Viviamo nel
mondo,
ma non siamo del mondo
Gv 17, 14)
La cangiante biografia di Paolino, vescovo di Nola
di Maria Grazia Tolfo
Paolino da Nola
Affresco del X secolo nella chiesa di S. Maria Assunta a Pernosano
Pago del Vallo di Lauro (Avellino)
L’agiografia
di Paolino si trova ripetuta con le stesse parole sul web, in tutte le lingue.
Ne usciva un’immaginetta piatta, senza ombre, senza spessore, assolutamente
incongrua per un giovane senatore che era scappato immediatamente da Roma per
dedicarsi alla vita religiosa. Chissà se era possibile costruire un racconto
della sua vita attorno ai silenzi e rispettando le dissonanze?
Il suo
ambiente di provenienza era l’Aquitania, una grande tenuta a Ebromagus sulla
Garonna, presso l’attuale Langon.
Oltre ai possedimenti aquitani, la famiglia di rango senatorio aveva beni nella
Gallia Narbonense e in Campania, dove il piccolo
Paolino andò a visitare i parenti a Fondi e a Nola, non tralasciando una visita
al santuario di S. Felice a Cimitile.
Come data di nascita
si alternano due date, 353 o 355. Tutto nella biografia di Paolino è ambiguo, cangiante
e ciò ha permesso a chiunque si sia occupato di lui di stiracchiare i dati come
meglio gli conveniva, iniziando proprio da quello che viene considerato il suo
maestro, Decimo Magno Ausonio. Fu lui stesso ad attribuirsi il merito della sua
istruzione, quando avrebbe dovuto essere il primo a sapere che così non era
stato. Ausonio era nato a Burdigala intorno al 310, da famiglia gallo-romana, in
rapporti d’amicizia con la famiglia di Paolino. La sua fama di retore –
gonfiata dalla presenza gallica nel consistoro di
Valentiniano I – lo fece arrivare a Treviri come precettore del piccolo
Graziano. Lasciò l’università di Burdigala poco dopo
il 365, quando Paolino era ancora troppo giovane per frequentarla.
Inizio e fine di una promettente carriera
La tranquilla
vita sulle sponde della Garonna venne interrotta dalla morte del padre nel 376:
Paolino come capo-famiglia doveva andare a Roma e probabilmente in Campania a
sbrigare le formalità del caso.
In quest’occasione tornò al santuario di S. Felice a Cimitile e fece la
cerimonia della depositio barbae, il
primo taglio di barba che segnava l’ingresso ufficiale di un giovane nella vita
pubblica. Aveva scelto S. Felice come patrono e in quel momento Paolino non
poteva certo immaginare quale ripercussioni questo gesto avrebbe avuto nel suo
futuro.
Al suo arrivo
a Roma la posizione del suo concittadino Ausonio era al vertice: Valentiniano I
era morto lasciando il giovane Graziano al timone dell’impero. Ausonio aveva
approfittato dell’autorità che godeva sul suo pupillo per far assegnare a sé e
ai propri familiari ed amici le più prestigiose cariche pubbliche. Il governo
assunse un carattere meno militaresco, più senatoriale e culturale, ma
soprattutto molto gallico. Attorno a Graziano si addensavano pericolosi gruppi
di pressione: agli amici di Ausonio si contrapponeva il vecchio gruppo di
potere che ruotava attorno a Sesto Petronio Probo (ormai decaduto) e alla gens Anicia, ma sopra tutto c’era l’esercito
degli ufficiali pannonici di Valentiniano I che temevano una gestione troppo
debole dell’impero – e il disastro di Adrianopoli darà loro ragione.
Il 9 agosto
378 l’imperatore Valente, che governava la parte orientale dell’Impero, perse
la vita in una delle più tragiche sconfitte dei Romani ad opera di barbari, in
questo caso i Goti. Per il diciannovenne Graziano, data la sua inesperienza, fu
una catastrofe personale, ma forse anche per Paolino. Quell’anno infatti il
consolato era tenuto da Valente e dal nipotino Valentiniano II di sette anni.
Ora, cosa voleva dire assegnare a Paolino, appena piovuto in Senato da Burdigala, la
carica di console sostituto dell’imperatore in un momento di assoluto caos
nell’impero? Quasi dieci anni dopo, dalla sua residenza aquitana Ausonio
avocava al suo personale interessamento la carica di consul suffectus nel 378, era stata la sua
influenza – unita ai privilegi di nascita - ad assicurare a Paolino una
promettente carriera amministrativa,
Paolino doveva i suoi primi honores alla promozione di Ausonio;
da come si comporterà dopo questa esperienza si direbbe che il beneficato
valutasse diversamente l’onore, mentre tutti gli agiografi si conformano alla
retorica ausoniana.
Nel 379 la
carica consolare verrà rivestita dallo stesso Ausonio e da Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio, imparentato
con la gens Anicia, poi l’impero sarà
nelle mani di un altro ispanico, Teodosio. Paolino invece scompare dalla scena fino al 380-381, quando “grazie ad
Ausonio” diventa consularis sexfacalis Campaniae, ossia governatore col diritto a sei fasci e
una scure. Incredibile che il suo “benefattore” fosse riuscito a favorire
Paolino quando lui stesso era dovuto tornare a Bordeaux perché Graziano aveva
trasferito la corte a Milano ed era entrato nell’orbita del vescovo Ambrogio. E’ più facile che Paolino fosse riuscito ad ottenere il
governatorato di un luogo dove aveva i suoi possedimenti grazie
all’interessamento di altri senatori, senza dover ricorrere all’emarginato
Ausonio.
A Roma Paolino
doveva aver seguito l’alacre attività edilizia di papa Damaso,
che cercava con la scoperta delle reliquie e la fondazione delle nuove
basiliche di rilanciare Roma in concorrenza con Costantinopoli. Nel 379 Damaso era andato a sciogliere il voto a Cimitile sulla
tomba di S. Felice e sembra strano che Paolino non fosse lì a presenziare (dopo
tutto si era conquistato un posto di riguardo nella gerarchia!).
