Sul compiere del VI secolo Secondo, religioso romano nativo
della valle di Non, si mostrò alla curtis ducis di Trento. Il monaco,
con tutta probabilità, intervenne alla spedizione in Francia del vescovo
Agnello che aveva avuto lo scopo di ricondurre in patria alcuni prigionieri di
guerra. La fama delle buone relazioni diplomatiche del monaco lo portò al
servizio del duca Ewin, il quale desideroso di riconfermare la pace con i
franchi, in nome dei suoi sovrani, ottenne una nuova ambasceria che ebbe buoni
risultati.
La regina Teodolinda, sorella
della duchessa, soddisfatta dei frutti conseguiti, volle questo monaco presso di
sé. Secondo assunse in breve tempo il ruolo di primo consigliere alla corte di
Monza. Scaltro e di un’intelligenza notevolmente superiore a quella degli
altri frequentatori del palazzo reale, seppe imporsi nel potere temporale per
tramite della volontà della sua signora Teodolinda. Ben presto, poiché l’arcivescovo
di Milano si trovava in esilio in Genova, cavalcando lo scisma dei tre capitoli,
divenne anche il primo riferimento religioso dell’Italia longobarda. La figura
di Secondo di Non deve essere stata assai vicina a quella più tardi assunta in
Francia dal Richelieu e dal Mazzarino.
Doveva essere già presente in Milano dal principio degli
anni novanta del sesto secolo se il papa, in una lettera al vescovo Costanzo,
definisce Teodolinda "figlia nostra", mentre alludendo a
Secondo di Non aggiunge "traviata poco a poco dalle parole d’uomini
malvagi".
Nella lettera del settembre del 593 che doveva essere
consegnata dal vescovo Costanzo alla regina, papa Gregorio rincara la dose:
"Ci è stato riferito che la vostra gloria è stata
indotta da alcuni vescovi a un errore, nei confronti della Chiesa, tale da
indurvi a escludersi dalla comunità cattolica. Per questo motivo, quanto più
ci siete cara, a maggior ragione ci lamentiamo di voi, perché date retta a
uomini sciocchi e inesperti, che non solo non sanno quello che dicono, ma a mala
pena riescono ad intendere ciò che ascoltano.
Dicono infatti che al tempo di Giustiniano, la cui memoria è
santa, sia stato stabilito qualcosa contro il concilio di Calcedonia. Costoro,
finché non si documentano, né danno retta a chi si documenta, rimarranno nella
stessa sbagliata convinzione che si sono fatti di noi. Noi infatti d’innanzi
alla nostra coscienza dichiariamo che nulla è stato modificato, nulla è stato
è stato violato dei principi di fede del santo concilio di Calcedonia. Anzi,
qualunque cosa sia stata fatta al tempo di Giustiniano, è stata fatta proprio
perché questi principi di fede non fossero traditi in alcun modo.
Se, dunque, qualcuno pretende di affermare o di conoscere
qualcosa contro i principi di fede di quel concilio, noi lo malediciamo sotto
minaccia di scomunica. Pertanto, quando voi conosciate l’onestà delle nostre
dichiarazioni, espresse di fronte alla nostra conoscenza, non vi è alcun motivo
per il quale voi vi separiate dalla Chiesa cattolica, in modo da non sprecare le
tante vostre lacrime e le tante buone opere, se risulteranno estranee alla vera
fede.
Sarà quindi degno della vostra gloria affidarsi al più
presto al generabilissimo fratello, nonché mio collega in episcopato, Costanzo,
la cui fede e la cui vita in passato hanno dato buona prova di sé ai miei
occhi; e con le lettere personali lo informiamo d’accogliere con gran favore
la sua ordinazione e che non vi separiate in alcun modo dalla comunione con la
sua diocesi. Credo comunque che sia superfluo dirvi queste parole, in quanto, se
anche permane qualche dubbio nel vostro animo, ritengo sia stato chiarito dal
mio figlio, l’abate Giovanni e dal notaio Ippolito, prossimi a giungere presso
di voi " (Gregorio Magno RE IV-4).
Costanzo non fece mai avere la lettera a Teodolinda e della
mancata consegna informò lo stesso Gregorio che capì le ragioni del vescovo.
Non abbiamo notizie d’ulteriori missive sostitutive, anche se sul piano
diplomatico i rapporti con il papato rimasero ottimi, tuttavia Teodolinda nel
continuare l’opera di conversione e diffusione del cristianesimo accettava
consigli solo da Secondo. Questo rapporto è confermato nel momento della morte
del vescovo Costanzo, in Genova dove era rimasto in esilio, quando da Milano
arrivò una lettera di re Agilulfo tesa a condizionare l’elezione del nuovo
vescovo con la minaccia di confiscare i redditi che il clero milanese, pur in
esilio, manteneva nei territori longobardi. La lettera era una manovra di
palazzo nata in ambienti tricapitolini capeggiati da Secondo e da Teodolinda.
Più tardi, durante la pasqua del 603, in Brianza ebbe gran
risonanza il battesimo d’Adaloaldo, figlio dei sovrani, celebrato con rito
cattolico da Secondo di Non, nella chiesa di San Giovanni di Monza.
"In quell’anno Gaidoaldus, duca tridentino, e
Gisulfus, di Cividale, entrambi già in discordia con Agilulfo, ottennero da lui
la pace. Allora fu anche battezzato Adaloald, figlio di re Agilulfo, nella
chiesa di San Giovanni in Monza, ricevendolo al fonte battesimale quel Secondo
di Trento, servo di Dio, di cui avevamo altre volte parlato. La Pasqua di quell’anno
cadde il sette aprile" (HL IV-27).
