a Monza per le loro ribalderie e i
numerosi ferimenti. Anche il fratello Teodoro ucciderà lo zio per affrettare
l’eredità. Fino a quest’anno non c’è traccia invece di reati di Giovan Paolo,
che frequenta personaggi altolocati come i de Leyva, Francesco D’Adda, Giovanni
Borromeo, Ludovico Taverna ed Ermes Visconti. Non è del tutto ignorante:
conosce il latino e utilizza un manuale per comporre le lettere. Secondo il
prete Arrigone possedeva “qualche libro”. E’ amico del convento e della
superiora suor Francesca Imbresaga.
In un’epoca imprecisata del 1598, l’Osio fa ritorno nella
sua casa di Monza. L’ira di suor Virginia è ormai spenta, anzi la giovane
monaca scopre improvvisamente di sentire una grande attrazione per lui e lo
spia non vista ogni volta che scende in giardino. La suora Ottavia Ricci
racconterà in seguito della frase famosa - “si potria mai vedere la più bella
cosa?” - pronunciata da suor Virginia in sua presenza alla vista del giovane.
L’Osio, forse per ringraziarla della grazia ricevuta o
perché si era accorto di queste attenzioni, si avvicina a Marianna. Inizia uno
scambio di lettere, recapitate in giardino tramite un filo calato dal
finestrino, seguito poi da alcuni regali. L’Osio però all’inizio sbaglia
strategia scrivendo una lettera molto audace; viene subito corretto dal prete
Arrigone che scrive lui stesso le altre lettere ispirate ad un’ipocrita
devozione. Ad un certo punto lo squallido “Cirano” confessa addirittura alla
monaca l’equivoco, professandole il suo amore, ma viene scacciato in malo modo.
Nell’agosto del 1599, forse liberata dagli scrupoli in seguito alla morte del
padre, la suora accetta di avere un primo incontro con l’Osio sulla porta del
convento. L’emozione è talmente forte da provocare nella giovane una forte
malattia. A Natale l’Osio entra per la prima volta nel monastero ed ha un
rapporto sessuale con Virginia. Nel processo, che si svolgerà al termine della
vicenda, suor Virginia sosterrà di aver ceduto perché era stata stregata
d’amore dall’Osio da quando aveva baciato una calamita nera legata in oro, che
era stata battezzata dal prete Arrigone complice dell’Osio. L’episodio della
calamita è raccontato da suor Candida Colomba Brancolina (p. 343) in questi
termini:
“... una volta cavandosi dal seno calamita battezzata che havea
legata in oro dicendo che era una reliquia la basciò toccandola con la lengua,
et poi la volse dare a basciare a suor Virginia Maria, ma lei stava renitente
et esso gli soggiunse che lo faceva perché havea schivio di lui, et fece tanto
che gli la fece toccare con la lingua ...”
Gli incontri tra i due, organizzati con la complicità di
altre quattro suore amiche e succubi della Signora, si susseguono
frequentemente. I vicini di casa avvertono la superiora di questo andirivieni,
ma all’inizio senza creare troppo allarme perché si sparge la voce che l’Osio
aveva una relazione spirituale con suor Virginia e che voleva farsi cappuccino.
Nel 1602 Marianna partorisce il “putto morto” che le
complici Benedetta e Ottavia consegnano all’Osio. Dopo il primo “incidente”
però suor Virginia è molto turbata. Nel vano tentativo di dimenticare l’Osio
getta nel pozzo più di 50 chiavi che l’Osio continua a far rifare dal fabbro; è
tentata di gettarsi per disperazione nel pozzo del monastero ma è trattenuta da
un’immagine della Madonna che si trovava nel giardino; fa voti alla Madonna di
Loreto inviandole ricchi doni. E’ sempre più convinta che si tratti di “mal
d’amore” provocato da malefici. Infatti dice che si trovavano nel suo letto
“osse dei morti ratti morti corde di ferro uncini...”. Ricorre allora anche lei
a sortilegi per combattere la magia. Le consigliano di diventare “coprofaga”
dell’amante, un rimedio considerato molto efficace contro il mal d’amore.
Procuratasi gli escrementi dell’amante, li fa seccare e li beve per tre volte
alla mattina dentro un brodo fatto con fegato e cipolle.