Forse aveva
fatto parte del seguito di Ausonio nella sua visita a Milano nel 379, grazie
alla quale l’aulico poeta comporrà un decennio più tardi l'Ordo nobilium urbium,
dove elenca in ordine d'importanza 1. Roma, 2. Costantinopoli 3. Cartagine, 4. Antiochia,
5. Alessandria, 6. Treviri, 7. Milano e 8. Capua tra le venti città più nobili
dell'impero. I Milanesi riconoscenti hanno copiato la descrizione ed eretto una
statua ad Ausonio sulla facciata delle Scuole Palatine.
Statua di Ausonio sulla facciata delle Scuole Palatine
Piazza Mercanti - Milano
La sede del
governatore della Campania era Capua, ma Paolino ottenne di poter gestire i
suoi affari da Nola, forse per segnare un distacco dalla gens Anicia che aveva una
sorta di patronato su Capua. Tra le altre sue incombenze, si dedicò al
santuario di Felice, che ebbe una strada verso Nola e un ricetto per poveri
pellegrini. Non sappiamo cosa fece una volta terminato il suo mandato, perché
tutte le agiografie riportano l’insinuazione di Ausonio: la promettente
carriera di Paolino fu stroncata dall’usurpatore Magno Massimo, cosa che
sappiamo non essere vera.
L’imperatore
Graziano era morto a Lione il 25 agosto 383, assassinato dal generale Andagrazio che partecipava alla secessione di Magno
Massimo. Nessuno aveva perdonato a Graziano di essersi trasferito a Milano,
lasciando sguarnita Treviri e di essersi avvicinato troppo al vescovo Ambrogio.
Secondo
l’agiografia Paolino riesce a fuggire in Aquitania con Ausonio per evitare le
epurazioni e suo fratello perde tragicamente la vita. I documenti raccontano
un’altra storia: Ausonio se n’era andato già da tre anni perché sostituito dal
vescovo Ambrogio come mentore di Graziano, Paolino era ancora a Milano presso
Ambrogio alla fine del 383 e quando torna a casa lo fa per scelta e non per
necessità.
Ausonio tenterà di inserirsi ancora una volta nei giochi imperiali proponendosi
come mediatore a Treviri tra Magno Massimo e Valentiniano II, ma nessuno lo
vuole più tra i piedi e lui torna a Bordeaux definitivamente, vendicandosi con
l’attribuire a Massimo tutte le colpe delle disgrazie sue e di Paolino.
Paolino tra Ambrogio, Martino e...Priscilliano
Dunque Paolino
era a Milano presso Ambrogio pochi mesi dopo la morte di Graziano. Il carteggio
intercorso tra i due è andato malauguratamente perso, ma riannodando il filo
fra questo momento e quello che succederà a breve nella vita di Paolino si può
arguire che lo considerasse un suo consigliere spirituale. In fondo, a parte la
sua breve permanenza campana, durante il soggiorno romano aveva dovuto subire
due morti violente di imperatori, di cui l’ultimo suo coetaneo e forse
conoscente personale. Una personalità tranquilla e sensibile come dimostrerà di
essere negli anni successivi non poteva rimanere impassibile di fronte a queste
ripetute tragedie, che mettevano profondamente in crisi la sua coscienza.
Quando scrive ad Ausonio da Ebromagus tra il 384 e il 385 gli confessa di essere stato
vittima di un periodo di malessere psicofisico e che nel ritiro dell’otium ruris stava
maturando un cambiamento spirituale.
E’ un passaggio delicatissimo della vita di Paolino, che le
biografie sorvolano perché a distanza di oltre un millennio impera ancora la damnatio memoriae su alcuni personaggi
della Chiesa del IV secolo. Sappiamo dalla sua stessa fonte che Paolino era
turbato, che era oggetto di calunnie, che si era tolto dalla cosa pubblica e
dallo strepito del foro mettendosi a peregrinare. Sta parlando di Bordeaux, non
di Roma!
Era in contatto, oltre che con Ambrogio, con Martino di Tours, che raggiunge
nel 386 a Vienne nel Delfinato, dov’era convenuto anche un altro personaggio
che avrà grande importanza nella vita di Paolino, il vescovo Vittricio di Rouen.
Che succedeva
a Vienne per far accorrere da ogni luogo della Gallia eminenze religiose? Forse
perché erano arrivate le reliquie di Gervasio e Protasio da Milano? Dopo una
Pasqua di occupazioni di basiliche e lotte contro la corte ariana, il 17 giugno
386 Ambrogio aveva riesumato dal cimitero presso la basilica di Nabore e Felice
le spoglie “anonime” dei due “martiri”: che fossero tali e che nome avessero
era opera di “invenzione”, ossia ispirazione divina. Era la strategia
escogitata da Ambrogio per tenere unita la sua Chiesa nei momenti di pericolo,
quando il gregge poteva disperdersi. Nella tarda estate o autunno dello stesso
anno particole o brandea
dei due martiri circolavano in tutto il mondo cattolico. Martino consacrerà a
Vienne nel cimitero una memoria con
parte delle reliquie, che diventerà subito meta di pellegrinaggio.
Altre reliquie finiranno a Rouen, ma la ecclesia
civitatis costruita da Vittricio,
probabilmente presso una necropoli, non è più identificabile.
Ma non erano
andati a Vienne per le reliquie, quelle dovevano semmai servire da collante.
Martino proveniva da Treviri, dove aveva fatto l’ultimo tentativo di evitare
l’esecuzione di altri priscilliani, tutti accusati di magia-astrologia, ma la
missione era fallita ed aveva rischiato la sua stessa vita. Lo scriverà Sulpicio Severo, amico e concittadino di Paolino, nel suo Terzo Dialogo, dicendo che per la
scelleratezza dei tempi questo episodio aveva dovuto restare nascosto.
