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Viviamo nel mondo,
ma non siamo del mondo

Gv 17, 14)

 La cangiante biografia di Paolino, vescovo di Nola

di Maria Grazia Tolfo

Paolino da Nola

Paolino da Nola

Affresco del X secolo nella chiesa di S. Maria Assunta a Pernosano

Pago del Vallo di Lauro (Avellino)

 

 

L’agiografia di Paolino si trova ripetuta con le stesse parole sul web, in tutte le lingue. Ne usciva un’immaginetta piatta, senza ombre, senza spessore, assolutamente incongrua per un giovane senatore che era scappato immediatamente da Roma per dedicarsi alla vita religiosa. Chissà se era possibile costruire un racconto della sua vita attorno ai silenzi e rispettando le dissonanze?

Il suo ambiente di provenienza era l’Aquitania, una grande tenuta a Ebromagus sulla Garonna, presso l’attuale Langon[1]. Oltre ai possedimenti aquitani, la famiglia di rango senatorio aveva beni nella Gallia Narbonense e in Campania, dove il piccolo Paolino andò a visitare i parenti a Fondi e a Nola, non tralasciando una visita al santuario di S. Felice a Cimitile.

Come data di nascita si alternano due date, 353 o 355. Tutto nella biografia di Paolino è ambiguo, cangiante e ciò ha permesso a chiunque si sia occupato di lui di stiracchiare i dati come meglio gli conveniva, iniziando proprio da quello che viene considerato il suo maestro, Decimo Magno Ausonio. Fu lui stesso ad attribuirsi il merito della sua istruzione, quando avrebbe dovuto essere il primo a sapere che così non era stato. Ausonio era nato a Burdigala intorno al 310, da famiglia gallo-romana, in rapporti d’amicizia con la famiglia di Paolino. La sua fama di retore – gonfiata dalla presenza gallica nel consistoro di Valentiniano I – lo fece arrivare a Treviri come precettore del piccolo Graziano. Lasciò l’università di Burdigala poco dopo il 365, quando Paolino era ancora troppo giovane per frequentarla.

Inizio e fine di una promettente carriera

La tranquilla vita sulle sponde della Garonna venne interrotta dalla morte del padre nel 376: Paolino come capo-famiglia doveva andare a Roma e probabilmente in Campania a sbrigare le formalità del caso[2]. In quest’occasione tornò al santuario di S. Felice a Cimitile e fece la cerimonia della depositio barbae, il primo taglio di barba che segnava l’ingresso ufficiale di un giovane nella vita pubblica. Aveva scelto S. Felice come patrono e in quel momento Paolino non poteva certo immaginare quale ripercussioni questo gesto avrebbe avuto nel suo futuro.

Al suo arrivo a Roma la posizione del suo concittadino Ausonio era al vertice: Valentiniano I era morto lasciando il giovane Graziano al timone dell’impero. Ausonio aveva approfittato dell’autorità che godeva sul suo pupillo per far assegnare a sé e ai propri familiari ed amici le più prestigiose cariche pubbliche. Il governo assunse un carattere meno militaresco, più senatoriale e culturale, ma soprattutto molto gallico. Attorno a Graziano si addensavano pericolosi gruppi di pressione: agli amici di Ausonio si contrapponeva il vecchio gruppo di potere che ruotava attorno a Sesto Petronio Probo (ormai decaduto) e alla gens Anicia, ma sopra tutto c’era l’esercito degli ufficiali pannonici di Valentiniano I che temevano una gestione troppo debole dell’impero – e il disastro di Adrianopoli darà loro ragione.

Il 9 agosto 378 l’imperatore Valente, che governava la parte orientale dell’Impero, perse la vita in una delle più tragiche sconfitte dei Romani ad opera di barbari, in questo caso i Goti. Per il diciannovenne Graziano, data la sua inesperienza, fu una catastrofe personale, ma forse anche per Paolino. Quell’anno infatti il consolato era tenuto da Valente e dal nipotino Valentiniano II di sette anni. Ora, cosa voleva dire assegnare a Paolino, appena piovuto in Senato da Burdigala, la carica di console sostituto dell’imperatore in un momento di assoluto caos nell’impero? Quasi dieci anni dopo, dalla sua residenza aquitana Ausonio avocava al suo personale interessamento la carica di consul suffectus nel 378, era stata la sua influenza – unita ai privilegi di nascita - ad assicurare a Paolino una promettente carriera amministrativa[3], Paolino doveva i suoi primi honores alla promozione di Ausonio[4]; da come si comporterà dopo questa esperienza si direbbe che il beneficato valutasse diversamente l’onore, mentre tutti gli agiografi si conformano alla retorica ausoniana.