Malgrado tutti questi tentativi, i rapporti riprendono,
anche se più saltuariamente anche perché per alcuni mesi l’Osio è a Roma e a
Loreto, e nell’autunno del 1603 suor Virginia resta nuovamente incinta di una
bambina che verrà partorita l’8 agosto 1604. Questa figlia che sarà chiamata
Alma Francesca Margherita vive con l’Osio che la legittimerà il 17 aprile 1606
dicendo di averla avuta da una certa Isabella da Meda. Nel suo primo anno di
vita viene allattata da diverse balie, una di queste è la figlia di Susanna, la
serva del monastero. In corrispondenza a queste due gravidanze, Marianna chiede
alla matrigna una rendita maggiorata di 20 ducati, forse per pagare chi la
assisteva. Complici dei due parti sono suor Benedetta e suor Ottavia. Nel
secondo parto anche suor Silvia Casati e suor Candida Colomba. Dopo il secondo
parto, suor Virginia esce varie volte
dal convento per vedere la bambina in casa dell’Osio. Altre volte invece gliela
portano dentro il convento. Suor Virginia la accarezza e prepara dei vestiti
per lei anche se la giudica brutta e non le sembra la bambina che lei ha
partorito. Durante la gravidanza, per giustificare l’ingrossamento, si dice che
è ammalata alla milza e che è idropica.
In questo periodo, poco dopo il secondo parto, qualcosa si
fa per tappare la falla: vengono murate le finestre che guardano verso la casa
dell’Osio e suor Virginia viene trasportata con tutto il letto (era spesso
ammalata) in un’altra parte del monastero.
Il 6 giugno 1605 l’arcivescovo di Milano Federico Borromeo visita il monastero senza avere alcun sospetto delle gravi irregolarità che
turbavano quella comunità religiosa. Assegna diverse penitenze a suor Virginia:
i digiuni e le flagellazioni sembra che abbiano fatto cessare la relazione
dimostrandosi più efficaci della ripugnante pozione magica.
Due anni terribili
Nell’estate del 1606 la situazione, che sino ad allora era
rimasta miracolosamente in equilibrio, inizia a precipitare. La conversa
Caterina da Meda, in occasione della visita al convento di Mons. Pietro Barca,
canonico di S. Ambrogio, vuole rivelare la relazione di suor Virginia. Caterina
non era professa e era considerata inadatta a diventare monaca per il suo
cattivo carattere e forse anche perché rubava nel monastero. Il 23 luglio,
pochi giorni prima della temuta visita, Caterina viene chiusa per punizione
nella legnaia su istanza di suor Virginia perché aveva sporcato il letto di
suor Degnamerita che piaceva molto a suor Virginia perché suonava bene l’organo
e cantava. La sera prima suor Virginia e le sue complici (suor Benedetta, suor
Candida Colomba, suor Ottavia e suor Silvia) vanno da lei per imporle di non
parlare ma lei non accetta. L’Osio allora è costretto ad ucciderla con tre
colpi in testa. Viene nascosta nel pollaio mentre si apre un buco nel muro per
far credere a una sua fuga. Il giorno dopo si svolgono le elezioni che vedono
la vittoria del partito avverso alla Signora guidato da suor Angela Sacchi e
dall’Imbersaga. L’Imbersaga sostituisce suor Virginia nella carica di vicaria,
suor Angela sostituisce la precedente superiora Bianca Caterina Homati in
carica dal 1603. Il giorno dopo l’Osio seppellisce il corpo di suor Caterina
nella sua “neviera” mentre la testa è gettata più tardi nel pozzo di Velate.
Suor Virginia minaccia le monache complici (“mi bravò su la vita”) di fare la
stessa fine se avessero parlato.
Questo omicidio resta segreto perché tutti sono convinti che
la conversa sia fuggita. Nell’autunno del 1606 però le voci sulle irregolarità
del convento si fanno più frequenti anche se pronunciate con “trepidazione,
esitazione e perplessità”, ma anche con un tono “più franco” e “più afflitto”,
come racconta il Ripamonti. Sempre dal Ripamonti sappiamo che il fabbro che
aveva contraffatto le chiavi (forse un certo Cesare Ferrari), parla in giro dei
fatti del convento e viene ucciso dall’Osio, che tenta anche di uccidere
Rainerio Roncino, il farmacista, ma quest’ultimo si salva perché il colpo di
archibugio non va a segno. L’Osio avrebbe voluto uccidere anche il prete
Arrigoni per far smettere tutte le chiacchiere con il terrore, ma suor Virginia
glielo impedisce.