Che ci faceva
Paolino a Vienne con loro? Perché proprio Vienne? Intanto che c’era, Martino
guarì un disturbo all’occhio di Paolino, una cura oftalmica troppo semplice per
giustificare un viaggio, per cui gli esegeti l’hanno voluto interpretare come
metafora: Martino gli aveva aperto gli occhi, su quale panorama? Chi riporta il
fatto è Sulpicio Severo nella Vita di S. Martino, ma
Paolino non sostanzierà mai con una testimonianza il “miracolo”.
Nelle
agiografie di Paolino si afferma che andò a Milano a farsi dare le reliquie di
Gervasio e Protasio direttamente da Ambrogio, abbiamo capito che non ne avrebbe
avuto necessità, visto che ormai era tardo autunno e poteva averle a Vienne.
Invece prosegue per Milano per incontrarsi con il vescovo, che ha eletto a suo
mentore. Ecco i silenzi intorno ai quali bisognava comporre una storia, perché
c’erano ferite nascoste che andavano medicate.
Un inciso doveroso su Priscilliano
Gli incontri
con Martino e Ambrogio e il repentino cambio nello stile di vita di Paolino
potrebbero leggersi all’interno della triste vicenda di Priscilliano. Era di
famiglia nobile galiziana – gode di un culto personale a Santiago di Compostela
-, regolarmente vescovo, col “difetto” di prendere il messaggio evangelico alla
lettera, per quanto riguardava beni materiali e organizzazione del clero. Non
mancano anche ai nostri tempi esempi di vescovi “coraggiosi”, soprattutto nelle
zone più povere o compromesse del mondo.
Quello che
disturbava del rigore di Priscilliano non era tanto la difesa dei poveri,
quanto l’indifferenza ai testi canonici che non usava nelle sue prediche. I
disordini fra le diverse fazioni all’interno delle Chiese ispaniche avevano
indotto il vescovo di Merida Idazio
a rivolgersi ad Ambrogio, per ottenere da Graziano un rescritto di scomunica ed
esilio, cosa che avvenne.
Dal momento
che credeva nell’autorità pontificia, Priscilliano si appellò a papa Damaso perché annullasse il rescritto di Graziano, ma non
venne ricevuto. La piccola delegazione si diresse allora a Milano da Ambrogio,
ispiratore del rescritto firmato da Graziano. Volevano espogli
le loro ragioni, ma Ambrogio non li ricevette. Ne approfittò il magister officiorum
Macedonio, che a corte era una potenza, dirigeva diversi officia del palazzo, dalla segreteria alla schola di agentes in rebus, i corrieri
imperiali che avevano il compito di spionaggio nelle province... ed era un
dichiarato nemico di Ambrogio. E’ solo all’interno
della lotta fra Chiesa e Stato che s’inquadra il grosso successo che i
priscillianisti ottennero a Milano, aumentando la diffidenza di Ambrogio.
Macedonio ottenne a sua volta un nuovo rescritto da Graziano, con cui si
ordinava la restituzione delle chiese ai priscillianisti. Graziano era sempre
pericolosamente sulla linea del fuoco incrociato.
Tra i più
tenaci oppositori delle procedure tenute durante l’inchiesta ci fu Martino di
Tours, anch’egli coinvolto nell’accusa, come altre persone semplicemente dedite
a pratiche ascetiche. Paolino non si dichiarerà mai priscillianista, ma è
probabile che attirasse parecchi sospetti in quel ambiente bordolese così
pronto alla lapidazione. Quando deciderà di vendere tutto e ritirarsi in Spagna
non farà che confermare i sospetti sul suo conto, visto che lì si trovavano le
frange superstiti della setta.
Qualcosa era
comunque cambiato dopo la condanna di Priscilliano e per raccogliere pur labili
indizi ci sostiene lo scambio epistolare con Ausonio, che appena tornato dall’Italia
nel 384 lo mostra appartato nel suo otium litteratum di ricco e colto proprietario terriero,
ma nelle lettere dopo il ritorno dagli incontri con Martino e Ambrogio non
riesce più a entrare in sintonia col giovane amico. Papa Siricio
aveva infine indirizzato una lettera ai vescovi spagnoli per la riammissione
dei priscillianisti nella Chiesa, ma ancora nel 390 Ambrogio convocherà un
sinodo a Milano per pacificare i vescovi indignati per la condanna a morte di
Priscilliano.
Inutile
cercare dichiarazioni di aderenza al priscillianesimo in Paolino. La preghiera
che Paolino aveva composto nel Carme IV al suo ritorno dall’Italia non aveva
niente di estremistico: “Nessun giorno
sia per me velato di tristezza (...). Non ambisca io ai beni altrui, anzi metta
i miei a disposizione di quanti si rivolgono a me. Nessuno abbia in animo di
farmi del male (...) e io non abbia la possibilità di volere il male (...)
L’anima sia contenta di quello che ha. Vinca le attrattive del corpo ben decisa
nella castità coniugale.” Una casa fiorente, schiavi ben nutriti, fedeli
clienti, domestici dignitosi, sposa casta e figli, ecco cosa chiedeva nelle sue
preghiere Paolino prima che Priscilliano venisse giustiziato e la povera Urbica
lapidata. Era tornato da Roma spaventato dalla crudeltà della politica, ma
ancora si comportava da ricco possidente, preoccupato di leccornie e
cacciagione da condividere con i vicini.
Dopo il “martirio” dei priscillanisti scopriva che
anche la religione poteva essere non meno pericolosa.
Costruire intorno al silenzio: la svolta del 389
Dal suo
ritorno da Milano nel 387 alla Pasqua 389 Paolino si prepara al battesimo e si
predispone per la vendita dei suoi beni, ormai intenzionato a lasciare il luogo
che si era macchiato di un tale efferato delitto contro una povera donna
inerme. Ma non può palesare le sue intenzioni senza mettere a repentaglio la
sua stessa vita, deve stare il più ritirato possibile senza mancare agli
obblighi sociali. I vescovi locali sono ben lontani dall’aderire alla
riammissione dei priscillianisti e forse medita di trasferirsi in Spagna. Si
descrive isolato nelle sue terre nell’Epistola 5 all’amico Sulpicio
Severo, che lo rimprovera di essersi sottratto ai suoi doveri pubblici per
dedicarsi al giardinaggio. Nel 397, dal suo rifugio di Cimitile, potrà
rispondere a quel rimprovero: “Ebromagum enim non hortuli causa, ut scribis, reliquimus, sed paradisi illum hortum praetulimus et patrimonio
et patriae”.
