Antonio Boggia,
il mostro della via Bagnera
di Mauro
Colombo
L'inizio
dell'orrore: il caso Perrocchio
Il
26 febbraio 1860 Giovanni Maurier, coniugato con prole, abitante nel sobborgo
facente parte della parrocchia di San Cristoforo al naviglio, di professione
pittore decoratore presso la Richard ceramiche si presentò negli uffici del
Tribunale civile e criminale provinciale di Milano per denunciare la scomparsa
della madre Ester Maria Perrocchio, vedova, ultrasettantenne, abitante al
secondo piano di un caseggiato, totalmente di sua proprietà, sito in via Santa
Marta al n. 10 (2824 della numerazione teresiana).
Inizia
così la terribile storia, costellata di agghiaccianti omicidi, di Antonio
Boggia, che passerà alla storia come il mostro della via Bagnera.
La deposizione di
un figlio disperato
Secondo
la denuncia presentata, tutto ebbe inizio l'anno precedente, quando il Maurier,
recatosi una mattina a far visita all’anziana madre, non l'aveva trovata,
nonostante le ricerche, né in casa né nella vicina chiesa di San Giorgio al
Palazzo, di cui era parrocchiana.
Dai
custodi del caseggiato, i coniugi Trasselli, aveva finalmente appreso che la
donna era partita qualche settimana prima, lasciando detto che si sarebbe recata
sul lago di Como. Il Maurier dichiarò che non s'era all'epoca insospettito più
di tanto, ben conoscendo infatti le stranezze della madre, con la quale, come
egli stesso sottolineò, non correva propriamente buon sangue. Pertanto l'uomo
se ne era ritornato a casa, ripromettendosi di tornare la settimana seguente.
Tuttavia,
poiché anche la seconda visita si era rivelata un ulteriore buco nell’acqua,
il figlio della Perrocchio aveva iniziato a pressare con precise e insistenti
domande i Trasselli. Questi, o non sapevano, o
fingevano di non sapere, in ogni caso non lo avevano aiutato di certo a
venire a capo della faccenda. Risultava solo che la donna era sparita da troppo
tempo e senza lasciare traccia di sè.
Unico
indizio, il suo nuovo uomo di fiducia, il capomastro Antonio Boggia, abitante in
via Nerino, che a detta degli inquilini era da parecchio tempo in gran
confidenza con la proprietaria. Lo aveva conosciuto, gli dissero, quando aveva
cercato nella contrada un buon muratore per eseguire piccoli lavori di
manutenzione al caseggiato, ed in breve tempo era diventato il suo
amministratore.
Da quando poi la donna era partita, il Boggia si era messo a fare il bello e il
cattivo tempo, aumentando gli affitti, eseguendo lavori nel palazzo, e facendo
sparire i gatti che abitavano in cortile, pare l’unica vera consolazione
dell’anziana signora.
Il
Maurier, che sentendo questi racconti era rimasto sbalordito, raccontò in
Tribunale di come avesse rintracciato l’uomo, dal quale, tuttavia, aveva
genericamente appreso che la madre era in vacanza dalle parti di Como, e che lui
amministrava il palazzo secondo le istruzioni che riceveva per lettera dalla
donna stessa. A prova di ciò aveva mostrato, appunto, alcune missive, anche
recentissime.
Rassegnatosi
alle stranezze della madre, Giovanni Maurier aveva infine rinunciato ad ogni
ulteriore indagine, in considerazione anche del fatto che una sua iniziale
denuncia presso la Questura non aveva sortito alcun effetto, poiché il Boggia,
convocato negli Uffici di San Gottardo, aveva spiegato di essere regolarmente
munito di mandato con rappresentanza per gestire l’immobile, e che degli
screzi tra madre e figlio non poteva essere al corrente.
Il
racconto del Maurier si fece più interessante quando narrò il seguito, cioè
del giorno in cui Antonio Boggia e un suo aiutante gli avevano fatto visita per
sottoporgli un’interessante proposta: poiché la madre aveva deciso di
affittare il palazzo per un lungo periodo di tempo ad un unico conduttore,
avrebbe lasciato in comodato all’unico figlio l’appartamento del secondo
piano, quello da lei abitato, visto che, per il futuro, avrebbe risieduto
definitivamente sul lago di Como.