Tutto questo trambusto arriva alle orecchie del governatore
di Milano. Nel carnevale del 1607 l’Osio è arrestato dal Fuentes e incarcerato
a Pavia. L’operazione è condotta con discrezione per non sollevare scandalo, e
non si sa se si riferisce agli omicidi o alla relazione con la monaca. Il 4
luglio l’Osio commette comunque un grave errore: scrive una supplica
all’arcivescovo proclamandosi innocente di tutto e allega una dichiarazione
medica del 5 maggio dove si afferma falsamente che il soggiorno in carcere
avrebbe potuto aggravare la malattia del recluso mettendo in pericolo la sua
vita.
Anche suor Virginia si muove spedendo al Fuentes una lettera
sottoscritta da altre monache per dire che tra l’Osio e il monastero i rapporti
sono corretti.
Il Borromeo, che non sapeva nulla, si mette in allarme e
inizia ad informarsi sull’Osio e su eventuali suoi reati legati alla vita
religiosa di Monza. Lo mettono quindi al corrente delle voci che circolavano
sul monastero di S. Margherita e perciò, tra fine luglio e inizio agosto
1607, eccolo a Monza dove finge di
compiere una normale visita pastorale mentre in realtà esplora la situazione.
Nel monastero conversa con le monache invitando a sistemarsi i capelli quelle
che le avevano in disordine (così narra il Ripamonti fornendo lo spunto al
Manzoni per la ciocca ribelle di Gertrude). Finalmente si arriva al colloquio
riservato con la Signora così descritto dal Ripamonti:
“[si avvicina] con
calma al problema che doveva trattare, sonda l’animo della donna, lo rigira da
ogni parte più per ottenere la confessione di una colpa - qualora ce ne sia
qualcuna - che per biasimarla e accusarla. La ammonisce a ricordarsi della
casata e dei propri natali e anche dei doni che le sono stati dati per grazia
di Dio, come pure a comportarsi veramente come si addice a che è primo quanto a
pietà, modestia e modello di ogni virtù; le ricorda che non solo le suore e le
vergini che risiedono nel suo stesso monastero, ma anche tutto il popolo della
città è attento, tiene gli occhi rivolti al luogo ove essa vive, osserva ed
esamina quanto si può non per malignità o livore, ma perché in realtà è la condizione
di ogni principe a comportare simile attenzione. Egli è abbastanza convinto che
fino a quel giorno tutte le sue azioni sono state innocenti, pure e senza
colpa; del resto, se per caso fossero sorte in seguito delle chiacchiere e
delle voci meno convenienti, sarebbe stata la santità della sua vita a
confutarle. Disse questo e altre cose. L’esito del colloquio fu il seguente:
che da un lato la donna rimase più sospettosa di quanto fosse in precedenza;
dall’altro il Cardinale se ne partì più inquieto e preoccupato di quanto fosse
prima di giungervi”.
Durante questo colloquio, suor Virginia dice al cardinale
che la prigionia dell’Osio potrebbe mettere a rischio il suo onore, ma capisce
che le cose si stanno mettendo male e fa avvertire la famiglia dell’Osio che se
Giovan Paolo fosse tornato a infastidirla sarebbe “stata sforzata farlo sapere
alle mie genti acciò gli facessero una burla”.
Il 28 settembre il fratellastro Luys de Leyva risponde
affermativamente al cardinale che aveva chiesto di alzare il muro del convento.
Nello stesso mese l’Osio fugge (?) dal castello di Pavia e
torna segretamente a Monza e il 6 ottobre Camillo il Rosso, uno dei suoi bravi,
uccide Rainerio Roncino che aveva parlato in giro di strane porcherie che
avvenivano nel convento e che era scampato al precedente attentato. Mettendo
una pistola a casa sua, viene fatto incolpare dell’omicidio il prete Paolo
Arrigone, che è tradotto nell’arcivescovado di Milano. Inizia così il famoso
processo, i cui Atti sono stati recentemente pubblicati dopo molti decenni di
titubanze da parte della Curia milanese.