Viene
preparato al battesimo da Amando e a Pasqua si fa battezzare nella basilica di
S. Stefano
a Burdigala dal vescovo Delfino, quello che aveva
guidato il famigerato concilio di condanna di Priscilliano e conclude la
vendita in lotti delle sue tenute, fatta un po’ alla volta forse per non dare
troppo nell’occhio. Ausonio deprecherà che abbia disperso in cento parcelle il
regno del vecchio Paolino, padre o forse nonno. Camille Jullian nel suo libro
romanzato su Ausonio interpreta con sentimenti ottocenteschi il clamore che
ebbe la decisione di Paolino di abbandonare tutto: “Era uno degli uomini più ricchi, più nobili, più fortunati del mondo
romano. Aveva immensi possedimenti, dei veri regni, sulle rive della Garonna
(...) L’Impero lo considerava un suo pilastro, uno dei pochi che nei momenti di
crisi sarebbe potuto essere un sostegno o un’estrema speranza. Ma un giorno,
quel essere fortunato, colpito da chissà quale improvvisa e misteriosa
malinconia, abbandonò tutto per consacrarsi a Cristo”.
Palesate le
sue intenzioni, che ormai erano state tradotte in fatti, deve fuggire lasciandosi
dietro l’accusa di aver provocato la morte violenta del fratello. Il silenzio
su questa vicenda è assordante: c’è chi incolpa i seguaci del defunto
imperatore Magno Massimo, chi lo stesso Paolino - che non fa niente per
alleviare il suo senso di colpa. Forse andavano messe insieme le due versioni:
i seguaci di Massimo erano gli avversari di Priscilliano e Paolino aveva in
ogni caso coinvolto il fratello nelle sue decisioni di vendita. La proprietà
del fratello non venne comunque intaccata, visto che veniva citata ancora da
Ausonio come confinante con la sua.
Il precipitoso
abbandono dell’Aquitania era avvenuto in autunno e la destinazione era Complutum. Il motivo della scelta di quella
cittadina non è rivelato da Paolino e nessuno azzarda ipotesi. Nel Carme 21
rivela che in quell’occasione aveva fatto voto a S. Felice perché dimostrasse
la sua estraneità (proprio come aveva fatto papa Damaso).
Con le epistole 35 e 36 indirizzate a Delfino e Amando di Bordeaux esprime il
peso della colpa che prova per la morte del fratello e il senso d’inadeguatezza
della sua coltivazione spirituale per affrontare una simile prova.
Si parla di un’inchiesta, di scampata confisca di beni – quindi non aveva
liquidato tutto...
Fino a quel
momento non era ancora entrata in scena Therasia (Terasia), ricca orfana cristiana battezzata di Complutum, che
Paolino sposerà in quello stesso anno. Essendo arrivato in autunno, oltre alle
vendite in segreto aveva anche già combinato il matrimonio a distanza? Therasia è una delle figure femminili più silenziose ed
enigmatiche di tutta questa storia. Non sappiamo quanti anni avesse, come
apparisse, come fosse entrata in contatto con Paolino, di cosa si occupasse. E’ solo una fugace citazione nelle lettere o una firma
congiunta.
Ma anche questo silenzio intorno alla sua figura appare come una necessaria
strategia per evitare ulteriori aggravamenti della sua posizione. La spada di
Damocle del priscillianismo poteva cadere in
qualsiasi momento, come la convocazione del sinodo di Ambrogio stava a
dimostrare. Da un’epigrafe si deduce la presenza della coppia in Aquitania,
forse per il breve tempo necessario a presentare la moglie alla madre, rimasta
a Ebromagus.
Non fecero certo visita ad Ausonio, visto il risentimento che dimostra nella
sua Epistola 21.
Ausonio gli
scrive a Complutum
provocandolo: non gli risponde più perché è sottoposto a controllo di polizia?
Ha bisogno di un inchiostro simpatico? Vuole un codice segreto? Non è capace di
sottrarsi alla censura della moglie?
Questi versi, che suonano come un rimprovero per la moglie troppo possessiva e
bigotta che impediva a Paolino di esprimersi come sempre aveva fatto, sono
stati interpretati come se Paolino dovesse difendersi da un delatore e dal
magistrato che indagava sui crimini (Vel si tibi proditor instat auto quaesitoris grauior censura timetur), invece esprimono l’incredulità che Paolino
possa snobbare il vecchio amico di famiglia, verso il quale aveva dei
doveri...di riconoscenza. Nella sua logica, non poteva essere colpa di Paolino,
ma solo della perfida moglie Therasia, che neppure
vuole nominare.
Silenzio.
Nella successiva Epistola 22 Ausonio si accanisce contro il suo ex protetto
sfruttando tutte le regole della retorica di cui era maestro. Il cambiamento di
Paolino è imputabile alla terra dove ha scelto di vivere, la Spagna, un paese
inadatto ad ospitare un alto magistrato romano. E’
quella la fine dei patrios honores,
della posizione sociale della famiglia? Se qualche cattivo consigliere (moglie)
lo sta inducendo al silenzio, allora che possa perdersi impazzendo muto come Bellerofonte sulle Alpi! Paolino capì subito l’antifona,
visto che quando si risolse a rispondere non usò mezzi termini. Ausonio stava
usando contro di lui gli argomenti utilizzati per condannare i nobili che
volevano seguire le regole monastiche, “soprattutto l’accusa di diserzione
sociale e di patologico rifiuto del consorzio umano e civile”.
Ambrogio venne informato di queste accuse e le ribalterà al momento opportuno:
“Quando gli uomini importanti
apprenderanno queste notizie cosa diranno? Un membro di così illustre famiglia,
un discendente da stirpe così insigne, così dotato da natura, fornito di tanta
eloquenza, avere abbandonato il senato, avere interrotto la successione del suo
nobile casato: è una cosa che non può essere tollerata!”
