La
rapina di via Osoppo
di Mauro
Colombo
In una Milano sempre più all’avanguardia, dove i lavori per
la metropolitana avanzavano grazie agli scavi incuranti delle vestigia di
epoche antiche, e nuovi palazzi e grattacieli spuntavano come funghi, da piazzale
Lotto a viale Monza, figli di quell’idea tanto contestata che poco prima aveva
permesso di inaugurare la Torre Velasca, anche la cronaca nera e lo stile delle
rapine a mano armata si adeguavano piano piano al concetto di società del
benessere.
Ma il vero salto di qualità, la rapina che tutti i milanesi dell’epoca vissero e seguirono leggendo le pagine dei quotidiani tirati al massimo, fu quella messa a segno contro un furgone portavalori che si trovava a passare per la via Osoppo.
E siccome la città si stava riempiendo di automobili, e la
Fiat 600 segnava il trionfo dell’utilitaria, anche la “nostra rapina” ebbe
luogo sfruttando il nuovo status symbol degli italiani: le quattroruote.
Il colpo
Il capolavoro delle rapine motorizzate prese dunque forma la
mattina del 27 febbraio 1958, una mattina naturalmente fredda e naturalmente
passata alla storia. Era un giovedì, e il furgone blindato della Banca Popolare
di Milano aveva appena imboccato, alle 9 e 30, la via Osoppo, proveniente da
piazzale Brescia e diretto in via Rubens, ove aveva sede una Agenzia che lo
attendeva per il consueto carico/scarico di valuta e titoli. Si trattava di un giro consuetudinario, che veniva svolto
trisettimanalmente. Il furgone, di vecchio tipo e dotato di quattro portiere,
era partito verso le 9 dalla sede centrale di piazza Meda, e aveva già
scaricato parte del suo ricco contenuto in altre agenzie cittadine. Dopo
l’appuntamento con la succursale di via Rubens, la successiva tappa sarebbe
stata quella di via Solari. Il portavalori era guidato da un autista accompagnato da un
commesso, entrambi dipendenti dell’istituto di credito. Sul sedile posteriore
sedeva invece un agente di PS, appositamente “prestato” per questi servizi di
vigilanza armata ai carichi preziosi. Sulle sue ginocchia, un mitra rassicurante.
La via Osoppo, così denominata solo a partire dagli anni
Trenta, benché il tracciato di stampo campestre fosse alquanto precedente, era
ed è tutt’oggi una via a doppia carreggiata, con uno spartitraffico centrale,
che all’epoca dei fatti era sterrato a tratti erboso (mentre oggi è asfaltato). Poco prima
dell’angolo con la via Caccialepori l’agguerrita banda di rapinatori, equipaggiata con ben quattro veicoli (manco a dirlo, prelevati ad altrettanti sfortunati proprietari e tutte con targhe false) attendeva di entrare in azione, passando il tempo tra una sigaretta e l’altra e maledicendo quel pungente freddo che faceva venire le dita ghiacciate. Uno dei rapinatori, a riprova della tranquillità e
freddezza, nell’attesa dell’ora X era addirittura sceso dal suo mezzo per
comperarsi, in due negozi vicini, un etto di taleggio e due panini: il
giovanotto evidentemente preferiva lavorare a stomaco pieno!
La dinamica del colpo, anche se apparentemente complessa, si
svolse ordinatamente e nell’arco di pochi minuti, e può essere ricostruita
grazie all’articolo a sette colonne del Corriere della Sera del 28 febbraio, a
firma Franco Di Bella, titolato “Il furgone blindato di una banca assalito da sette banditi armati e mascherati”.