(Suor Virginia vuol sapere dal fratello Teodoro se è stato
l’Osio ad uccidere il Rainerio, ma questi giura che il fratello in quel momento
era con lui.)
I processi
Il processo contro l’Osio e i suoi complici
Al processo contro il prete Arrigone il portinaio del
monastero, Domenico Ferrari, testimonia a metà ottobre che il vero omicida è il
Rosso su mandato dell’Osio, furioso perché
il Roncino aveva detto in giro che la bambina che viveva con lui era
figlia di suor Virginia. Subito dopo il portinaio e la moglie vengono
licenziati dal monastero per averlo diffamato.
Venuto a conoscenza di queste accuse, l’Osio prima si
nasconde di notte nella vicina chiesa di S. Maurizio, poi dal 1° novembre si
nasconde in convento, prima nella stanza di suor Ottavia e poi in quella di
suor Benedetta. A metà novembre manda fuori dallo Stato (a Verona o a Bergamo)
il suo fedele servitore e “bravo” Giuseppe Pesseno perché non venisse preso e
costretto a confessare.
Le altre suore, vedendo le due complici girare per il
convento con il cibo, si accorgono dell’”ospite” e avvisano subito il cardinale
che il 25 novembre 1607 manda a prendere suor Virginia con la forza
trasportandola di notte a Milano, nel monastero di S. Ulderico al Bocchetto. La
cosa non risultò molto semplice perché, come racconta il Ripamonti, suor
Virginia rompe i legami, elude la sorveglianza e afferrata una spada la
brandisce minacciosa e furibonda e tenta di fuggire. Ripresa, “sbatté il capo contro
la parete e, se non fosse stata disarmata e trattenuta da alcune mani, si
sarebbe colpita da sè”.
E’ forse in questa occasione che si verifica il drammatico
incontro col cardinale narrato dal Ripamonti che forse ha registrato queste
parole dagli appunti del Borromeo e che deve aver profondamente colpito il
Manzoni. Dice infatti il Ripamonti:
“E’ facile comprendere come da quel corpo, da quella bocca e
da quell’animo, insieme alla verginità, se ne fosse andato anche ogni pudore, e
come essa, non più vergine, non fosse degna di stare più a lungo nel novero
delle vergini; e infatti osò dire di essere stata iniziata agli ordini sacri in
modo non conforme alle regole e alle disposizioni; di essere stata chiusa in un
monastero dai suoi contro la propria volontà; di non aver avuta l’età
prescritta quando vi entrò; di non avere avuto gli anni richiesti per la
cerimonia della professione; e quindi che non poteva pronunciare i voti. E
sospinta dalla propria audacia e da una grande arroganza pronunciò in particolare
queste parole: che lei si doveva sposare, e che dovevano darle colui che essa
aveva già prescelto”
Il giorno seguente l’Osio scappa del convento e si rifugia
nei dintorni di Monza. Il 27 novembre iniziano gli interrogatori con quello
della superiora. Il 28 parla il portinaio, la moglie e la vicaria suor
Francesca Imbersaga, nemica di suor Virginia. Il 29 novembre, suor Benedetta
riceve la visita in parlatorio di un certo fattore Damiano (da parte dell’Osio)
che chiede notizie di Virginia. Spaventata dagli interrogatori delle suore
avviati nel monastero, suor Benedetta fa chiedere all’Osio di farla fuggire dal
convento assieme a suor Ottavia. Escono la sera stessa da un buco aperto nel
muro, incontrano l’Osio e si avviano fuori città. Arrivati al ponte sul Lambro
l’Osio tenta di uccidere suor Ottavia buttandola nel fiume e colpendola
ripetutamente con l’archibugio sulla testa. La suora tuttavia riesce a
salvarsi, viene soccorsa e trasportata nel monastero di S. Orsola in Monza dove
però morirà per le ferite il 26 dicembre dopo aver confessato i delitti
commessi. La sera del giorno dopo l’Osio tenta di uccidere anche suor Benedetta
Felice Homata buttandola nel pozzone di Velate presso Vimercate dove si rompe
due costole e il femore. Anche lei viene soccorsa e trasportata al monastero
dove inizia a confessare. Questo duplice tentato omicidio, travisato dal tempo,
si è trasformato in una leggenda secondo la quale l’Osio avrebbe gettato la
monaca o addirittura la Signora nel cosiddetto “pozzo della Spagnola” che oggi
è murato nella cinta del Regio Parco, presso al ponte sul Lambro, nella via per
andare dalla città al convento delle Grazie.