Il Boggia lo aveva di conseguenza invitato a seguirlo presso il notaio rogante
l’atto, sia per acconsentire al comodato, sia per ricevere il canone annuo
d’affitto anticipato che il conduttore avrebbe versato.
Il
Maurier ammise durante la deposizione che, per leggerezza e forse per cupidigia,
da quel momento aveva smesso di sospettare del Boggia, felice del fatto che la
madre si fosse finalmente rinsavita e che a suo modo, forse, avesse deciso di
farsi perdonare.
Tuttavia la contentezza del Maurier per quel colpo di fortuna insperato si era
dissolta quando presso lo studio del notaio Cattaneo, dopo aver concluso
l’atto, apprese che questi aveva in precedenza conosciuto la Perrocchio,
esattamente il giorno in cui si era presentata col Boggia per rilasciargli la
procura, e che il pubblico ufficiale insospettitosi della scarsa lucidità
mentale della donna e fiutando una circonvenzione di incapace, si era rifiutato
innanzitutto di rogare la procura, poi aveva cacciato il Boggia e aveva
addirittura presentato richiesta alla pretura mandamentale perché si iniziasse
un procedimento di interdizione. Purtroppo questo era stato prontamente
archiviato, non appena si seppe che la interdicenda, come sostenuto dal suo
amministratore, era ormai residente in Como, fuori della competenza quindi del
tribunale milanese.
Questi
i fatti narrati dal Maurier, fatti che al giudice Crivelli, cui venne affidata
l'istruttoria, dovettero apparire molto gravi e circostanziati.
Il Boggia,
timorato di Dio
In
seguito alla denuncia del Maurier, venne formalmente aperto un fascicolo a
carico di Antonio Boggia. Questi era nato il 23 dicembre 1799 a Urio, sul lago
di Como, paese che aveva però definitivamente abbandonato nel 1818. Dopo un
passato di piccolo imprenditore edile a Milano, aveva conosciuto il fallimento e
si era per questo rifugiato in Piemonte. Anni dopo aveva fatto ritorno in città,
dove aveva preso alloggio prima in via Montenapoleone, poi in via Nerino, e ivi
abitava, vedovo e con dei figli.
Sbarcava il lunario facendo il muratore, o arrangiandosi con piccoli lavoretti
di carpenteria. Aveva per un breve periodo prestato anche servizio a palazzo
Cusani, sede del comando militare austriaco, come addetto all’accensione delle
stufe e partecipava saltuariamente a vendite all’asta, dove godeva di una
certa reputazione. Frequentava assiduamente la chiesa di San Giorgio al Palazzo,
e i vicini lo giudicavano un bravo cristiano timorato di Dio, sempre pronto a
darsi da fare per il prossimo.
A prima vista nulla di sospetto, insomma, ma in archivio venne trovata a suo
carico una vecchia denuncia per tentato omicidio, a danno di un certo Comi,
anziano contabile.
Dalla
vecchia denuncia risultava che il 3 aprile 1851 il Boggia aveva invitato il
pover’uomo, con la scusa di farsi controllare dei conti, presso un suo piccolo
magazzino, sito nella stretta Bagnera (tutt’ora esistente, ma dal 1865
ribattezzata col più moderno termine di "via"). Mentre quello era
chino sullo scrittoio, il Boggia gli aveva assestato un forte colpo di scure in
testa, tramortendolo. L’uomo, riavutosi, aveva avuto la forza, benchè
sanguinante, di scappare in strada, inseguito dal Boggia inferocito.
Fortunatamente aveva incontrato nelle vicinanze un suo conoscente della guardia
di finanza, che lo aveva soccorso e fatto arrestare il Boggia.
Questi all'epoca era stato giudicato in stato di follia, e quindi rinchiuso nel
manicomio della Senavra, dove fu sottoposto a cure mediche e rilasciato dopo
pochi anni.