Dunque, non appena il blindato ebbe ad avvicinarsi
all’incrocio Osoppo/Caccialepori, una Fiat 1400 color caffelatte,
apparentemente impazzita, tagliò a questo bruscamente la strada, scavalcò
malamente lo spartitraffico centrale e si schiantò (dopo che l’autista,
abilmente, si era gettato nell’erba) contro il muro del palazzo contrassegnato
dal civico numero 7. Gli addetti al prezioso carico ebbero comprensibilmente un
attimo di smarrimento, e per pochi secondi rimasero forse fermi a guardare,
cosa che del resto fece la maggior parte dei passati presenti e dei negozianti
delle vie, attirati dal sordo rumore dello schianto. Ma quando l’autista del blindato, forse spronato da un
brivido di terrore o da una gomitata del compare in preda ad un ormai inutile
presentimento, rimise bruscamente in moto per allontanarsi dalla zona, ecco
dalla sua sinistra sopraggiungere a forte velocità, come un ariete, un camion
OM Leoncino cassonato di colore grigio. L’urto fu tale da impedire al blindato qualsiasi tentativo di manovra: in un attimo il delinquente al volante balzò a terra, e rotto con una martellata il finestrino della portiera posteriore, portò via il mitra dell’agente di Ps, rimasto tramortito dall’impatto e ferito da una scheggia di vetro.
Poi si occupò dei dipendenti della banca, anch’essi scesi in preda al terrore. Furono così sopraffatti e resi all’impotenza, mentre altri criminali sopraggiungevano a dar man forte a bordo di un furgone. All’appuntamento si presentò anche una Giulietta Sprint, il
quarto veicolo di quella che al giornalista era apparsa come una sorte di
battaglia navale, un assalto piratesco.
Mentre l’uomo sceso da quest’ultima vettura teneva a bada i
curiosi con un mitra decisamente minaccioso, gli altri rapinatori si diedero da
fare per scaricare le dieci cassette metalliche della BPM, gettandole alla
rinfusa sul furgone. E mentre gli abitanti delle case di via Osoppo dotati di
telefono componevano il 777 (un uomo, addirittura, lanciò bottiglie dalla
finestra di casa, sperando forse di spaventare i delinquenti) i componenti
della banda erano già pronti per darsi alla fuga, qualcuno sul furgone carico
di refurtiva, qualcun altro prendendo posto sulla Giulietta. All’incrocio abbandonarono sia la Fiat fracassata sia il
Leoncino usato a mo’ d’ariete, oltre ai passanti terrorizzati, ai tre addetti
al carico semisvenuti e al blindato sfondato.
Nessuno aveva visto in faccia i sette uomini, tutti coperti di passamontagna e abbigliati con tute blu da operaio. L’unico a mostrare il volto era stato il malvivente che
prima del colpo aveva fatto la sua spesa di pane e formaggio: un giovanotto
alto, dai capelli rosso biondastri. Da quel volto partirono le indagini, mentre
ai giornalisti non rimase che una considerazione: il colpo (definito dal Corsera: “la più sensazionale rapina che mai la cronaca milanese abbia registrato”, mentre La Notte in vena di paragoni sensazionalistici scriveva: “la nostra città si è messa alla pari con Chigaco”) sembrava ispirato a due recenti pellicole cinematografiche (la prima americana, la seconda inglese) girate nel 1955: “La rapina del secolo”, basata su di un fatto vero, la rapina di Boston del 17 gennaio 1950 ai danni della sede della Brink’s inc. Bank, organizzata dal malavitoso Anthony Pino, che aveva provveduto ad abbigliare i suoi uomini con tute da lavoro blu, e soprattutto “La signora omicidi” con Alec Guinness a capo di un agguerrito quintetto di rapinatori, che provvedeva ad assaltare un furgone blindato proprio speronandolo con un’altra autovettura.
La forte similitudine con “La signora omicidi” spingerà due famose e diffuse riviste, Gente e Epoca, ad uscire con un articolo corredato dai più attinenti fotogrammi del film, utilizzandoli, accompagnati da apposite didascalie, per far rivivere ai lettori il colpo di via Osoppo.