Nel 379 la carica consolare verrà rivestita dallo stesso Ausonio e da Quinto Clodio Ermogeniano Olibrio, imparentato con la gens Anicia, poi l’impero sarà nelle mani di un altro ispanico, Teodosio. Paolino invece scompare dalla scena fino al 380-381, quando “grazie ad Ausonio” diventa consularis sexfacalis Campaniae, ossia governatore col diritto a sei fasci e una scure. Incredibile che il suo “benefattore” fosse riuscito a favorire Paolino quando lui stesso era dovuto tornare a Bordeaux perché Graziano aveva trasferito la corte a Milano ed era entrato nell’orbita del vescovo Ambrogio. E’ più facile che Paolino fosse riuscito ad ottenere il governatorato di un luogo dove aveva i suoi possedimenti grazie all’interessamento di altri senatori, senza dover ricorrere all’emarginato Ausonio.

A Roma Paolino doveva aver seguito l’alacre attività edilizia di papa Damaso, che cercava con la scoperta delle reliquie e la fondazione delle nuove basiliche di rilanciare Roma in concorrenza con Costantinopoli. Nel 379 Damaso era andato a sciogliere il voto a Cimitile sulla tomba di S. Felice e sembra strano che Paolino non fosse lì a presenziare (dopo tutto si era conquistato un posto di riguardo nella gerarchia!).

Forse aveva fatto parte del seguito di Ausonio nella sua visita a Milano nel 379, grazie alla quale l’aulico poeta comporrà un decennio più tardi l'Ordo nobilium urbium, dove elenca in ordine d'importanza 1. Roma, 2. Costantinopoli 3. Cartagine, 4. Antiochia, 5. Alessandria, 6. Treviri, 7. Milano e 8. Capua tra le venti città più nobili dell'impero. I Milanesi riconoscenti hanno copiato la descrizione ed eretto una statua ad Ausonio sulla facciata delle Scuole Palatine.

Paolino da Nola

Statua di Ausonio sulla facciata delle Scuole Palatine

Piazza Mercanti - Milano

 

La sede del governatore della Campania era Capua, ma Paolino ottenne di poter gestire i suoi affari da Nola, forse per segnare un distacco dalla gens Anicia che aveva una sorta di patronato su Capua. Tra le altre sue incombenze, si dedicò al santuario di Felice, che ebbe una strada verso Nola e un ricetto per poveri pellegrini. Non sappiamo cosa fece una volta terminato il suo mandato, perché tutte le agiografie riportano l’insinuazione di Ausonio: la promettente carriera di Paolino fu stroncata dall’usurpatore Magno Massimo, cosa che sappiamo non essere vera[5].

L’imperatore Graziano era morto a Lione il 25 agosto 383, assassinato dal generale Andagrazio che partecipava alla secessione di Magno Massimo. Nessuno aveva perdonato a Graziano di essersi trasferito a Milano, lasciando sguarnita Treviri e di essersi avvicinato troppo al vescovo Ambrogio.

Secondo l’agiografia Paolino riesce a fuggire in Aquitania con Ausonio per evitare le epurazioni e suo fratello perde tragicamente la vita. I documenti raccontano un’altra storia: Ausonio se n’era andato già da tre anni perché sostituito dal vescovo Ambrogio come mentore di Graziano, Paolino era ancora a Milano presso Ambrogio alla fine del 383 e quando torna a casa lo fa per scelta e non per necessità[6]. Ausonio tenterà di inserirsi ancora una volta nei giochi imperiali proponendosi come mediatore a Treviri tra Magno Massimo e Valentiniano II, ma nessuno lo vuole più tra i piedi e lui torna a Bordeaux definitivamente, vendicandosi con l’attribuire a Massimo tutte le colpe delle disgrazie sue e di Paolino.

Paolino tra Ambrogio, Martino e...Priscilliano

Dunque Paolino era a Milano presso Ambrogio pochi mesi dopo la morte di Graziano. Il carteggio intercorso tra i due è andato malauguratamente perso, ma riannodando il filo fra questo momento e quello che succederà a breve nella vita di Paolino si può arguire che lo considerasse un suo consigliere spirituale. In fondo, a parte la sua breve permanenza campana, durante il soggiorno romano aveva dovuto subire due morti violente di imperatori, di cui l’ultimo suo coetaneo e forse conoscente personale. Una personalità tranquilla e sensibile come dimostrerà di essere negli anni successivi non poteva rimanere impassibile di fronte a queste ripetute tragedie, che mettevano profondamente in crisi la sua coscienza. Quando scrive ad Ausonio da Ebromagus tra il 384 e il 385 gli confessa di essere stato vittima di un periodo di malessere psicofisico e che nel ritiro dell’otium ruris stava maturando un cambiamento spirituale[7].