Il Comi fu poi ascoltato durante il processo contro il Boggia, e la sua
deposizione convinse tutti che quella volta, forse, la follia c'entrava poco.
Le indagini si
fanno serrate…
Il
Boggia, benché interrogato pressantemente e messo di fronte alle sue presunte
responsabilità, si chiuse in un mutismo esasperante, trincerandosi dietro a
tanti "non ricordo", "non so", "oh la mia povera
testa". Ma ascoltando i portinai di Santa Marta, finalmente il giudice
Crivelli cominciò a vederci un po' più chiaro. Il
Trasselli ricordò di aver visto l’ultima volta la Perrocchio il giorno
in cui il Boggia si era presentato di buon mattino per aggiustare il tetto dello
stabile. Più tardi il capomastro gli aveva chiesto, per certi lavori, di
portare al primo piano alcuni secchi d’acqua.
Una vicina ricordava l’accaduto, e disse di aver visto il giorno dopo il
Boggia andarsene giù per le scale con una grossa gerla sulle spalle.
Fu
subito disposta una perquisizione del caseggiato, per sostenere
l’agghiacciante ipotesi: il Boggia avrebbe ucciso quella stessa mattina la
Perrocchio, poi l’avrebbe seppellita nel palazzo (impossibile che si fosse
aggirato per la città con un cadavere sulle spalle) e successivamente, con
falsa procura, avrebbe amministrato il palazzo.
Le
ricerche sul posto diedero i loro frutti: il corpo ormai decomposto della
disgraziata, mutilato delle gambe e della testa, venne rinvenuto nascosto nel
sottoscala, dove era stato abilmente murato. Il Boggia venne condotto sul luogo
del ritrovamento, riconobbe la Perrocchio e ammise l'omicidio. Confessò che
questo era avvenuto nell'appartamento della donna, utilizzando una scure, e il
sangue era stato lavato grazie all'acqua fornita dal portinaio, comunque
all'oscuro di tutto.
Il Boggia aveva poi frugato nell'appartamento, dove aveva trovato alcuni oggetti
d'oro, rivenduti poco dopo ad un commerciante di preziosi. Nei giorni successivi
all'efferato omicidio, calmatesi le acque, aveva diabolicamente organizzato la
messinscena seguente. Si era impunemente recato con due amici da osteria in
qualità di testimoni presso il notaio Cattaneo, in compagnia della madre di uno
dei due, e presentandola come la signora Perrocchio, desiderosa di rilasciare al
capomastro un mandato con rappresentanza per amministrare tutti i suoi averi.
Scacciati dal notaio che aveva però sentito puzza di imbroglio (essendosi
quella donna tradita più volte davanti ad alcune domande del notaio) si erano
presentati alcuni giorni dopo dal dottor Bolza, notaio in Como, questa volta in
compagnia della cugina del Boggia, facendola passare (finalmente con successo)
per la signora Perrocchio.
Per tenere poi in piedi la truffa, nei mesi seguenti il Boggia aveva fatto
scrivere da uno dei due compari, impiegato calligrafo al tribunale, false
lettere di ordini a firma della defunta, per tacitare i sospetti del
figlio e degli inquilini.
Ma
la storia era finita. O meglio, la storia della Perrocchio, perché il Boggia
sulla coscienza aveva altri omicidi.
Gli altri crimini
Il giudice
Crivelli, proseguendo nelle indagini, dispose un sopralluogo nel locale della
stretta Bagnera, dove furono trovate le false lettere della Perrocchio e il
mandato a rappresentarla.
Tra le carte
custodite in uno scrittoio, saltarono fuori altri due mandati rilasciati al
Boggia: il primo da un certo Serafino Ribbone, l'altro dal ferramenta Meazza.
Inoltre, mettendo insieme vecchie denunce e tenendo in debito conto le
dichiarazioni spontanee di alcuni testimoni, si appurò che un commerciante,
scomparso ormai da qualche anno, negli ultimi giorni era stato visto confabulare
col Boggia di certi affari. Quest'ultimo, naturalmente, negava tutto,
lamentandosi delle ingiustizie che era costretto a subire, diceva, per vendetta
del notaio Cattaneo, che gli serbava rancore dalla volta in cui si era rifiutato
di predisporre la procura della Perrocchio.