E se Gente segnalava con preoccupazione l’incredibile sequenza di rapine e colpi che Milano stava ultimamente subendo, di fronte ad una Polizia sempre più inerme e impreparata (a Milano si potevano contare 40 grosse rapine impunite su 45 dal gennaio 1956 al febbraio 1958), Epoca segnalava, riprendendo una polemica che iniziava a montare tra gli ambienti benpensanti, che il cinematografo non poteva essere messo sotto accusa come troppi volevano fare, quasi fosse colpevole di “esemplificare, se non suggerire, nuovi sistemi alla delinquenza”, in quanto, giustamente, “questi accademici del crimine non hanno certo bisogno del cinematografo per imparare quello che essi stessi inventano e mettono in pratica con un aggiornamento di sistemi ed una fertilità di innovazioni superiori a quelli di qualsiasi regista”.
Tant’è che l’anno successivo, quale seguito dell’applauditissimo film “I soliti ignoti”, uscì nelle sale italiane, per la regia di Nanni Loy “L’audace colpo dei soliti ignoti”, ambientato per gli esterni nelle periferie milanesi, che, in chiave tragi-comica, narra del fallimentare colpo ai danni di un furgone carico di soldi del Totocalcio organizzato col sistema del finto incidente d’auto. E Vittorio Gassman, capobanda, arrivato a Milano da Roma con la scusa di seguire la squadra del cuore in trasferta, non faceva altro che ripetere che tutto sarebbe andato liscio come l’olio perché era tutto “scientifico”.
Le indagini
Il giorno dopo il fattaccio, quando l’entità del malloppo
non era ancora sicura (si parlava di cifre oscillanti tra i 30 e i 70 milioni
di lire, prevalentemente in contanti, titoli e assegni prontamente incassabili)
il dottor Fontana dell’Interpol sottolineava l’incredibile somiglianza con le
tecniche internazionali, importate direttamente dagli USA, e per la prima volta
utilizzate nella nostra città.
E poiché apparve subito chiaro che trattavasi di una banda esperta guidata da un criminale alquanto preparato e scientifico nei suoi piani, La Notte del 28 febbraio/1° marzo uscì titolando: “I gangster hanno un professore e una scuola - L’accademia della rapina - L’inaudito colpo di via Osoppo dimostra una lunga e perfetta preparazione: tutto è stato calcolato e previsto - A capo della banda deve esserci una mente e alle spalle una vasta organizzazione”.
Montò poi una spinosa polemica, avanzata dagli ambienti
della Questura: l’insufficienza delle scorte ai furgoni delle banche, e il loro
eccessivamente prevedibile giro centro-periferia, quasi sempre uguale e sempre
negli stessi orari. Senza voler mettere in piedi quelle che vennero definite
“parate spettacolari” in uso in America (autoblindo in colonna con poliziotti
motociclisti), si suggerì che in futuro i furgoni blindati venissero scortati
da un’auto di agenti armati. L’ex capo dell’Interpol (tal Dosi) auspicava addirittura che
il Parlamento adottasse una legge che autorizzasse a sparare a vista sui
banditi intenti ad effettuare assalti armati. Ed anche le compagnie di
assicurazioni, specializzate nelle polizze a tutela dei trasporti-valori,
dichiararono che tutto il settore necessitava di essere attentamente rivisto
(con ovvio aumento di costi di polizza!).
Il Corriere della Sera del 1° marzo uscì col titolo in
quarta pagina: “50 milioni in contanti e 20 in titoli al portatore, il bottino
dei gangsters che hanno assaltato il furgone delle banca”. La cifra,
decisamente elevata, era dovuta anche al fatto che i banditi avevano scelto non
un giorno a caso, bensì il 27 del mese, il cosiddetto giorno di “san paganino”,
quando cioè venivano pagati gli stipendi.
Secondo le prime indagini, i rapinatori (ribattezzati i
fantasmi in tuta blu) dopo l’azione si erano volatilizzati nella zona di
Lorenteggio. Qui infatti, in un prato all’altezza del numero 209, erano state
trovate quattro delle valige asportate dal blindato, mentre altre quattro erano
state ripescate in un canale in via Giordani, al Giambellino. Un’altra alla
cava Cabassi, in via Bisceglie 90, e l’ultima all’angolo Bisceglie/Lorenteggio
(ovviamente vuote, tranne una piena di titoli “inesigibili”). Anche il furgone
della rapina fu presto rinvenuto, in abbandono, sempre al Lorenteggio, purtroppo senza impronte digitali. Nella giornata saltò fuori anche un curioso particolare: la
mattina della rapina, circa un’ora prima, un venditore ambulante di Baggio
aveva visto, attorno ad un’auto e un camion, un gruppo di persone indaffarate a
vestirsi con tute da lavoro. Fu inoltre accertato che un’auto era stata rubata a Bergamo
qualche giorno prima, mentre il furgone della fuga asportato ad un macellaio di via
Washington 80, la sera prima.
