Rina Fort, la belva di via San Gregorio
di Mauro
Colombo
Il 1946 stava
ormai volgendo al termine e si avvicinava il Natale, il secondo del faticoso
dopoguerra italiano. Milano era in piena ricostruzione, un po’ alla volta gli
sfollati rientravano in città e nuove abitazioni sorgevano per dare un nuovo
tetto a chi, solo pochi anni prima, aveva perso tutto.
La città era
ancora insanguinata da omicidi politici, e la malavita, equipaggiata con armi
di facile reperibilità, spesso riempiva le cronache dei giornali con racconti
tipo America anni trenta.
Ma anche notizie
positive rincuoravano i milanesi: la Scala era stata restaurata e riaperta, ed
Enrico De Nicola aveva inaugurato la Nuova Fiera Campionaria. Le elezioni
amministrative erano state vinte dai Socialisti, e sindaco era stato confermato
Antonio Greppi.
La strage
In questo
contesto di transizione e irrequietezza, il 30 novembre 1946, l’ultimo sabato
prima dell’avvento natalizio, poco dopo le otto di una mattinata fredda e
umida, la commessa del negozio di stoffe e cascami di proprietà di tale
Giuseppe Ricciardi, bussava invano alla porta dell’abitazione di quest’ultimo,
in via San Gregorio al numero 40.
Lo scopo della
sua visita era quello di farsi consegnare dalla moglie del titolare,
quest’ultimo da alcuni giorni fuori Milano, le chiavi del negozio, per poter
aprire come tutte le mattine.
Non ottenendo
risposta, si permise di spingere la porta socchiusa, e chiamando a gran voce la
signora, si introdusse rispettosa nell’appartamento avvolto dalla penombra.
La commessa ci
mise poco a vedere in terra, in una pozza di sangue, uno dei figlioletti del
Ricciardi, e poco distante, riversa sul pavimento in senso contrario a quello
del piccolo, la signora Ricciardi, Franca Pappalardo. Catapultata in un film
dell’orrore, la poveretta corse in cortile e poi in strada cercando aiuto a
gran voce.
Arrivarono prima
i giornalisti e i fotografi che la polizia. I giornali del pomeriggio poterono
così uscire con articoli a quattro colonne e fotografie dei cadaveri.
Accorsi, gli
uomini della questura, dopo aver isolato dapprima lo stabile e poi l’intera
via, trovarono nell’appartamento altri due piccoli cadaveri: gli altri figli
del Ricciardi.
In totale,
l’assassino o gli assassini avevano brutalmente ucciso, quasi sicuramente con
una spranga in ferro dagli spigoli accentuati, la moglie del Ricciardi,
Giovannino di 7 anni, Giuseppina di 5 e Antoniuccio da poco svezzato.
Il Nuovo
Corriere della Sera del 1° dicembre 1946, a pagina due, titolò in grassetto:
“Massacrati in via San Gregorio una madre coi tre figliuoletti”. Dall’articolo
si apprende che la scoperta venne fatta, come detto, da Pina Somaschini,
impiegata presso il negozio del marito della vittima. Il cronista riporta un
inquietante indizio: oltre ad essere spariti due assegni, sul pavimento era
stata trovata una fotografia stracciata dei coniugi Ricciardi immortalati il
giorno della nozze. Subito venne avanzata l’ipotesi di un delitto a scopo
passionale.
Le indagini
Il fatto si era
svolto la sera precedente, con buona approssimazione un’ora dopo la cena. Le
vittime infatti giacevano in pozze di sangue, materia cerebrale e tracce di
vomito, segno di un’iniziata digestione. Il portiere dello stabile dichiarò che
quella sera aveva chiuso il cancello alle ore 21 in punto (come previsto dal
sindacato dei portieri), ma che tuttavia la serratura mancava da alcuni giorni
per riparazioni. Chiunque poteva, in poche parole, entrare nel cortile
indisturbato.