Il 9 dicembre un’ispezione del pozzo di Velate fa saltare
fuori la testa di Caterina da Meda. L’11 dicembre suor Ottavia confessa il
delitto. Il 13 dicembre si scoprono nella neviera dell’Osio gli altri resti di
Caterina, che vengono sepolti a Milano a S. Stefano in Brolo. Lo stesso giorno
vengono carcerate nel monastero anche le altre due complici: suor Candida
Colomba e suor Silvia Casati. L’Osio si rifugia nei territori di Venezia per
sfuggire all’ira del governatore Fuentes che vuole a tutti i costi la sua
testa. Su sentenza del Senato del 19 dicembre la sua casa a Monza viene prima
devastata e poi demolita.
Il 20 dicembre l’Osio scrive una seconda lettera al
cardinale Borromeo, lo ringrazia per l’aiuto prestato quand’era prigioniero a
Pavia, dice che lui e suor Virginia sono innocenti e che la colpa di tutto è
delle due “bestie” - suor Ottavia e suor Benedetta - che lui ha provveduto a “castigare” per conto di Dio, ma dalle
deposizioni raccolte nel processo contro le suore emerge una verità ben
diversa. Il 22 dicembre a conclusione della prima fase dell’inchiesta è
interrogata a Milano suor Virginia che ammette la relazione e l’omicidio
incolpando di tutto l’Osio e il prete Arrigone. Il 2 gennaio 1608 Gian Paolo
Osio è citato per i due tentati omicidi e l’omicidio di Caterina e anche per
aver tentato di incolpare il prete Arrigoni dell’omicidio Roncino. Il 25
febbraio è condannato in contumacia alla forca e alla confisca dei beni.
Camillo il Rosso, Nicolò Pessina detto Panzulio e Aloisio
Panzulio, servi dell’Osio, sono condannati alla decapitazione e alla confisca
dei beni per l’uccisione di Rainerio Roncino. Già scappati oltre il confine,
questi figurano ancora tra i ricercati nel 1614. Una grida del 5 aprile 1608
promette 1000 scudi e la liberazione di quattro banditi se l’Osio è preso vivo,
la metà se è preso morto.
La sentenza prevede inoltre che al posto della casa sia innalzata
una Colonna infame, con base e capitello e sopra una statua della Giustizia in
ceppo gentile. La statua verrà danneggiata da ignoti pochi mesi dopo sollevando
le ire del Fuentes (grida del 23 maggio 1609).
Il 20 giugno 1608 la madre dell’Osio, Sofia Bernareggi, di
84 anni, chiede al Senato di ricevere una sovvenzione pari agli interessi sui
beni confiscati. Le danno invece una fideiussione per 50 scudi.
Secondo il Ripamonti, l’Osio sarebbe stato ucciso a
tradimento nei sotterranei del palazzo del suo amico Taverna che lo aveva
ospitato, oggi palazzo Isimbardi. Secondo un altro racconto sarebbe stato
decapitato a Monza. Il messaggero che portava la testa a Milano si sarebbe
imbattuto nel Fuentes che l’avrebbe buttata a terra e calpestata. In base a
questo episodio (se è vero!) sarebbe morto nel 1609. Sappiamo dai documenti che
nella primavera del 1609 era ancora vivo mentre nel 1613 è ricordato come
defunto.
La Colonna venne tolta il 13 maggio 1613. Il campo era
diventato un ritrovo di giocatori di “ballone, palla e pallamaglio” che
infastidivano le monache scavalcando spesso il muro per recuperare palle e
palloni.
Il processo contro suor Virginia, le suore complici e prete Arrigone
Il processo di Suor Virginia inizia il 27 novembre 1607 con
l’interrogatorio della superiora Angela Sacchi da parte del vicario criminale
Gerolamo Saracino. E’ il primo atto del processo In Causa violationis clausurae deflorationis et homicidii Monialis in
Monasterio Sanctae Margaritae Modoetiae patratorum a Io. Paulo Osio.