Pelagio, Gioviniano
e le nozze del clero
Comunque nel
390 la vita della giovane coppia si svolgeva nel rispetto dei dettami cristiani
– più o meno priscilliani – ma conformi alla preghiera che Paolino recitava:
moderazione nelle spese, carità ai poveri, moglie pia e casta... e figli. Si
era fatto battezzare in previsione della sua carriera ecclesiastica, ma con Therasia al suo fianco la vita era cambiata.
Therasia rimase incinta nel 390 e perse il piccolo Celso a una
settimana dalla nascita nel 391. Il piccino ebbe la sua cappella personale
accanto al martyrium
dei piccoli martiri Giusto e Pastore, due fratellini che rappresentavano il
culto dei santi innocenti presente ovunque. Lo presero come un segno divino,
che li spronava verso la vita ascetica che avevano già scelto ognuno per conto
proprio prima del matrimonio. Paolino non poteva più farsi prete, perché un decreto
di papa Siricio del 10 febbraio 385 imponeva al clero
il celibato.
A ben guardare
c’era una corrente all’interno del cattolicesimo, capeggiata da Gioviniano, che ammetteva il matrimonio dei religiosi.
Poteva essere una scappatoia, ma la strada sembrava irta di ostacoli. In quello
stesso periodo, dal 390 al 392, si tenne un sinodo di condanna e scomunica di Gioviniano e di otto suoi seguaci, ribadita anche da Ambrogio,
che a sua volta convocherà un sinodo per i vescovi della sua grande diocesi.
Nel 393 anche Gerolamo dal suo eremo di Betlemme pubblicò un libello contro Gioviniano, che Paolino volle leggere.
Solo dopo
averlo studiato, alla metà del 393, si decide a rispondere ad Ausonio dopo anni
di silenzio coi due Carmina 10 e 11. Gli confessa che non se la sente più di
stare al gioco letterario, ormai le antiche convenzioni culturali che si
rifanno a dèi e muse sono inconciliabili con la sua
nuova cultura, che pretendeva la totale immersione nelle Scritture. “Un’altra forza guida la mia mente, un Dio
più grande, ed esige altri costumi”.
Si sente irrimediabilmente attratto da un modello di vita monastico, ma non ha
ancora intrapreso alcun passo al riguardo.
Visto che
Paolino ha risposto, Ausonio non può più rimproverargli il silenzio, ma non
ribatte ai contenuti della lettera ricevuta, li sorvola per ritornare sulle sue
rimostranze. In quest’ ultima epistola (23) si rammarica di non avere più
argomenti in comune, di appartenere a due mondi diversi. Paolino non è più un cives romano, ma
cristiano e i legami di parentela ereditati dai reciproci genitori - e quindi
tenuti per devozione a rispettarli – sono ormai disonorati (v. 9). Paolino si
sente legato proprio a quello (Martino) che sta distruggendo nella Gallia
meridionale le tradizioni e gli antichi santuari (v. 239ss)!
Ausonio
avvertiva la morte del suo mondo e soffriva nel doverla attribuire anche al suo
ex pupillo. Il monachesimo era l’aspetto più avversato dai tradizionalisti
romani, sia che fossero cristiani moderati sia che fossero rimasti
paganeggianti. L’otium
era diventato lo spazio di meditazione sulle scritture, l’impegno politico si
era riversato sulla gestione di diocesi o episcopati, il rispetto del mos maiorum era
ormai cura per la tradizione ecclesiastica.
Monaco e prete per acclamazione popolare
Gerolamo nel
394 risponde dal monastero di Betlemme a una richiesta (persa) di Paolino per
consigli di studio scritturale, da cristiano che vuole farsi monaco. Fino a
quel momento non si conoscevano. Perché Paolino si rivolge anche a lui? Intorno
a questo silenzio c’è in realtà l’impronta del periodo romano e degli ambienti
che aveva frequentato quando era senatore, per esempio la domus di Pammachio (340-409), senatore
cristiano, marito di Paolina, la figlia di quella Paola che aveva seguito a
Betlemme Gerolamo.
Paolino non
aveva conosciuto Gerolamo, che era arrivato solo nel 382 a Roma ospite nella
casa della nobile Marcella sull’Aventino, ma aveva conosciuto senz’altro
Marcella e Paola, un’altra nobile vedova che nel 379 si era unita a Marcella.
Erano appunto gli anni in cui Paolino era a Roma e frequentava in senato Pammachio. Quando Gerolamo alla morte di papa
Damaso – di cui era segretario – decise di lasciare Roma
per andare in Terrasanta, Paola e la figlia Eustochio
decisero di seguirlo. Tutte queste donne erano di alto rango, elevata cultura,
traduttrici dal greco e dall’ebraico, assistenti molto attive dell’intensa
attività letteraria di Gerolamo.
Pammachio era in contatto epistolare con la suocera e Gerolamo,
con cui discuteva di questioni teologiche, cercando di
ammorbidire la sua posizione contro Gioviniano. Si può
considerare Pammachio il tramite dell’inizio
epistolare tra Paolino e Gerolamo? Fu ancora lui a indirizzare Paolino verso i
vescovi del nord Africa? Pammachio aveva numerose
proprietà in Numidia ed era in contatto con quei vescovi, gli stessi ai quali
si rivolgerà senza conoscerli Paolino. Quanto ad esempio, dopo la morte di
parto nel 387 della moglie, si era fatto monaco e insieme a Fabiola, anch’essa
appartenente alla cerchia di Marcella e Gerolamo, aveva fondato lo xenodochio di Porto,
presso la foce del Tevere, destinato ad
ospitare gratuitamente i pellegrini poveri e i malati. Era l’interlocutore
perfetto per Paolino, che voleva fare la stessa cosa con Terasia
a Cimitile.