Al fatto seguì una lettera della regina indirizzata al papa,
allegata alla missiva vi era pure la richiesta di alcuni chiarimenti teologici
da parte di Secondo di Non. Nella risposta Gregorio non esiterà ora a definire
Secondo "dilettissimo figlio", e continua "chi potrebbe
pensare di trascurare la richiesta… per indurci a rispondere dettagliatamente
ai quesiti", ma poco dopo, già gravemente malato, papa Gregorio Magno
passa a miglior vita.
La conseguenza alla morte dell’anziano pontefice romano fu
l’inasprirsi dello scisma dei Tre Capitoli che coinvolgeva pressoché tutti
gli abitanti della Longobardia, privi di una guida religiosa sicura. La
congiuntura s’infiammò nel 606, quando in Grado, nella nuova sede, muore
anche il patriarca d’Aquileia. Smaragdo, esarca di Ravenna collocò sulla
cattedra Candidiano, molto sgradito ai tricapitolini. Negli ambienti che
facevano riferimento a Secondo e alla regina Teodolinda si sviluppò la
decisione di anteporre ad antipatriarca l’abate Giovanni, che andò a prendere
possesso della carica nella veneranda sede di Aquileia. Intanto alcuni vescovi
tricapitolini dell’Istria subivano da Candidiano, appoggiato dall’esarca di
Ravenna, grandi soprusi ed innumerevoli insulti (MGH, ELC 1).
Una favola vuole che in quel tempo Secondo appoggiò sulla
cattedra milanese il vescovo tricapitolino Frontone, ma il nuovo presule,
essendo eretico, per punizione divina sprofondò e venne inghiottito in una
voragine apertasi fuori Porta Romana a Milano.
Proprio in questo periodo, ricco d’avvenimenti, Secondo di
Non scrisse un’importante opera nota come la succinta Historiola de
Langobardorum gestis; di questo rilevante documento storico si è persa ogni
traccia, tuttavia esso rivive in parte tra le righe dell’Historia di
Paolo Diacono. Le frazioni dove l’influenza dello scritto di Secondo di Trento
è più evidente si possono rintracciare nei libri II e III e nella prima parte
del IV. Alcuni recenti studi sull’uso dei verbi all’interno dell’opera di
Paolo Diacono, hanno dimostrato come in quei libri lo storico si limiti a
trascrivere direttamente da altra fonte, senza evidenti interpolazioni, segno
dell’importanza dell’opera precedente, tanto che oggi saremmo in grado di
descrivere parte del contenuto di quell’opera senza averla mai letta.
Il famoso storico di Cividale vi trasse molte notizie sul
periodo monzese dei sovrani e forse anche sui possessi che questi avevano donato
a vari enti religiosi. La descrizione del trentino e dell’epoca di Teodolinda
si devono considerare principalmente frutto dell’opera di Secondo di Non (HL
II-32; HL III-16, soprattutto l'ultimo paragrafo). Tuttavia il potente
consigliere non fa cenno dell’importante disfatta che i longobardi avevano
inflitto ai franchi e di questo si stupisce anche Paolo: "Se mai
meraviglia che Secondo, autore di un’operetta sulle gesta dei longobardi,
abbia tralasciato una loro così grande vittoria" (HL III-29).
In ogni caso il Diacono la definisce un’opera limitata, ma
qui non necessariamente deve intendersi con riferimento ai fatti narrati, ma
verosimilmente al periodo esaminato. Secondo di Non muore verso il 612, dunque
non poteva che avere per oggetto un quarto della storia del regno longobardo d’Italia.
L’opera di Secondo si può considerare come la più antica
e autentica fonte longobarda scritta in Italia.
In seguito al raggiungimento della pace, con l’impero ed il
papato in crisi, Agilulfo e Teodolinda erano ora liberi di dedicarsi alle
esigenze del loro regno, passando le estati della loro vita nello stupendo
palazzo monzese.
"Il re Agilulfo stipula con l’imperatore una pace
della durata di un anno, quindi la rinnova per un altro anno, come rinnova anche
la concordia con i franchi" (HL IV-40).
In quest’ambiente, maturò nei sovrani la convinzione di
porre fine allo scisma dei Tre Capitoli. Secondo di Non, primo consigliere
religioso dei sovrani, già vecchio e malato, era uscito di scena. Molti del
partito tricapitolino dovettero trovare quindi altri sostenitori, e
probabilmente li cercarono nella famiglia reale. Gundoaldo, fratello di
Teodolinda, fu quasi certamente il nuovo riferimento dei tricapitolini. Una
scelta questa pericolosa per lo stesso trono d’Agilulfo e Teodolinda, poiché
anche Gundoaldo poteva vantare una diretta discendenza dalla stirpe di Leth.
Paolo Diacono riassume così le seguenti vicende:
"Nel mese di Marzo morì vicino Trento il servo di
Dio Secondo, di cui spesso abbiamo parlato, autore di una succinta storia dei
Longobardi fino ai suoi tempi. Gundoaldo, duca d’Asti e fratello della regina
Teodolinda, morì colpito da una freccia né si poté sapere mai da chi fosse
stato ucciso" (HL IV-40).
Era forse la "beata" Teodolinda la mandante?
Ultima modifica: martedì 14 gennaio 2003
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