Il 22 dicembre suor Virginia compare davanti a Gerolamo
Saracino per il primo dei suoi due “costituti”. Marianna si difende con la tesi
della nullità dei voti e sostenendo che forze diaboliche avevano esercitato su
di lei una forza irresistibile.
Una lettera del 23 febbraio 1608 annuncia che arriverà a
Milano un valente giurista: Marmurio Lancillotti da Spoleto. Era stato
richiesto dal Borromeo forse per poter avere la sentenza da una persona non
influenzabile dalle famiglie milanesi coinvolte nel processo. Più probabilmente
viene chiamato perché era emerso un sospetto di eresia da parte del prete
Arrigone per la storia della calamita e ciò comportava un intervento del
Sant’Uffizio. Il nuovo giudice poteva cumulare sia il processo ordinario di
competenza vescovile sia quello di competenza dell’inquisizione.
Dal 19 febbraio al 27 marzo 1608 si svolgono gli
interrogatori del prete Paolo Arrigone dal parte di Gerolamo Saracino che poi
passa l’incarico al Lancillotto che riprende gli interrogatori il 22 maggio con
suor Candida Colomba che conferma le accuse anche sotto la tortura dei sibilli
(per 15 minuti). Il 31 maggio chiede di interrogare suor Virginia al Bocchetto
ed eventualmente di sottoporla per un periodo di due Miserere alla tortura dei sibilli, legnetti sistemati tra le dita
delle mani giunte. L’interrogatorio è del 14 giugno. L’imputata in questo caso
deve solo confermare sotto tortura le dichiarazioni già rese contro il prete.
Interroga nuovamente e ripetutamente Paolo Arrigone, sottoponendo alla tortura
anche il portinaio (12 giugno, tortura della corda) e la moglie (23 giugno, sibilli per tre Miserere e più)
che devono soltanto confermare anch’essi le accuse già pronunciate contro il
prete.
La sentenza viene ponderata da luglio fino al 18 ottobre 1608.
Il 18 ottobre, letta la sentenza, Virginia è condotta nel ricovero delle
convertite di S. Valeria per essere murata in una cella. Nella sentenza le
colpe di Virginia non sono esplicitate, ma vengono sintetizzate come “plurima
gravia, et enormia, et atrocissima delicta, de quibus omnibus in processu
contra eam.” Il Ripamonti dice che suor Virginia accoglie questa decisione
“come un graditissimo dono”.
Il 18 ottobre 1608 è emessa la condanna di Paolo Arrigone a
tre anni di triremi (“e che remi effettivamente!”) condanna mite per via della
prigione già scontata dall’imputato. Al suo ritorno dovrà risiedere almeno 15
miglia lontano da Monza. La sentenza viene notificata il 27 gennaio 1609.
Il 27 luglio 1609, a conclusione del processo è emessa la
sentenza contro le altre suore (Benedetta, Candida e Silvia) condannate ad essere murate vive a vita nel convento di S.
Margherita. Nei giorni precedenti (23 e 24 luglio) erano state interrogate
altre suore alla ricerca di eventuali complici.
La liberazione
Il 25 settembre 1622, dopo 14 anni di segregazione, suor
Virginia esprime il suo pentimento e può uscire dalla cella dov’era stata
murata. Probabilmente anche le sue compagne prigioniere nel monastero di Monza
sono liberate in questo stesso periodo.
Appena uscita, resta muta e solitaria. Chiede solo di
parlare con il Borromeo, che dopo molte insistenze da parte delle suore di S.
Valeria, acconsente a vederla e incontrandola la apostrofa con queste durissime
parole:
“E così dunque, femmina spudorata, non ti vergogni di
presentarti al tuo pastore? E così dunque tu, infame, osi anche stare davanti
ad un presule? Tu, del tutto indegna di stare sulla terra, degna piuttosto di
ogni supplizio, degna di essere rinchiusa tra due pareti, finché sei viva, come
pure di essere sepolta all’inferno, una volta morta. Di’ sù, di’ chiaramente
una buona volta se sei proprio quella stessa che in passato era tanto potente!