Gerolamo gli
risponde (Ep. 53) a Barcellona per esortarlo a
studiare la Scrittura con metodo e sotto una sicura direzione, senza cedere a
tentazioni poetiche nell’affrontare il simbolismo nella Bibbia. Per far ciò, lo
invita a Betlemme (Ep. 53, 10-11), rinunciando ai
beni temporali anche a discapito del guadagno: “Nemo renuntiaturus saeculo
bene potest vendere, quae comtempsit, ut venderet (...) si habes in potestate rem tuam, vende; si non habe, proice”.
Paolino sembra
averlo preso alla lettera, perché fece pubblica rinuncia ai suoi beni e
dichiarazione di vita monastica (anche Therasia?).
Pochi mesi dopo, la notte di Natale 394, Paolino venne consacrato presbyter dal
vescovo Lampio di Barcellona. Paolino informa l’amico
Sulpicio Severo di essere diventato prete e di aver
preso finalmente la decisione di partire per l’Italia appena dopo Pasqua (25
marzo),
per cui lo invitava a Barcellona per gli ultimi saluti. Scrive ad Amando di
Bordeaux (Ep. 2) per informarlo e confermarlo come
sua guida spirituale.
La lettera che
il vescovo Ambrogio indirizza nel 395 al vescovo Sabino non entra in merito al
ruolo prete/monaco: “1. Ho saputo che
Paolino, a nessuno secondo per la nobiltà della stirpe nella terra d’Aquitania,
venduti sia i propri beni sia quelli della moglie, ha adottato – in conformità
della sua fede – un tale tenore di vita per cui mette a disposizione dei poveri
se stesso col denaro ricavato e, fattosi povero da ricco,
come alleggerito da un grave peso dice addio alla casa, alla patria, alla
stessa parentela per servire Dio con maggior impegno. Si dice poi che abbia
scelto la solitudine della città di Nola per trascorrere la vita lontano dal
trambusto. 2. Anche la moglie è assai simile a lui nella virtù e nell’ardore, e
condivide il proposito del marito. Perciò, trasferiti in proprietà d’altri i
suoi poderi, segue lo sposo e là, contenta del modesto reddito del consorte,
troverà un compenso nei tesori della religione e della carità. Non ci sono
figli, e quindi desiderano una posterità di meriti”.
L’unico che
sembra dimostrare sconcerto è Gerolamo nella risposta (Ep.
58 del 395) a una lettera di Paolino, che lo informa di aver “accettato”
l’ordinazione a presbitero, pur essendo monaco, e di non sapere come
comportarsi: “Dal momento che mi
interroghi come confratello in quale sentiero devi camminare, te lo dirò
francamente. Se vuoi fare il prete, se forse ti attirano gli uffici e gli onori
dell’episcopato, allora vivi in città e castella e fai della salvezza degli altri il profitto della tua anima. Ma se
vuoi essere quello che sei, un monaco, cosa hai a che fare con le città, che
certamente non sono i luoghi della solitudine ma della folla?”
Prima di
approdare a Nola era però doveroso per Paolino presentarsi a papa Siricio, in ottimi rapporti con Ambrogio, ma non ricevette
l’accoglienza che un uomo del suo rango si aspettava, anzi, venne trattato con urbici papae superba discretio,
diffidente alterigia.
Qualche problema in effetti l’ambiguità di Paolino lo poteva creare.
Residenti della città sacra
La sua
decisione aveva fatto evidentemente scalpore, visto che quando arrivarono a
Nola trovarono già le lettere di congratulazione dei vescovi del nord Africa...
ma perché del nord Africa e non della Gallia? Alipio di Tagaste
gli inviava cinque libri scritti da Agostino e gli chiedeva una copia delle
Cronache di Eusebio; Paolino gli rispose (Ep. 3)
chiedendogli un suo curriculum (non
conosceva né lui né Agostino) e insieme alla risposta ad Alipio aggiunse una
lettera per Agostino (Ep. 4), al quale descrive la
sua consacrazione in modo curioso: “a Lampio apud Barcilonem
in Hispania per vim inflammatae subito plebis sacratus sim”, Lampio era stato costretto all’ordinazione dal popolo,
com’era successo con Ambrogio, del quale nella stessa lettera dice “mi ha istruito nei misteri della fede, mi dà
tuttora i consigli necessari per adempiere degnamente i doveri del sacerdozio,
lui mi ha fatto la grazia di associarmi al suo clero, di modo che, in qualunque
luogo io mi trovi, sono sempre considerato come un presbitero della sua Chiesa
milanese”.
Quando gli
scrisse questa lettera, Agostino non era ancora stato eletto vescovo di Ippona,
apparteneva al clero di Tagaste. Paolino doveva
sapere che Agostino era stato battezzato a Milano da Ambrogio, eletto vescovo –
si diceva - per acclamazione. Che necessità aveva di ricorrere anche lui a
questo topos? Era una confessione fra
le righe: “stavo ascoltando la messa di Natale quando a furor
di popolo sono stato fatto sacerdote... comunque Ambrogio avrebbe approvato
perché mi considerava già dei suoi.” Alipio era appena stato ordinato vescovo,
Agostino lo sarà pochi mesi dopo a Ippona, perché questa scelta di vescovi
africani? Persino il modello architettonico che Paolino sceglierà per la sua
basilica triconca si richiamerà a quelli del nord Africa. Eppure nelle due
lettere scritte da Paolino dalla Spagna a Sulpicio e
Amando parla di una piega imprevista degli eventi nella sua ordinazione,
dell’ansia che gli provocavano le nuove impreviste responsabilità.
Il 14 gennaio
396 un commosso Paolino poteva festeggiare S. Felice da residente. Nel secondo Natalicium (Carme
13) afferma di essersi sempre rivolto a lui nelle sue sventure: “nam te mihi semper ubique propinquum/inter
dura viae vitaeque incerta
vocavi”.
Non si fatica a credergli, vista la sua propensione a camminare sul filo del
rasoio.