Il verbale del
primo sopralluogo della Polizia descrive un piccolo appartamento: “con sala
da pranzo di circa 3 metri x 3 e mezzo,
con divano con due cuscini e una penna stilografica appoggiata; letto
matrimoniale in stato di non uso per la notte precedente; al muro immagine di
Santa Rosalia, e statuetta della Madonna con lampadina”.
Il contesto
dell’efferato omicidio era quello di una famiglia certamente non ricca, che si
guadagnava da vivere con un’attività commerciale sempre sull’orlo della crisi.
Gli inquirenti
avevano in mano pochi elementi, ma di una cosa erano certi: l’assassino era un
conoscente della vittima, dato che questa gli aveva aperto e gli aveva pure
offerto un liquore. Anzi, gli assassini dovevano essere due, visto che i
bicchierini sporchi erano tre. L’efferatezza del delitto convinse il magistrato
che non poteva trattarsi di una semplice rapina: innanzitutto perchè nel
quartiere tutti conoscevano i Ricciardi che certo non apparivano dei signori,
ma soprattutto perchè qualunque rapinatore, anche se sorpreso durante la sua
incursione, avrebbe quantomeno risparmiato il più piccolo dei figli, che mai
avrebbe potuto testimoniare data la tenera età. L’uccisione di tutti e quattro
gli occupanti dell’appartamento doveva essere una punizione, una vendetta
contro il Ricciardi.
Un fatto
importantissimo fu però giudicato questo: la donna, prima di essere ammazzata,
aveva strenuamente lottato contro chi le voleva togliere la vita, e stretta nel
pugno chiuso, irrigiditosi dopo la morte, fu trovata una ciocca di capelli
lunghi, neri, sicuramente femminili.
I protagonisti
Come detto,
Giuseppe Ricciardi non aveva potuto fare nulla per difendere la famiglia.
Infatti era da qualche giorno fuori città: si trovava a Prato, dove stava
concludendo alcuni acquisti di stoffe per rifornire il proprio negozio. Le
indagine iniziarono proprio da lui, per sapere esattamente chi fosse questo
individuo.
Il Ricciardi,
dunque, aveva aperto l’attività durante la guerra, dopo essere scappato dalla
sua Catania occupata dagli Americani. Si era piazzato nella via San Gregorio,
una delle vie popolari sorte con l’abbattimento del Lazzaretto. Il quartiere
era costellato da piccole attività e botteghe, quasi tutte di immigrati
provenienti dal Sud Italia.
Inizialmente era
salito al Nord da solo, poi, sistematosi, si era fatto raggiungere dalla
moglie. Ma, forse per problemi economici, o forse perché la moglie non era
riuscita ad adattarsi al clima di Milano, l’aveva ben presto rispedita a
Catania.
Le voci del
quartiere dicevano che lui, il catanese, senza la moglie appariva più allegro e
sempre circondato da donnine più o meno rispettabili. Aveva addirittura
intrecciato una storia sentimentale con una sua commessa. Ma la moglie,
avvertita da compaesani anche loro emigrati a Milano (le avevano scritto di
venire a tenere sotto controllo l’ardore dell’amato sposo, di spirito troppo
focoso), aveva preso armi bagagli e
figli, ed era tornata nell’appartamento di via San Gregorio. Il
Ricciardi era stato così costretto a interrompere bruscamente la sua relazione
extraconiugale con la commessa, e aveva pensato bene anche di licenziarla, per
tacitare ogni possibile futuro sospetto della signora Franca.
Poi tutto era
tornato alla normalità: la coppia aveva avuto un altro figlio, ed anzi adesso
ne aspettava un quarto. Era stata assunta una nuova commessa e il negozio
andava avanti come prima, con più bassi che alti.
Grazie alle voci
raccolte tra i negozianti e i vicini di casa, le indagini prendevano dunque
un’ulteriore svolta: bisognava rintracciare e ascoltare questa ex commessa ed
ex amante. Il suo nome era Caterina Fort, per tutti Rina.