Finalmente, domenica 2 marzo, il Corriere uscì con un bel
disegno (“ritratto parlato”) che avrebbe dovuto corrispondere all’identikit del
rapinatore sprovveduto, quello che era entrato nei due negozi di alimentari
prima del colpo (ribattezzato “l’uomo dei panini al formaggio”). Il ritratto era banalissimo e inespressivo (tant’è che la
Questura in quelle ore interrogava la bellezza di seicento persone), e la
didascalia di accompagnamento diceva: “piuttosto bello, capelli rossi, viso
ovale allungato, lentiggini, occhi chiari, colorito roseo, età 26-30 anni,
accento settentrionale”. E il negoziante che lo aveva visto disse che gli
ricordava addirittura Anthony Perkins.
A smorzare comunque facili entusiasmi ci pensava l’ispettore
generale capo di PS, Vincenzo Agnesina, che alla stampa rilasciava la seguente
dichiarazione: “Miracoli non se ne possono fare. (…) Molto potrà fare la
collaborazione di tutti gli onesti”. E la cittadinanza poteva stare tranquilla perché come titolava La Notte, c’erano: “4000 uomini a caccia dei banditi - Non vogliamo che Milano diventi la capitale della rapina”.
Da questo momento, iniziarono a circolare varie ipotesi e
var sospettati furono fermati ma poi sempre rilasciati. Gli sforzi dei primi giorni si incentrarono su una banda
francese, che l’anno precedente aveva assaltato il Credit Lyonnais, e i cui
componenti si erano travestiti con tute da operaio. Ma quando il 6 marzo i cittadini vennero a sapere che le
tute usate per la rapina erano state trovate nell’Olona (interessato dai lavori di copertura e quindi prosciugato) all’altezza del numero 9 di via Roncaglia, e che le etichette delle stesse rimandavano ad una ditta tessile di Modena (“Casa della tuta Malpighi, tessuti e confezioni, via dei servi 32”), l’idea che prese sempre più piede fu quella che ci si trovava a dover fare i conti con malviventi nostrani, altro che emuli di Lupin!
Venne dunque ascoltato il titolare della ditta modenese, il
quale si ricordò di aver venduto pochi giorni prima del colpo una partita di
tute da operaio ad un ragazzo italiano, di cui non sapeva il nome. Analizzando invece l’auto fracassata lasciata dai rapinatori
dopo lo schianto, si arrivò ad identificare il meccanico che fece un controllo
generale, una sorta di revisione, proprio due giorni prima dell’assalto. Il 17 marzo, due importanti novità: forse non essendo chiara la loro posizione, vennero fermati per accertamenti sia l’autista che il commesso della BPM; ma dopo cinque giorni, nulla emergendo a loro carico, vennero rilasciati. Inoltre, venne ripescato nel Naviglio pavese, da operai che approfittavano della secca per pulire il fondo all’altezza del civico 87 dell’Alzaia, il mitra sottratto all’agente di scorta. Il reperto fu subito inviato alla Scientifica della caserma Garibaldi di piazza sant’Ambrogio, per i rilievi del caso.
Intanto la Questura (tra le testimonianze del meccanico, del
venditore di tute, dell’ambulante di Baggio) cominciò a far circolare in tutta
Italia alcuni ritratti segnaletici dei probabili colpevoli, finchè, il 29 e il
30 marzo, i giornali prima parlarono del fermo di alcuni Italo-francesi
probabilmente implicati, poi titolarono “siamo ad un punto cruciale”.