Le frequentazioni pelagiane
“Intorno al
400-403 Giuliano, pur essendo membro del clero, non si fece scrupolo di
sposarsi dopo aver ricevuto gli ordini minori. La cosa non destò alcuno stupore
perché sia lui che la sposa erano figli di vescovi. Nell’epitalamio per la giovane coppia di sposi Paolino di Nola dipinse Giuliano e la moglie che, ritti davanti al
vescovo di Benevento, suocero di Giuliano, come Adamo ed Eva in paradiso al
cospetto di Dio, ricevevano l’esortazione 'crescete e moltiplicatevi!'”
Paolino farà
da Cimitile i suoi auguri anche a Eucherio e Galla, giovani sposi in ritiro
nell’isola di Lero vicino a quella di Lérins: “Impegnati nello studio e anelanti al cielo con quel cuore uno e
indiviso con cui avete abbandonato le cose della terra”.
Del resto
anche Brizio che aveva ereditato da Martino il monastero di Marmoutier
presso Tours viveva monasticamente con la moglie, suscitando le ire di
Gerolamo. Nella sua Epistola 22, 14 irrideva le vergini che rinunciavano alla
convivenza col fratello di sangue per cercare un altro fratello con cui
condividere l’esperienza monastica, lasciando intendere ben altro.
Anche in
questo caso Paolino si mosse sul filo del rasoio. Proclamò in ogni occasione
che lui e Terasia erano ormai fratelli, cercò di
tenerla al riparo da tutte le voci, ma se restano ancora dubbi sui suoi
sentimenti basta leggere cosa diede da scrivere al suo amico Sulpicio Severo, al quale invierà un frammento della Croce
per la sua basilica di S. Chiaro a Primuliacum: “Accogli
benigno questi voti di peccatori che ti pregano di ricordarti di Paolino e Therasia (...) tu non puoi dividere quelli che sono profondamente
uniti (...) perciò abbracciaci così, come fratelli inseparabili e, così uniti,
amaci partecipando alla nostra unione”.
Dopo queste
parole il silenzio di cui rivestì Therasia si lascia
leggere come un estremo atto d’amore e protezione verso la donna alla quale era
così intimamente unito. Tutto l’ambiente che lo circonda e che lui cita nelle
lettere viene classificato “pelagiano”, senza che lui venisse toccato da alcun
provvedimento. Nel 417, quindi molti anni dopo il suo arrivo e il concomitante
coinvolgimento, Agostino scrive a Paolino: “Siamo
venuti a conoscenza che hai amato Pelagio il
Britanno considerandolo un servo di Dio per via del libero arbitrio. Il
peccato viene da Adamo e la grazia è necessaria.”
E’ l’unica voce che, pur tardivamente, si alzi ad ammettere
che Paolino era (stato) pelagiano. Il caso di sue due parenti ci aiuta anche a
comprendere meglio la portata della dispersione patrimoniale della classe
senatoriale in nome della povertà evangelica, quella che dallo storico Andrea Giardina
è stata definita “la carità eversiva”.
Le pelagiane Melania seniore e juniore
Paolino dice
che era legato a Melania Seniore da vincoli di sangue, ma non specifica il tipo
di parentela. Era ispanica di nascita, una quindicina d’anni più vecchia di lui,
molto intraprendente. Rimasta vedova, aveva lasciato la gestione dei suoi beni
al figlio Valerio Publicola e si era messa al
servizio delle comunità eremitiche di Egitto e poi di Palestina, fondando lei
stessa un monastero sul Monte degli Ulivi. Paolino la considerava “virile”, non
si capisce fino a dove fosse un complimento o una constatazione di parità dei
sessi nella Chiesa.
Paolino la
incontrò a Cimitile, dove lei gli fece dono di una scheggia della Vera Croce
per consacrazione la nuova basilica cattedrale. “(...) impressionò i suoi raffinati parenti campani per l’abitudine di portare
la veste nera, di cavalcare l’asino e di leggere libri fino a tarda notte.”
L’anziana Melania cercava di perorare la causa del suo consigliere Rufino
d’Aquileia, che diversamente da Paolino non sapeva rimanere sul filo del
rasoio, poi se ne era tornata al suo monastero al Monte degli Ulivi. “Il profondo odio con cui Girolamo offese
la sua memoria (...), definendo le sue concezioni teologiche sciocchezze da
“vecchia rimbambita con un perfido cuore”, ci permette di dedurre quanto
Melania fosse diventata famosa tra i suoi contemporanei.”
Rufino rimase
in carico a Melania Juniore, che per qualche tempo
visse con il marito Piniano e altri congiunti nella
città sacra di Cimitile. All’approssimarsi dell’invasione gotica lasciarono la
Campania e passarono in Sicilia:
“in una villa siciliana affacciata sullo stretto di
Messina dalla quale, nel 410, Rufino e i suoi compagni asceti videro i Goti
incendiare e depredare le città della sponda opposta dopo il sacco di Roma.
Ormai l’alta società romana, un tempo tanto spavalda, era allo sbando”
Lo storico
Andrea Giardina aveva coniato il termine “carità eversiva” proprio ispirandosi
alle decisioni della giovane Melania, che
richiamavano quelle di Paolino e Therasia e di molte
altre coppie appartenenti alle famiglie senatorie romane. Nel 404, quando la
giovane coppia decise di disfarsi dei beni in Spagna, Aquitania e nelle Gallie, mantenendo solo le proprietà in Campania, Sicilia e
Nordafrica per mantenere i monasteri, scoppiò il
pandemonio tra i parenti: Publicola, il padre di
Melania, minacciò di ricorrere all’adozione pur di avere qualcuno in grado di
gestire le loro sterminate ricchezze. Era stato pronto a finanziare le
stravaganze caritative della madre, ma era assolutamente intransigente di
fronte al fanatismo religioso della figlia, per altro sostenuta da sua moglie
Albina.
Il fratello di Piniano,
Valerio Severo, cercò in tutti i modi di dissuaderli, ricorrendo anche ai
tribunali. Melania, che voleva fare l’asceta ma era ben conscia delle sue
prerogative sociali, si appellò direttamente a Serena, moglie di Stilicone e tutrice del piccolo imperatore Onorio. Da parte
sua Serena, avvalendosi di un diritto che non aveva, incaricò i governatori
provinciali di sorvegliare personalmente la vendita.