La prima vittima
Dalla più
datata procura ritrovata nel magazzino della Bagnera, gli inquirenti appresero
innanzitutto che tale Angelo Serafino Ribbone, manovale, aveva incaricato, nel
lontano 1848, il bravo Boggia, precedentemente suo datore di lavoro, di recarsi
presso una sua parente sul lago di Como, per farsi restituire 1.400 svanziche
che questi aveva lasciato in deposito.
In verità, ben
due procure risultavano rilasciate dal Ribbone, dato che il primo mandato
generale, rogato dal notaio Gaslini di Milano,
non era stato ritenuto valido, e la cugina del Ribbone si era
inizialmente rifiutata di consegnare i soldi custoditi al Boggia. Solamente con
un secondo mandato, questa volta speciale e rogato dal notaio Terzaghi di Lodi,
la donna si convinse a consegnare il denaro
(ma dopo essersi informata e ottenuto il parere favorevole di un pretore
circa la validità dell'atto stesso). Pare che il Boggia l'avesse poi
rassicurata, raccontandole che quei denari occorrevano al Ribbone per sposarsi
in quel di Lodi.
Naturalmente,
mai il povero Serafino Ribbone aveva incaricato Antonio Boggia di effettuare
tale prelievo. Probabilmente, e con un pizzico di ingenuità, egli lo aveva solo
reso partecipe della piccola fortuna accumulata e depositata presso la cugina,
dopodiché al resto ci pensò il Boggia: lo aveva ucciso attirandolo nel suo
solito magazzino degli orrori con una scusa, si era procurato un amico disposto
a spacciarsi per il Ribbone, due soliti compari falsi testimoni, e innanzi a ben
due notai aveva ottenuto il mandato onde carpire i denari del poveretto.
La seconda vittima
Non aveva invece
dovuto scomodare notai e testimoni per derubare la sua seconda vittima, il furbo
Boggia. Gli era bastato frequentare le aste pubbliche, ed addocchiare un
benestante mediatore di granaglie, tal Marchesotti.
Questi,
avvicinato presumibilmente dal Boggia proprio durante una sessione d'asta,
doveva essere stato attirato in trappola con una storiella di facili guadagni,
per ottenere i quali era però necessario un capitale iniziale di 4.000
svanziche. Si deve credere che il Boggia fosse molto astuto e preparato, se
poteva convincere della bontà di un affare un uomo esperto e navigato come il
Marchesotti, che sulla piazza non era l’ultimo arrivato.
Unica certezza
era che del mediatore si erano perse le tracce il 15 gennaio 1850, una sabato,
quando di buon’ora era uscito di casa, dalle parti di San Marco, con in tasca
i denari occorrenti ottenuti in prestito il giorno prima da un conoscente, per
recarsi all'appuntamento d'affari. Testimoni lo videro quella mattina in
un’osteria di Ponte Vetero, in compagnia del Boggia, poi entrambi si erano
allontanati assieme.
Nei giorni seguenti erano state presentate due denunce: la prima dell'anziana
madre, in pensiero per il figlio scomparso, e la seconda da tal Castiglioni, che
aveva prestato i soldi al Marchesotti senza poi esserne tornato in possesso come
pattuito.
All'epoca il
tutto era stato presto archiviato, essendosi creduto che l’uomo fosse
deliberatamente fuggito da Milano coi soldi.
La terza vittima
Nel 1851 il
Boggia era entrato in contatto con il fabbro Pietro
Meazza, proprietario di una bottega con alcuni dipendenti dalle parti del
Carrobbio. Poiché l'impresa navigava in brutte acque, il fabbro si era rivolto
al Boggia, presentatogli da tal Binda, amico comune, come uomo serio ed onesto,
capace di destreggiarsi negli affari come nessuno.