E’ un passaggio delicatissimo della vita di Paolino, che le biografie sorvolano perché a distanza di oltre un millennio impera ancora la damnatio memoriae su alcuni personaggi della Chiesa del IV secolo. Sappiamo dalla sua stessa fonte che Paolino era turbato, che era oggetto di calunnie, che si era tolto dalla cosa pubblica e dallo strepito del foro mettendosi a peregrinare. Sta parlando di Bordeaux, non di Roma[8]! Era in contatto, oltre che con Ambrogio, con Martino di Tours, che raggiunge nel 386 a Vienne nel Delfinato, dov’era convenuto anche un altro personaggio che avrà grande importanza nella vita di Paolino, il vescovo Vittricio di Rouen[9].

Che succedeva a Vienne per far accorrere da ogni luogo della Gallia eminenze religiose? Forse perché erano arrivate le reliquie di Gervasio e Protasio da Milano? Dopo una Pasqua di occupazioni di basiliche e lotte contro la corte ariana, il 17 giugno 386 Ambrogio aveva riesumato dal cimitero presso la basilica di Nabore e Felice le spoglie “anonime” dei due “martiri”: che fossero tali e che nome avessero era opera di “invenzione”, ossia ispirazione divina. Era la strategia escogitata da Ambrogio per tenere unita la sua Chiesa nei momenti di pericolo, quando il gregge poteva disperdersi. Nella tarda estate o autunno dello stesso anno particole o brandea dei due martiri circolavano in tutto il mondo cattolico. Martino consacrerà a Vienne nel cimitero una memoria con parte delle reliquie, che diventerà subito meta di pellegrinaggio[10]. Altre reliquie finiranno a Rouen, ma la ecclesia civitatis costruita da Vittricio, probabilmente presso una necropoli, non è più identificabile[11].

Ma non erano andati a Vienne per le reliquie, quelle dovevano semmai servire da collante. Martino proveniva da Treviri, dove aveva fatto l’ultimo tentativo di evitare l’esecuzione di altri priscilliani, tutti accusati di magia-astrologia, ma la missione era fallita ed aveva rischiato la sua stessa vita. Lo scriverà Sulpicio Severo, amico e concittadino di Paolino, nel suo Terzo Dialogo, dicendo che per la scelleratezza dei tempi questo episodio aveva dovuto restare nascosto.

Che ci faceva Paolino a Vienne con loro? Perché proprio Vienne? Intanto che c’era, Martino guarì un disturbo all’occhio di Paolino, una cura oftalmica troppo semplice per giustificare un viaggio, per cui gli esegeti l’hanno voluto interpretare come metafora: Martino gli aveva aperto gli occhi, su quale panorama? Chi riporta il fatto è Sulpicio Severo nella Vita di S. Martino, ma Paolino non sostanzierà mai con una testimonianza il “miracolo”.

Nelle agiografie di Paolino si afferma che andò a Milano a farsi dare le reliquie di Gervasio e Protasio direttamente da Ambrogio, abbiamo capito che non ne avrebbe avuto necessità, visto che ormai era tardo autunno e poteva averle a Vienne[12]. Invece prosegue per Milano per incontrarsi con il vescovo, che ha eletto a suo mentore. Ecco i silenzi intorno ai quali bisognava comporre una storia, perché c’erano ferite nascoste che andavano medicate.

Un inciso doveroso su Priscilliano

Gli incontri con Martino e Ambrogio e il repentino cambio nello stile di vita di Paolino potrebbero leggersi all’interno della triste vicenda di Priscilliano. Era di famiglia nobile galiziana – gode di un culto personale a Santiago di Compostela -, regolarmente vescovo, col “difetto” di prendere il messaggio evangelico alla lettera, per quanto riguardava beni materiali e organizzazione del clero. Non mancano anche ai nostri tempi esempi di vescovi “coraggiosi”, soprattutto nelle zone più povere o compromesse del mondo.

Quello che disturbava del rigore di Priscilliano non era tanto la difesa dei poveri, quanto l’indifferenza ai testi canonici che non usava nelle sue prediche. I disordini fra le diverse fazioni all’interno delle Chiese ispaniche avevano indotto il vescovo di Merida Idazio a rivolgersi ad Ambrogio, per ottenere da Graziano un rescritto di scomunica ed esilio, cosa che avvenne.

Dal momento che credeva nell’autorità pontificia, Priscilliano si appellò a papa Damaso perché annullasse il rescritto di Graziano, ma non venne ricevuto. La piccola delegazione si diresse allora a Milano da Ambrogio, ispiratore del rescritto firmato da Graziano. Volevano espogli le loro ragioni, ma Ambrogio non li ricevette. Ne approfittò il magister officiorum Macedonio, che a corte era una potenza, dirigeva diversi officia del palazzo, dalla segreteria alla schola di agentes in rebus, i corrieri imperiali che avevano il compito di spionaggio nelle province... ed era un dichiarato nemico di Ambrogio. E’ solo all’interno della lotta fra Chiesa e Stato che s’inquadra il grosso successo che i priscillianisti ottennero a Milano, aumentando la diffidenza di Ambrogio. Macedonio ottenne a sua volta un nuovo rescritto da Graziano, con cui si ordinava la restituzione delle chiese ai priscillianisti. Graziano era sempre pericolosamente sulla linea del fuoco incrociato.