Gli arresti
E finalmente, dalla prima pagina del Corriere della Sera del
1° aprile, Milano e l’Italia appresero: “Arrestati e confessi i rapinatori di
Milano – Il questore annuncia il successo dell’ardua operazione contro i
banditi che assalirono il furgone della Banca in via Osoppo”, con tanto di foto
del questore Lo Castro e del capo della squadra Mobile, Zamparelli, che
mostrano un campionario delle armi sequestrate ai delinquenti.
Il commissario capo Paolo Zamparelli poteva essere orgoglioso del risultato raggiunto, e difatti fu visto dalla stampa come l’eroe buono che risolse il caso. All’epoca quarantasettenne, dirigeva la squadra mobile di Milano da ben 14 anni. Alto, magro, brizzolato coi capelli impomatati, non era certo il poliziotto che i lettori di romanzi gialli si aspettavano.
A lui si era affiancato nelle indagini il commissario Nardone, che aveva già partecipato alle indagini nell’efferato caso del massacro di Rina Fort, del 1947. Ebbe una brillante carriera, che terminò, volente o nolente, allo scalo di Linate col compito di contrastare i dirottamenti, ultima tappa prima della pensione, quando ormai la nuova criminalità milanese (fatta di nomi come Vallanzasca e Turatello) non faceva più per lui, abituato com’era ad un codice d’onore non scritto ma rispettato dalle “guardie” e dai “ladri”.
Il pomeriggio del giorno precedente, infatti, si era tenuta
una concitata conferenza stampa, in cui le forze dell’ordine avevano comunicato
di aver arrestato cinque componenti della banda, e di essere sulle tracce dei
restanti due.
Epoca andò nelle edicole col numero del 6 aprile dedicato agli arresti e ai protagonisti dell’intera vicenda. Scriveva l’articolista: “Gli uomini che la Squadra Mobile milanese ha giudicato responsabili della clamorosa rapina di via Osoppo non abitavano in case malfamate e oscure, in una casbah di quelle care ai gusti del cinema neorealista. Vivevano tutti come normali borghesi, come tanti impiegati che al 27 di ogni mese ritirano la busta dello stipendio”.
Epoca volle scandagliare le loro vite e i loro affetti, con un taglio che forse oggi sarebbe giudicato di cattivo gusto, basti pensare all’enorme foto dell’anziana e malata suocera di uno degli arrestati, avvisata sulla porta di casa dai giornalisti e dai fotografi di quanto aveva commesso il genero, ritratta sgomenta e piangente con un fazzoletto sulla bocca; la didascalia impietosa dice: “Quando si è riavuta dalla terribile emozione, nel suo volto è rimasto inciso il segno del terrore. Come una bimba disperata ripeteva Non c’entro, sono innocente. E poi ripensava alla nipotina di soli sedici mesi”.
Da Epoca e dal Corsera apprendiamo così i particolari biografici dei rapinatori che riportiamo di seguito, indicando tuttavia per quelli di loro che ebbero un rilievo più marginale o che comunque non ebbero più modo di imbattersi nella cronaca nera, solamente il nome di battesimo e le iniziali del cognome, nel rispetto di quel diritto all’oblio che dovrebbe permettere a tutti i condannati, una volta scontata la pena, di non essere più ricordati per i crimini commessi.
Con le manette ai polsi si ritrovarono dunque Ugo Ciappina, trentenne, al momento dell’arresto ritenuto il capobanda e l’ideatore del piano, già facente parte della Banda dovunque, capeggiata da tal Zanotti, famosa in città per altri colpacci degni di grandi menti criminali, passata alle cronache per la rapina alla gioielleria di via Bigli. Da ragazzo, sempre il primo della classe, ricordato da un compagno lasciatosi intervistare come uno che aveva un cervello svizzero. Cresciuto nel cuore della vecchia Milano, era fedele sostenitore di un partito dell’estrema destra.
Poi Luciano De Maria, che abitava con mamma e moglie in una villetta malmessa in via Tiepolo 33, ragazzo di grandi speranze, infrante dall’intervento della polizia.