La Polizia la
cercò subito a casa, in via Mauro Macchi all’89, poi presso il suo nuovo
impiego, una pasticceria di via Settala 43. Fu arrestata proprio mentre faceva
colazione in un bar di fronte al negozio, caricata su una jeep della Celere e
condotta in gran fretta presso gli uffici della Questura.
L’interrogatorio
vero e proprio cominciò il pomeriggio del 30 novembre, a neanche 24 ore
dall’omicidio.
Ammise subito di
aver lavorato in passato per Pippo Riccirdi, ma che oramai non lo frequentava
più e non sapeva neppure dove si trovasse.
Dell’omicidio,
ovviamente, era del tutto all’oscuro. In ogni caso la condussero il 2 dicembre
sulla scena del delitto, poi, davanti alla sua indifferenza, fu riportata in
Questura, dove iniziò un lunghissimo e pesantissimo interrogatorio. Raccontò
solo, inizialmente, di essere stata l’amante del Ricciardi, quando questi era
solo a Milano. Avevano anche convissuto, a partire dal settembre 1945. Poi
salita la moglie, tutto era terminato.
Ma chi era
Caterina Fort? Era nata nel 1915 a Budoia, in provincia di Udine, si era poi
trasferita a Milano per lavorare, prima come domestica, poi come commessa di
negozi. Risultava sposata con un certo De Benedetti, ma questi era da tempo
ricoverato in un manicomio. Era sifilitica e psicopatica, e quella col
Ricciardi non era stata la prima relazione che intratteneva con uomini sposati.
I riscontri
L’interrogatorio
fu condotto dal commissario dott. Di Serafino, e durò diciassette ore filate.
Secondo quanto la Fort raccontò poi al suo avvocato difensore, mentre le
venivano poste le domande un agente continuava a schiaffeggiarla, mentre un
altro spesso la sferzava a manganellate.
Alla fine,
stremata ed affamata, umiliata e minacciata (“Ti facciamo fucilare”), si decise
a confessare il suo orribile gesto. Ma fu una confessione parziale, dove il suo
ruolo si riduceva a complice, con l’incarico marginale di accompagnare
l’assassino fino alla casa della vittima, e di convincere la signora Franca ad
aprire la porta. Il killer, secondo il suo racconto, era un non meglio
precisato cugino del Ricciardi. Tutto il piano del resto era stato organizzato
dal Ricciardi, per liberarsi della moglie o comunque per spaventarla e farla
tornare in Sicilia. Ed anche, o forse soprattutto, per far credere a certi
creditori che era stato rapinato di tutto quello che aveva, e di non poterli
pagare per colpa di un destino infame.
Nel frattempo
anche Pippo Ricciardi venne arrestato e trattenuto, e la sua posizione
(compreso il viaggio a Prato) attentamente vagliata.
Gli inquirenti
però non credevano ad una sola parola della donna, convinti che avesse fatto
tutto da sola. Così il Nuovo Corriere della Sera del 4 dicembre: “Caterina Fort
agì da sola ma tergiversa e si contraddice”.
La vera svolta
la si ebbe il giorno dopo. I milanesi appresero la notizia leggendo i giornali.
Il solito Nuovo corriere della sera del 5 dicembre titolò a caratteri cubitali:
“Li ho ammazzati tutti io! – Caterina Fort ha firmato il verbale di
confessione”.
Il quotidiano
scriveva: “La Questura comunica: Le indagini relative al delitto di via San
Gregorio hanno finora accertato in modo irrefutabile la responsabilità della
Rina Fort, a cui carico, oltre alle ripetute e dettagliate, seppur finora non
complete confessioni, stanno risultanze di fatti inconfutabili. Tali indagini
proseguono per l’accertamento di altre responsabilità, finora non
sufficientemente chiarite”. Secondo l’articolista ...”Sì, li ho ammazzati tutti
io! – Ha gridato finalmente la belva, dopo oltre 100 ore di interrogatori e confronti.