Non sei stata abbastanza punita sino ad ora? Desideri ancora che si faccia
ricorso a carceri più strette, che ti siano comminati supplizi più severi? Che
vuoi, femmina miserabile? E stai attenta a non alzare gli occhi impudichi,
indegni di fruire e di godere la luce”. (Carlo Marcora, La biografia del cardinal Federico Borromeo scritta dal suo medico
personale G.B. Mongilardi, Memorie storiche della Diocesi di Milano, vol.
XV, Milano 1968, pp. 190-191)
Il racconto di Giovanni Battista Mongilardi, medico biografo
del Borromeo, dice che suor Virginia pronunciò poche parole di pentimento, il
Borromeo la stava scacciando quando vide le sue vesti lacere e allora cambiò
tono e la consolò.
Il Ripamonti si dilunga molto su questo incontro. E’
interessante di questo racconto ciò che Virginia dice al cardinale sulle sue
esperienze spirituali:
“... avvertiva di essere sospinta dalla grazia divina e
vedeva alcune cose divine, ed era indubbiamente preda di quei moti e delle
agitazioni che sono soliti verificarsi quando l’anima si è sciolta dalla
comunanza col corpo e si innalza al cielo in atto contemplativo. Diceva di aver
visto le specie celesti, di aver spesso udito voci superiori alle umane e
aggiungeva altre cose simili, certamente vere, ma che egli [il Borromeo]
sospettava trattarsi di scherni, arti e inganni dei demoni.” [Dandolo, pp.
154-55]
Il Borromeo, prima molto sospettoso, dopo frequenti visite a
suor Virginia, le commissiona lettere edificanti ad alcune suore pericolanti.
Ci restano due di queste lettere assieme ad un certo numero di biglietti
spediti dalla penitente al cardinale. Nella lettera del 9 dicembre 1625 che si
dice fosse indirizzata a una suora del Lentasio, suor Virginia ci parla della
sua prigionia come “la caritativa et santa medicina delle mie piaghe” e così la
descrive “io sono delle maggiori peccatrici del mondo, cloaca veramente
puzzolente alle nari de Iddio, et per li miei peccati ha voluto la giustizia
del Signore che sia stata posta in un carcere di braccia tre larga, et di
lunghezza de cinque et murata la porta et finestra in tale modo che non vedeva
se non tanto spiracolo bastante appena per dire l’offitio. Priva di ogni
conforto humano colma di calamità, et disagi et anco infirmità insieme, de
quali anche in quel stato, senza alcun mezzo de homini, la bontà d’Iddio
incomprensibile mi ha de molto risanata, che se potessi narrarle a viva voce il
tutto, si stupirebbe et farebbe grandissimo cuore in Dio. In questo carcere
sono vissuta anni tredici.”
I tredici, anzi quattordici, durissimi anni di segregazione
la resero soggetta a forti emicranie delle quali così si lamenta nella chiusa
dell’altra lettera del 19 dicembre 1626: “Prego V.S. raccomandarmi al Signore
in particolare per il gran male che patischo nel cervello, che in estremo mi
afflige.”
La conversione della penitente alla fine viene ritenuta
autentica dal cardinale che pensa di scrivere la sua biografia. Achille Ratti
nel 1912 ha pubblicato un inedito appunto del Borromeo che delinea con queste
poche parole la sua esistenza tormentata:
Per il libro philagios [da inserire in una
riedizione del libro del Borromeo intitolato Philagios - Amore della virtù]
Di suor Virginia penitente
Vitae
progressus et malitiae
Casus sed moderati
Tentamenta divina
Inter
caetera perpetuus stimulus numquam amissus
Poena, confessio et illuminatio
Carcer
Vita et experta divina
Diaboli tentamenta
Lachrymae non a natura
Gradus
humilitatis
Dilectio et
obedientia superiorum
Cessatio
tentationum
Epistolae
scriptae et exemplaria epistolarum
Paupertas
summa
Egritudines diuturnae et cum periculo magno
Omnia dona celestia credit superiorum merito habere
Esiste anche una lettera del Borromeo del 21 giugno 1627
nella quale si accenna a suor Virginia definendola “uno specchio di penitenza”.