Legati al nome del Meazza risultavano un mandato rilasciato al Boggia affinchè
questi amministrasse la bottega, un atto di vendita della bottega stessa al
Binda firmata dal Boggia in qualità di rappresentante del Meazza, una denuncia
di scomparsa del Meazza, e una denuncia per truffa presentata da un commerciante
che aveva rilevato dal Binda l’attività, senza essere però stato
adeguatamente pagato per della merce vendutagli.
Anche queste
denunce erano cadute nel vuoto, visto che all’epoca rintracciare uno scomparso
doveva essere, dati i mezzi tecnici, impresa alquanto disperata.
L’unica
certezza era che il Boggia, per un certo periodo, aveva effettivamente
amministrato l'impresa e pagato regolarmente i lavoranti. Poi aveva venduto
tutto al Binda per una cifra inferiore al reale valore dell’attività. I pochi
soldi, teoricamente, sarebbero andati al Meazza, ma era ormai chiaro, alla luce
delle indagini, che il pover’uomo non aveva mai visto quel denaro, né più la
luce del sole.
In questa faccenda, però, una cosa pareva autentica: la procura rilasciata dal
Meazza. L’uomo aveva davvero incaricato Boggia di gestire il negozio,
evidentemente lusingato dalle soluzioni prospettategli da quel mascalzone.
La terribile scoperta
Al giudice
Crivelli dovette apparire abbastanza evidente che oltre alla Perrocchio il
capomastro di via Nerino aveva fatto sparire almeno altre tre persone, e tutte
per derubarle. Il problema era trovare le prove, vale a dire i cadaveri delle
vittime.
Senza alcun
valido elemento per orientare le ricerche dei corpi, le indagini caddero sulla
stretta Bagnera, per almeno tre ragioni: innanzitutto perché il locale che il
Boggia usava come magazzino e ufficio era da lui solo frequentato. Secondo, la
via Bagnera era (ed è tutt’oggi) un budello a forma di L, ove era impossibile
il passaggio di carri e carrozze, e dove anche i passanti erano scarsi. Terzo,
il tentato omicidio del Comi si era consumato proprio in quello stanzone.
Servirono più sopralluoghi prima di accertare la verità, poiché l'edificio
era stato ultimamente trasformato e riattato. In ogni caso, si appurò che
all’epoca dei fatti il Boggia disponeva di una stanza mal ammobiliata, con
annessa cantina, alla quale si accedeva con scala interna. La stanza era
illuminata da una sola finestra, ma la cantina era totalmente isolata dalla
curiosità dei pochi passanti.
Il Boggia, che
ricordiamo si trovava agli arresti per l’omicidio della Perrocchio, portato
sul luogo si rifiutò di collaborare, benchè messo alle strette davanti al
ritrovamento di alcuni effetti personali del Meazza, tra i quali un cinto per
l’ernia.
Vennero iniziati allora degli scavi nella cantina, che portarono, un po’ alla
volta, al ritrovamento di tre scheletri: quello del Ribbone, quello del
Marchesotti, e quello del Meazza. Dell’ultimo non si ebbero dubbi, essendo il
cranio privo dei denti incisivi, caratteristica questa del povero fabbro.
Il processo
Il capomastro
divenne per tutta la città "il mostro della via Bagnera" o
"della via Nerino", tanto da diventare il protagonista di raccontini
popolari e di macabre rappresentazioni teatrali scritte per il popolino.
Durante tutto il periodo della detenzione che precedette il processo, il Boggia
si dichiarò un povero malato, che faceva quello che la testa gli ordinava,
testa che sempre gli doleva, tanto da non permettergli neppure di dormire.
In effetti, anche i suoi compagni di cella testimoniarono le stranezze notturne
del detenuto, solito camminare nella stanza che divideva con loro completamente
nudo, e sempre pronto a lamentarsi per i dolori lancinanti al capo. Forse il
Boggia, che già era stato precedentemente giudicato pazzo, puntava ad un
verdetto simile, sperando forse di tornare alla Senavra.