... Le sue deposizioni sono state messe a verbale, e dopo alcuni minuti di
esitazione, ha firmato......Ma non ha ritrattato i particolari in precedenza
forniti per far credere alla presenza di un uomo e poi di un secondo,
sopraggiunto all’ultimo momento”.
La versione
della Fort coinvolgeva sicuramente un complice, di cui però lei non conosceva
esattamente le generalità. Insisteva nel dire che quella maledetta sera si era
recata nell’appartamento della strage assieme ad un parente (o forse solo
amico) di Pippo Ricciardi, un siciliano di nome Carmelo. Ma l’architetto di
tutto era proprio il Ricciardi.
Secondo la sua
deposizione, gli affari al negozio andavano parecchio male, e i creditori non
intendevano più aspettare. Allora il Ricciardi aveva convinto lei e un certo
Carmelo ad andare nell’appartamento per inscenare una rapina, e lui, nel
frattempo, si sarebbe tenuto per un po’ lontano da Milano, giusto per crearsi
un alibi, con la scusa di certi affari urgenti.
Ma evidentemente
le cose erano andate diversamente, forse la situazione era sfuggita di mano ai
due rapinatori improvvisati, e davanti alle urla delle vittime e alla loro
violenta reazione, i due avevano esagerato con i colpi, finendo con l’ammazzare
l’intera famiglia.
Naturalmente,
messo davanti alla storia imbastita dalla sua ex amante, Pippo negò tutto
decisamente. Quella era una pazza isterica, aveva avuto tantissimi problemi
anche psicologici prima che lui la incontrasse. Era stata seviziata dal primo
marito, era venuta in città per fare la cameriera ma era stata oggetto di
ricatti sessuali dal suo datore di lavoro. Secondo il Ricciardi, la Fort non
aveva sopportato di essere stata scaricata anche da lui (che le era apparso
come l’ultima salvezza), e si era voluta tremendamente vendicare sulla moglie e
i figli.
Nel frattempo,
la Polizia iniziò anche ad indagare nel quartiere e nelle amicizie di Pippo
Ricciardi, per scoprire chi mai fosse il “famoso” Carmelo, che la Fort non
conosceva se non di vista e di cui, comunque, non sapeva dare esatte generalità.
Ne vennero
scovati cinque di Carmelo, amici o parenti del vedovo. Ma solo uno, alla fine,
fu identificato come il complice della Fort: Carmelo Zappulla, all’anagrafe
Giuseppe.
E così, al
termine delle indagini condotte dalla Questura di Milano, a San Vittore entrarono la Fort e Carmelo
Zappulla, quali esecutori materiali, e Pippo Ricciardi, quale mandante del
delitto.
Il giorno 10
dicembre il magistrato autorizzò finalmente i funerali delle quattro vittime,
che si svolsero il 14 dicembre alle due del pomeriggio, nella chiesa di San
Gioachino. Alle esequie parteciparono alcune autorità e anche il Sindaco.
Successivamente alla funzione, le bare furono trasportate alla Stazione
Centrale e caricate su un treno diretto a Catania, dove vennero infine inumate.
Il giorno 15 il
Nuovo Corriere della Sera pubblicò l’ultimo articolo sulla vicenda, riportando
la cronaca del funerale.
Dovette passare
un anno e mezzo, prima che Zappulla e Ricciardi venissero scarcerati perchè
totalmente estranei al delitto di via San Gregorio. L’unica assassina che
veniva rinviata a giudizio era, dopo l’espletamento delle dovute indagini,
Caterina Fort.