Nel 1640, data di composizione della sua Storia, il Ripamonti descrive così la
penitente: “vecchia ricurva, emaciata, magra, veneranda; al vederla si
crederebbe a malapena che un tempo abbia potuto essere bella e spudorata”.
Negli ultimi anni della sua vita - l’8 novembre 1646 -,
durante le trattative da parte della città di riscattare la contea di Monza in
vista dell’estinzione della famiglia de Leyva, Marianna scrive su richiesta
questa nota sui membri della sua famiglia:
“Don Antonio de Leyva fu governatore di questa città ebbe un
figliolo chiamato don Luis che sucese principe d’Ascolli il quale ebbe cinque
figli maschi don Antonio don Martino mio padre don Giovanni don Francesco e don
Filipo con una figlia maritata nel marchese Masimiliano di Soncino che si fece
poi capucino.
Don Antonio sudetto come magiore sucese principe et ebbe un
sol figlio che fu nominato per nome d’ Luiso il quale è statto padre dil
Principe se pur vive chiamato il dilatando e Don Pietro e don Luis mio fratello
[non è citato l’altro fratello Antonio, morto nel 1611]. Don Luis, Conte di
Mora [Monza?] è castellano de Lovo in Napoli già sta in ciello l’altro fratello
Don Hieronimo dicono esser Vicere in Sicilia se pur vive.”
L’operazione della città tuttavia non va in porto e così nel
1648 la contea di Monza viene acquistata dai Durini che la terranno fino
all’epoca napoleonica.
L’epilogo di tutta la vicenda è davvero gelido. Nel libro
mastro di S. Valeria si trova scritto: “1650, adì 7 genaro, devono le sudette
per alimenti douti alla sudetta sor Verginia Maria Leva sino adì sudetto che è
pasata a megliora vita = in credito al entrata a fo. 380 l. 39.”
Link: Biografia
Profilo astrologico
Il personaggio manzoniano
Bibliografia
AA. VV., Vita e
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Casati, Carlo, Nuove
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Castegnaro, Alberto, Di
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Ciceri, Piero, Gian
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Dandolo, Tullio, La
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Farinelli, Giuseppe e Paccagnini, Ermanno, Vita e processo di Suor Virginia Maria de
Leyva monaca di Monza, Milano, Garzanti 1989 [Ristampa parziale
dell’omonimo volume del 1985]
Gervaso, Roberto, La
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Griechi, Gianfranco, Gertrude
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Locatelli-Milesi, Achille, La Signora di Monza nella realtà, Milano, Treves 1924
Maggi, Raffaello, Volto
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Manzoni, Alessandro, Fermo
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Manzoni, Alessandro, I
promessi sposi, capp. IX-X, in Tutte
le opere, Firenze, Sansoni 1988, vol. I, pp. 688-708; 785-786 [Leggi il testo]
Marchi, G. Paolo, Per
la monaca di Monza e altre ricerche intorno a Manzoni, Libreria Editrice
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Marcora, Carlo, La
biografia del cardinal Federico Borromeo scritta dal suo medico personale
Giovanni Battista Mongilardi, “Memorie storiche della Diocesi di Milano”,
vol. XV, Milano 1968
Mazzucchelli, Mario, La
Monaca di Monza (Suor Virginia Maria de Leyva), Milano, Dall’Oglio 1961
Mazzucchelli, Mario, Raffronto
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Congresso Nazionale di Studi Manzoniani, 7/10 ottobre 1961, Lecco, Annoni,
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La monaca di Monza. Il
processo nella trascrizione del Dandolo e il racconto del Manzoni per Fermo e
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Pagani, Gentile, Storia
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Ripamonti, Giuseppe, Historiae
patriae, dec. V, liber sextus, cap. III, Mediolani, Apud Jo Baptistam et
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Rosini, Giovanni, La
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Testori, Giovanni, La
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Zerbi, Luigi, La
Signora di Monza nella storia. Notizie e documenti, Milano, Bortolotti 1890
(Brera Misc. Manz. B 6/14)
Zerbi, Luigi, L’Egidio
dei “Promessi Sposi” nella famiglia e nella storia. Notizie e documenti,
Como, Luzzani 1895 (Brera Misc. Manz A 6/4)
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