In pratica i due sconsiderati liberarono in massa 8000 schiavi impiegati nei
fondi rurali, dislocati in numerose provincie e gli altri schiavi del suburbio
romano furono presi dal panico, respinsero l’emancipazione e chiesero di
passare al servizio di Valerio Severo, il fratello di Piniano,
che dovette acquistarli per 3 nomismata (soldi) l’uno.
Nel 406 decisero di vendere anche
la ricca residenza romana per trasferirsi nei loro possedimenti campani.
Nuovamente si ebbe una sommossa, perché dal punto di vista degli schiavi-coloni
dei grandi latifondi senatori d’Occidente il timore della rovina economica era
più forte della libertà (a differenza del mondo orientale).
In tutto questo trambusto la nonna Melania ci mise del suo. Si era sempre
limitata a lasciare la gestione patrimoniale al figlio purché le versasse le
quote che le spettavano delle rendite, ora invece lo storico Palladio ci mostra
un altro quadro: “Dovette affrontare
tutti i membri dell’ordine senatorio e le loro mogli, che lottavano come belve
per impedirle di allontanare dal mondo ciò che restava del suo casato”.
Lo conferma anche Paolino nella sua Epistola 29, 11, che non poteva dimenticare
come era stato trattato dai Bordolesi.
In Sicilia la proprietà di Melania compredeva 60 villaggi ciascuno con 400 schiavi. Agostino e
Alipio di Tagaste, dei quali la coppia aveva grande
stima, li sconsigliano di vendere, piuttosto donassero immobili e rendite ai
monasteri. Comunque almeno una villa l’avevano tenuta, se nel 409 Melania, Piniano, Albina e Rufino d’Aquileia ci si rifugiarono
guardando le coste della Calabria in fiamme. Geronzio, il biografo di Melania
la Giovane, descrive la splendida villa con bagno e piscina dalla quale si
vedevano transitare le navi nello stretto.
Il gruppetto, senza Rufino morto in Sicilia o
durante la traversata, raggiunse nel 411 Tagaste, dov’era
vescovo Alipio. Fondarono due monasteri in memoria di Rufino, uno con 130 donne
e l’altro con 80 uomini, tutti schiavi da loro emancipati in loco. Fecero dono
alla Chiesa di Tagaste di una vastissima proprietà
inclusi un impianto termale, gli artigiani per la lavorazione dei preziosi e... due vescovi, uno cattolico e l’altro donatista.
Ma era ovvio che le cose non dovessero andare così tranquillamente per quei clarissimi
smaniosi di diventare santi (cosa peraltro successa!). Il pio gruppetto fu
obbligato a traslocare nel 417 in Palestina, dove
fondarono un altro grande monastero al Monte degli Olivi. Melania non poté fare
a meno di entrare in competizione anche con l’imperatrice Eudocia in
pellegrinaggio nel 438 a Gerusalemme per le reliquie di S. Stefano, altezzosa
anche in punto di morte.
Paolino vescovo
Oltre ad
occuparsi della città sacra, dove costruì una basilica tricora
con battistero e un complesso sistema di portici, Paolino estese i suoi
interessi anche a Nola, costruendo la basilica dei SS. Apostoli Pietro e Paolo
e un’altra la edificò a Fondi, ampliando una piccola basilica.
La sua fama
era veramente diffusa, anche perché era convinto di rappresentare S. Felice,
col quale era in contatto diretto. Circolò la voce che si erano in effetti
verificate delle apparizioni di Felice all’interno della necropoli e questo
aveva alzato di molto le quotazioni delle sepolture vicino al santo. Paolino
era diventato esorcista e, per tramite di Felice, anche taumaturgo. L’ultima
pennellata al suo cangiante ritratto lo diede nelle feste di Felice, quando non
si fece scrupolo di incoraggiare riti agrari pagani.
Nel 409
Paolino finalmente ottiene la cattedra di vescovo di Nola, più correttamente di
Cimitile, visto che la cattedrale è nella città sacra e anche la sede del
vescovo. Era morto il “misterioso” vescovo Paolo di Nola, talmente eclissato
dalla presenza di Paolino da non avere neppure due righe di biografia. Ancora
una volta Paolino era stato acclamato vescovo a furor
di popolo, ma giusto in tempo per fronteggiare l’esercito dei Goti – rimpolpato
anche dagli schiavi “liberati” dalla nuova sensibilità caritativa dei senatori
cristiani. Nell’agosto 410, dopo l’ennesimo tradimento da parte di Onorio, i
Goti avevano infierito su Roma, poi si erano diretti verso sud, perché
l’obiettivo di Alarico era di passare lo stretto, andare in Sicilia e quindi
approdare in Africa, il granaio dell’impero. Passarono per Capua, che nel V
secolo era ancora l’ottava città del mondo e anche per Nola. Sappiamo che da
Cosenza in poi le cose non andarono secondo i piani, perché Alarico morì – si
dice per una divina pestilenza – e il
suo successore Ataulfo preferì prendere la strada
delle Gallie, stanziandosi proprio a Bordeaux, magari
sulle perdute terre di Paolino o su quelle di Ausonio!
Gli archeologi
sostengono che l’area sacra di Cimitile se la cavò con pochi danni, forse
perché c’era poco o niente da rubare, la comunità era pauperistica. Passata la
bufera, Paolino continuò ad apportare migliorie al complesso, ripristinando
l’acquedotto proveniente da Avella. Morì nel 431 e per sua disposizione volle
esser tumulato accanto al santo che lui aveva tanto amato e onorato. La
discreta Therasia, a lui premorta, non ha una tomba
che la ricordi.
Questo è il
motivo per cui nella sua agiografia Paolino viene fatto sposare prima del 385!
Ultima modifica: sabato 5 marzo 2016
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Scritti ambrosiani Ambrogio, il personaggio leggendario Bibliografia ambrosiana
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