Il Processo
La mattina del
10 gennaio 1950 davanti alla corte d’Assise di Milano ebbe inizio il processo
contro Caternia Fort, accusata di strage. Suo difensore era l’avvocato Antonio
Marsico, che dall’esperienza pre-processuale trasse un interessante libretto
che ebbe una certa fortuna, negli ambienti giudiziari, sulla fine degli anni
Quaranta e gli inizi degli anni Cinquanta.
Preliminarmente
fu affrontato il problema se accettare o meno la costituzione parte civile del
Ricciardi, che voleva ottenere il risarcimento per la perdita dei suoi tre
figli. Dal momento che l’istruttoria lo aveva scagionato, lo aveva cioè
ritenuto estraneo a quel disegno criminoso sul quale puntava la difesa della
Fort, fu accettata la sua costituzione, pur tra le proteste dell’avvocato della
Fort e del pubblico assiepato dentro e fuori il Palazzo di Giustizia, che
riteneva quell’uomo spregevole e indegno padre di famiglia.
La prima domanda
che venne rivolta a Caterina Fort fu se avesse o meno commesso i fatti di cui
era imputata. Questa iniziò a raccontare ai giudici la storia di via San
Gregorio: quella maledetta sera, la sera del 29 novembre, dopo aver preso
accordi con Pippo per inscenare la rapina, era uscita, assieme ad una amica,
dal pasticceria dove aveva trovato lavoro come commessa intorno alle 18 e 30.
Rincasando, era stata affiancata dal fantomatico Carmelo in via Felice Casati,
e da quello aveva accettato una sigaretta.
La Fort
attribuiva a quella strana sigaretta (da lei definita “drogata”) il senso di
stordimento che la avvolse, tanto violento da seguire imbambolata Carmelo, che
la condusse, naturalmente, in via San Gregorio 40, dove erano accadute cose
terribili, delle quali però lei non aveva memoria, se non fotogrammi
sparpagliati e sconnessi.
Ricordava solo
di aver colpito con tutte le sue forze la signora Franca, poi solo rumori e
colpi dappertutto. Le pareva che nelle stanze vi fosse un altro uomo, forse un
amico di Carmelo, ma non sapeva neppure descrivere questo presunto complice.
Era certa solo
che ad un tratto si era ritrovata a terra semisvenuta, e che poi Carmelo
l’aveva rianimata porgendole un bicchiere.
Poi se ne erano
andati giù per le scale, lei si era nascosta per qualche tempo nella cantina
dello stabile, ed infine, da sola, si era diretta alla propria abitazione. Lì,
aveva avuto persino voglia di cenare, cucinando due uova al tegamino.
Subito il
Presidente le contestò le discrepanze tra il racconto fatto in aula, e la
deposizione che all’epoca aveva rilasciato presso gli uffici della Questura.
Lei attribuì il fatto all’essere stata maltrattata dalla Polizia, di aver
confessato dopo un interrogatorio durato quasi venti ore, in condizioni
disumane e senza poter tenere testa ai violenti polizziotti.
Il difensore
della Fort cercò di fare del suo meglio durante tutto il processo. Si tenga
tuttavia presente che all’epoca dei fatti la partecipazione dell’avvocato
durante le indagini preliminari era praticamente azzerata. Sotto la vigenza
dell’art. 124 del codice di procedura penale (promulgato e pensato in epoca
mussoliniana) l’istruttoria era infatti segreta, e ciò significava per
l’avvocato difensore non poter assistere all’interrogatorio del sospettato, e
neppure ad eventuali perizie, ricognizioni, confronti.
In ogni modo,
pur conscio delle difficoltà, l’avvocato Marsico puntava a dimostrare che la
Fort non era stata sola in quelle stanze maledette. Voleva provare che altri
era quella sera con lei, forse proprio un complice affiancatole dal Ricciardi,
secondo i suoi piani criminosi. E per
fare ciò mise in luce un fatto fino ad allora abilmente schivato dall’accusa.