A pochi tuttavia
i suoi delitti apparivano in sintonia con la mente di un folle, che uccideva
colto da raptus, come l’accusato sosteneva ("ero preso come da un
raptus"). Innanzitutto perché gli omicidi erano sempre legati a guadagni
consistenti e illeciti, poi perché i piani che ogni volta il Boggia aveva
architettato erano degni di un professionista della truffa e del crimine.
Al termine
dell'istruttoria, al Boggia vennero
contestati i seguenti capi di imputazione:
- omicidio a
scopo di rapina di A. S. Ribbone, avvenuto nell'aprile 1849;
- omicidio a scopo di rapina di G. Marchesotti, avvenuto il 15 gennaio 1850;
- omicidio a scopo di rapina di P. Meazza, avvenuto nell'aprile del 1850;
- tentato omicidio di G. Comi, avvenuto il 2 aprile 1851;
- omicidio a scopo di rapina di E. M. Perrocchio, avvenuto l'11 maggio 1859.
A questi reati
si aggiunsero le tentate truffe e le sostituzioni di persone in atti pubblici.
La sentenza di morte
Il processo si
aprì il 18 novembre del 1861, e durò cinque giorni. La difesa aveva giocato
tutto sull'infermità di mente, basandosi anche sulla prima assoluzione avvenuta
all'epoca dei fatti relativi al Comi. Al termine tuttavia venne emessa
prevedibile sentenza di condanna a morte.
Il successivo
ricorso in Appello fu respinto, e verdetto negativo diede anche il tribunale di
terza istanza. Neppure il re volle concedere la grazia.
Il Boggia apprese in carcere, il 6 aprile 1862 che nulla più poteva aspettarsi
se non la pena capitale. Poiché a Milano non vi era all'epoca un boia, ne
vennero fatti venire due, da Torino e da Parma. Le numerose candidature
spontanee presentate da cittadini in vena di giustizia sommaria furono
ovviamente scartate.
Il giorno
dell'esecuzione, Antonio Boggia fu fatto salire su di un carro coperto da
un'intelaiatura di stoffa nera assieme ai boia, e fu portato, tra ali di folla
curiosa e feroce, fuori città. Il mesto corteo, composto anche dalle carrozze
degli alti funzionari del Tribunale e dei rappresentanti della commissione
carceraria, si fermò all'altezza dei Bastioni, in uno slargo tra porta
Vigentina e porta Ludovica. Qui, davanti ad una marea di uomini, donne e, come
poi deplorato dalla stampa, ragazzini, Antonio Boggia fu impiccato. Il suo corpo trovò sepoltura nel cimitero del Gentilino, fuori Porta Ludovica, eccezion fatta per la testa che, spiccata dal tronco, venne data in custodia al gabinetto anatomico dell'Ospedale Maggiore, come da esplicita richiesta (vedi la lettera del 4 aprile 1862 - ASMI, reperita da Stefano Curcurù), affinchè, debitamente "trattata", potesse essere da tutti visionata e soprattutto studiata da illustri medici e scienziati, tra i quali il Lombroso, che ne giudicò la fisionomia tipica dell'assassino. La testa del Boggia rimase presso l'Ospedale Maggiore fino al 1949, quando, nell'ottica di una serie di dismissioni, tutti i reperti e i preparati umani vennero inumati a Musocco.
Si segnala che nell’ottobre 2009 è apparso (come da foto) sul mercato collezionistico un curioso reperto criminologico del delitto: una mannaia da macelleria ritrovata nelle disponibilità del Boggia. Tale strumento, debitamente catalogato con una targhetta scritta a mano recante le parole “del Boggia Antonio” si trova custodita all’interno di una scatola in legno recante la dicitura Ospitale maggiore Milano. Poco chiare sono purtroppo le strade che tale oggetto ha dovuto percorrere per giungere sul mercato collezionistico, anziché in un polo museale.
Bibliografia
Luzzi, Giovanni, Il giallo della stretta
Bagnera, Libreria Milanese 1999;
Gazza Franchini A., Antonio
Boggia il mostro di Milano, in "Historia", n. 172, 1972.
Ultima modifica: lunedì 26 ottobre 2009
maucolombo@hotmail.com
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