Arnaldo G., detto Jess il bandito, ventottenne figlio dei portinai dello stabile di via Washington 78; la madre aveva sempre un sorriso per tutti gli inquilini, ma dopo aver appreso la verità sul figlio “si è chiusa nel suo dolore, non parla, non risponde, è assente: i suoi occhi guardano nel vuoto. Ha due figlie sposate che vivono nell’onesta normalità. Ora sarà difficile rispondere con un sorriso al saluto degli inquilini”.
Ferdinando R. detto Nando il terrone di 45 anni, residente con moglie e due figli (il grande, ventenne, già pizzicato per una rapina in un bar di piazza Siena) in via Preneste 4, ritenuto fuori dalla pareti domestiche un vero signore.
Arnaldo B. 30 anni residente in via Montegani 6, una casa nuova arredata con gusto, che nella rapina aveva avuto il compito di guidare il camion usato come ariete, sposato, padre di una bimba di un anno e mezzo.
In attesa di finire al fresco (si diceva fosse una questione di ore o al massimo di pochi giorni) c’erano poi Enrico C. detto il droghiere, abitante in via Chinotto 40, il luogo ove la banda aveva portato la refurtiva dopo il colpo ed Eros C., ex pugile e ladro d’auto, nonché dongiovanni e sciupafemmine, conosciuto come bravo ragazzo dalle parti di Pontecaffaro, sul lago d’Indro, ove trascorreva meravigliose giornate tra le sue due passioni: la pesca e, appunto, le donne.
Il giorno dopo gli arresti, La Notte uscì titolando “Tenta il suicidio uno dei banditi - Luciano De Maria si sarebbe tagliato i polsi durante una violenta crisi”. In ogni caso, lo stesso quotidiano, tirando le somme dell’intera vicenda, affermò: “Zero ai professori della rapina - L’incubo è finito: trenta e lode alla polizia”.
La cattura era dipesa da continui pedinamenti, ma anche
dall’aver rintracciato i ricettatori e i fornitori di armi ed equipaggiamenti,
tra cui l’uomo che aveva fornito le tute, dopo essersele procurate a Modena.
Tra i vari retroscena, si disse che Ciappina avesse in serbo
il piano fin dal 1949, ed ebbe modo di elaborarlo, naturalmente, quando era
dietro le sbarre per un altro reato. Pare che avesse avuto in testa di
assaltare inizialmente un camion della Brown Boveri. Dopo il colpo i sette uomini d’oro si spartirono il bottino
proprio nell’appartamento di via Chinotto, trattenendo però solo il contante in
piccolo taglio e lasciando il resto, troppo pericoloso. L’appartamento di via Chinotto fu scelto in quanto non
distante dalla via Osoppo (fu raggiunto in circa tre minuti) e dotato di box
ove nascondere il furgone. Inoltre, dal box era stato facile “passare” le
valige nell’appartamento, situato a piano terra. Nessuno dei vicini si era
accorto di nulla.
Sul come iniziarono a spendere il bottino (15 milioni a
testa), poi, è sempre la penna del Corriere Franco Di Bella che ci illumina:
“All’insegna delle 3 D, donne, dadi, danze”. Pare che avessero fatto una
capatina anche a Cortina, scialacquando milioni sul tappeto verde. Luciano De Maria e A. G., invece, che si ritenevano di “stoffa
migliore” e soprattutto piacenti e rubacuori, avevano preferito organizzarsi un
fine settimana a Cervinia, dove si presentarono con nuovissime attrezzature
sciistiche, alloggiando nelle due migliori stanza del più prestigioso hotel.
Non furono comunque giorni fortunati, visto che, si raccontava, di conquistare
belle e ricche signore non vi fu verso, e finirono per ballare nelle cucine con
le cameriere, al suono di un vecchio magnetofono!
I soldi intanto venivano mano a mano recuperati, nonostante
i nascondigli sfruttati dai banditi fossero in taluni casi davvero geniali.