Durante il sopralluogo nei locali di San Gregorio, era stata rinvenuta una
penna stilografica, che si era appurato non appartenere nè alla signora
Ricciardi, nè al Ricciardi, nè, ovviamente, alla Fort. Quindi doveva essere di
qualcuno che quella sera si era introdotto nell’appartamento assieme alla Fort,
e che nel parapiglia l’aveva senz’altro smarrita.
Ma l’accusa
sostenne che quella penna poteva benissimo essere caduta ad uno dei tanti
(troppi) giornalisti e curiosi che si precipitarono nel locale la mattina dopo,
prima che le forze dell’ordine potessero isolare e preservare la scena del
delitto.
Altri testi
furono ascoltati, per meglio chiarire il quadro della vicenda, ma non emersero
nuovi o interessanti risvolti. Venne ascoltato il signor Vitali, che era stato
il primo datore di lavoro della Fort, prima che questa finisse nelle braccia
del Ricciardi. Si riuscì solo ad appurare che era stata anche la sua amante, il
che non l’aiutò certo ad apparire sotto una luce migliore davanti ai giudici
popolari.
Anche un
conoscente della Fort, che lei sosteneva di aver incontrato la sera che andava
a braccetto col Carmelo a compiere la mattanza, disse di averla sì incontrata,
ma da sola, senza galanti accompagnatori. Si cercò poi di dimostrare che
quest’ultima testimonianza, resa peraltro da un ragazzo all’epoca dei fatti
minorenne, era stata forse “pilotata” dal padre, che non voleva rogne con la
legge.
Insomma, nessuno
pareva credere all’esistenza di complice: la Fort era veramente sola quella
sera? Per la giustizia italiana la risposta era sì!
Ad avvalorare
questa tesi, intervenne l’avvocato della vedova di quel Carmelo Zappulla, che,
seppur innocente, era stato per mesi a San Vittore, e poi era morto poco dopo
la scarcerazione.
Il difensore
volle ripercorrerne il calvario, a partire dalla sera in cui, era la vigilia
del Natale, venne portato in questura proprio a causa del suo nome, Carmelo, lo
stesso che la Fort aveva attribuito al complice della sera del delitto.
Il grottesco
della storia fu che Carmelo, messo in una stanza con altri personaggi (tra cui
due poliziotti in borghese), non venne neppure riconosciuto dalla Fort come il
suo complice: alla richiesta di indicare tra i presenti il complice Carmelo,
lei additò con convinzione niente meno che uno dei poliziotti!
Poi però,
portata in carcere e “informata” dalle voci delle compagne che il
riconoscimento era andato male, chiese di poter ritrattare e ritentare (manco
fosse una lotteria) il confronto all’americana. Questa volta indicò il Carmelo
giusto, lo Zappulla appunto, che per quello scherzetto si era fatto 18 mesi di
galera, prima di essere scarcerato con tante scuse.
La perizia
psichiatrica svolta sulla Fort ad opera del professor Saporito aveva tolto di
mezzo ogni dubbio: era sana di mente, e
di una intelligenza superiore alla media. E dalle risultanze dell’istruttoria,
era sola quella sera.
La difesa
tuttavia voleva allora una risposta: di chi era il mazzo di chiavi e la penna
stilografica rinvenuti nell’appartamento? Per forza dovevano essere di un
complice, visto che non erano di Caterina Fort, nè del Ricciardi.
Tuttavia non vi
fu mai data una risposta alla domanda.
La sentenza
emessa dalla corte d’assise di Milano fu infatti la seguente: Canterina Fort
era colpevole di omicidio volontario nei confronti della signora Franca e dei
piccoli Giovanni, Giuseppina, Antonio, e di simulazione di reato per quanto
riguardava la rapina e di calunnia a danno di Giuseppe “Carmelo” Zappulla. La
condanna fu l’ergastolo con isolamento diurno per sei mesi, interdizione
perpetua dai pubblici uffici e interdizione legale. In separato giudizio civile
sarebbero poi state valutate le spese per i risarcimento danni.
La condannata
rimase poco a San Vittore: presto fu trasferita nel carcere di Perugia.
Nel 1951 il
processo venne nuovamente celebrato, dopo apposito ricorso per Cassazione,
davanti alla Corte d’Assise di Bologna.
Si riproposero
la audizioni di testimoni a favore della Fort, e si riavanzò l’accusa che la
confessione della Fort, quella avvenuta in questura, fu il frutto di un
interrogatorio disumano, lunghissimo, senza rispetto per la sua dignità; una
situazione, insomma, che avrebbe spinto chiunque a confessare cose non
commesse.
L’unico
testimone che forse avrebbe potuto scagionare la “belva” era quel ragazzo che
l’aveva incontrata la sera dell’omicidio, il Terzaghi. Ma ancora una volta
confermò, pur tra molti “non ricordo, è passato troppo tempo”, che la Fort era
sola, e che a lui, per quel che gli era parso, nessun uomo le camminava a
fianco. Inutili furono le grida della Fort: “Ero accompagnata!!! E tu lo sai!”.
Il teste fu invitato ad accomodarsi.
Fu ascoltato di
nuovo il Riccirdi, ma la sua versione non si scostò da quella già sentita a
Milano. Mai aveva mandato la Fort ad ammazzarle moglie e figli, e lui in quei
giorni a Prato c’era andato per affari, non per un alibi o cose del genere.
Insomma, il
processo di Bologna era semplicemente un “dejà vu”. L’unica scossa fu data
dalla lamentela avanzata alla Camera dei Deputati dal Calamandrei, a causa
dell’interrogatorio svoltosi in Questura. Ne seguì anche un’inchiesta e la
solita polemica politica.
Il 9 aprile 1952
fu letta la condanna: ergastolo.
Caterina tornò
nella casa di reclusione di Perugia, dalla quale scrisse molte lettere al suo
avvocato. Tra le tante frasi, forse la più inquietante fu: “Non è la quantità
della pena che mi spaventa. C’è una parte del delitto che non ho commesso e non
voglio”.
Epilogo
Il ricorso in
Cassazione venne preso in esame il 25
novembre 1953. Purtroppo per la Fort, non vi fu alcun colpo di scena, e
l’ergastolo, ancora una volta, venne confermato.
Rimase a Perugia
fino al 1960, poi per motivi di salute, venne mandata a Trani, dal clima più
mite.
Poi un’altro
cambio di cella, questa volta a Firenze.
Il 12 febbraio
1975 (dopo quasi trent’anni di carcere) ottenne la Grazia per buona condotta
dal Presidente della Repubblica.
Pochi mesi prima
era morto Pippo Ricciardi.
Caterina Fort
morì a Firenze, d’infarto, nel 1988. La sua ostinata ed ultima versione fu
sempre quella di aver agito sotto la spinta materiale e morale di un complice
del Ricciardi: Carmelo.
Ma quel Carmelo,
per la storia e la giustizia italiana, non era mai esistito.
Bibliografia
Buzzati, D.,
Cronache nere, a cura di O. Del Buono, 1989;
Cecchini L.,
Dieci grandi processi di amore e morte, 1965;
De Matteo G.,
Contro Caterina Fort-testo stenografico della requisitoria, 1950;
Del Buono O.,
Boatti G., Rina Fort: due uova dopo la strage, 1989;
Fasanotti P.M.,
Gandus V., Mambo italiano, 2000;
Marsico A., Il
delitto di Rina Fort, gli insegnamenti del suo processo, 1949;
Si leggano
inoltre, per un buon resoconto della cronaca di quei concitati giorni, le
seconde pagine del “Nuovo Corriere della Sera”, dal 1° dicembre al 14 dicembre
1946.
Ultima modifica: lunedì 5 gennaio 2004
maucolombo@hotmail.com
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