Venti milioni erano stati murati dietro alle piastrelle vicino al lavandino
della cucina di A. B., mentre sette furono rinvenuti nascosti sotto lo zerbino
dell’entrata del palazzo di via Washington, dove erano portinai i genitori
(ignari) di A. G. detto “Jess”. Gli interrogatori
estenuanti cui i cinque arrestati vennero sottoposti svelarono, come gli
inquirenti avevano previsto, anche le chiavi di altri gialli cittadini: Jess e
Luciano De Maria furono ritenuti colpevoli di un precedente colpo ai danni di un
gioielliere, avvenuto nel giugno 1957 in via Giulio Romano.
Nonostante gli iniziali atteggiamenti da duri, tutti resero
ben presto piena confessione. Solo Ciappina, che gli investigatori ritenevano
essere stato il capobanda, mantenne ferma la sue versione, e che cioè tutto fu
organizzato da Luciano De Maria (verità che poi emerse al processo), e che lui si era
limitato ad imbracciare un mitra e a trasbordare le casse coi soldi. Curioso
poi, il suo alibi. Quella mattina si era fatto accompagnare dalla moglie da un
dentista dalle parti di via Osoppo, e mentre erano in sala di attesa disse alla
moglie che si sarebbe assentato qualche minuto per comperare un giornale.
Effettivamente si assentò pochi minuti, e tornò dalla moglie dopo aver compiuto
la rapina. Né lei, né il dentista, si erano accorti di nulla, e anzi rimasero
increduli di come avesse potuto partecipare alla rapina del secolo in pochi
minuti, attendendo un’otturazione al molare!
Epilogo
Nell’ottobre dello stesso anno iniziò il processo a carico dell’intera banda e di alcuni fiancheggiatori. La sentenza di condanna arrivò alla una e trenta del 12 novembre. Persino la programmazione televisiva, che all’epoca terminava alle 22, prorogò la trasmissione per poter dare la notizia all’Italia intera.
Tutti furono ovviamente condannati a svariati anni di carcere, dovendosi tener conto, oltre alla rapina di via Osoppo, dei precedenti penali di ciascuno e soprattutto del fatto che alcuni di essi furono solo in quel momento ritenuti colpevoli di altri crimini cittadini fino ad allora senza colpevole. Per l’esattezza, Ugo Ciappina prese 17 anni e due mesi; Ferdinando R. 9 anni e otto mesi; Luciano De Maria 20 anni e otto mesi; Arnaldo B. 12 anni e sei mesi; Arnaldo G. 14 anni e tre mesi; Enrico C. 18 anni e quattro mesi; Eros C. 11 anni e dieci mesi. A tutti inoltre vennero comminate varie multe per centinaia di migliaia di lire.
Quasi tutti i condannati ottenero pene comunque meno severe rispetto a quelle richieste dalla Pubblica accusa. Il processo d’Appello ebbe luogo tra l’8 e il 27 novembre del 1960. Qualche anno fa Ugo Ciappina, all’epoca settantacinquenne, tornò alla ribalta della cronaca nera per aver organizzato un colpo col sistema “del buco”, ai danni di un negozio di piazza Oberdan. Ma, ancora una volta, venne identificato e arrestato.
Ci fa piacere infine segnalare come Luciano De Maria, dopo aver letto questo scritto, ha voluto precisare che l’intera rapina, nonostante il grosso bottino in gioco, non vide spargimento di sangue né violenze sui dipendenti della banca o sul poliziotto di scorta, basandosi tutto il colpo su un piano meticoloso e decisamente geniale; nulla a che vedere con i fatti di cronaca nera odierni, infarciti di violenza e morte per furti e rapine da quattro soldi.
Fonti e bibliografia
I principali quotidiani dell’epoca, tra i quali i milanesi "Corriere della Sera", e "La Notte", annata 1958, mesi Febbraio-Aprile.
"Gente", n. 11 del 12 marzo 1958 pag. 28 e s.
"Oggi", marzo 1958
"Epoca", n. 388 del 9 marzo 1958 e n. 392 del 6 aprile 1958
Inoltre, per farsi un’idea della malavita nostrana: De Maria
Luciano: Vita di un bandito, Milano, Edizioni Biografiche, con prefazione di G. Bocca.
Ultima modifica: sabato 10 febbraio 2007
maucolombo@hotmail.com
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