Tra i più tenaci oppositori delle procedure tenute durante l’inchiesta ci fu Martino di Tours, anch’egli coinvolto nell’accusa, come altre persone semplicemente dedite a pratiche ascetiche. Paolino non si dichiarerà mai priscillianista, ma è probabile che attirasse parecchi sospetti in quel ambiente bordolese così pronto alla lapidazione. Quando deciderà di vendere tutto e ritirarsi in Spagna non farà che confermare i sospetti sul suo conto, visto che lì si trovavano le frange superstiti della setta[13].

Qualcosa era comunque cambiato dopo la condanna di Priscilliano e per raccogliere pur labili indizi ci sostiene lo scambio epistolare con Ausonio, che appena tornato dall’Italia nel 384 lo mostra appartato nel suo otium litteratum di ricco e colto proprietario terriero,[14] ma nelle lettere dopo il ritorno dagli incontri con Martino e Ambrogio non riesce più a entrare in sintonia col giovane amico. Papa Siricio aveva infine indirizzato una lettera ai vescovi spagnoli per la riammissione dei priscillianisti nella Chiesa, ma ancora nel 390 Ambrogio convocherà un sinodo a Milano per pacificare i vescovi indignati per la condanna a morte di Priscilliano.

Inutile cercare dichiarazioni di aderenza al priscillianesimo in Paolino. La preghiera che Paolino aveva composto nel Carme IV al suo ritorno dall’Italia non aveva niente di estremistico: “Nessun giorno sia per me velato di tristezza (...). Non ambisca io ai beni altrui, anzi metta i miei a disposizione di quanti si rivolgono a me. Nessuno abbia in animo di farmi del male (...) e io non abbia la possibilità di volere il male (...) L’anima sia contenta di quello che ha. Vinca le attrattive del corpo ben decisa nella castità coniugale.” Una casa fiorente, schiavi ben nutriti, fedeli clienti, domestici dignitosi, sposa casta e figli, ecco cosa chiedeva nelle sue preghiere Paolino prima che Priscilliano venisse giustiziato e la povera Urbica lapidata. Era tornato da Roma spaventato dalla crudeltà della politica, ma ancora si comportava da ricco possidente, preoccupato di leccornie e cacciagione da condividere con i vicini[15]. Dopo il “martirio” dei priscillanisti scopriva che anche la religione poteva essere non meno pericolosa.

Costruire intorno al silenzio: la svolta del 389

Dal suo ritorno da Milano nel 387 alla Pasqua 389 Paolino si prepara al battesimo e si predispone per la vendita dei suoi beni, ormai intenzionato a lasciare il luogo che si era macchiato di un tale efferato delitto contro una povera donna inerme. Ma non può palesare le sue intenzioni senza mettere a repentaglio la sua stessa vita, deve stare il più ritirato possibile senza mancare agli obblighi sociali. I vescovi locali sono ben lontani dall’aderire alla riammissione dei priscillianisti e forse medita di trasferirsi in Spagna. Si descrive isolato nelle sue terre nell’Epistola 5 all’amico Sulpicio Severo, che lo rimprovera di essersi sottratto ai suoi doveri pubblici per dedicarsi al giardinaggio. Nel 397, dal suo rifugio di Cimitile, potrà rispondere a quel rimprovero: “Ebromagum enim non hortuli causa, ut scribis, reliquimus, sed paradisi illum hortum praetulimus et patrimonio et patriae”.[16]

Viene preparato al battesimo da Amando e a Pasqua si fa battezzare nella basilica di S. Stefano[17] a Burdigala dal vescovo Delfino, quello che aveva guidato il famigerato concilio di condanna di Priscilliano e conclude la vendita in lotti delle sue tenute, fatta un po’ alla volta forse per non dare troppo nell’occhio. Ausonio deprecherà che abbia disperso in cento parcelle il regno del vecchio Paolino, padre o forse nonno[18]. Camille Jullian nel suo libro romanzato su Ausonio interpreta con sentimenti ottocenteschi il clamore che ebbe la decisione di Paolino di abbandonare tutto: “Era uno degli uomini più ricchi, più nobili, più fortunati del mondo romano. Aveva immensi possedimenti, dei veri regni, sulle rive della Garonna (...) L’Impero lo considerava un suo pilastro, uno dei pochi che nei momenti di crisi sarebbe potuto essere un sostegno o un’estrema speranza. Ma un giorno, quel essere fortunato, colpito da chissà quale improvvisa e misteriosa malinconia, abbandonò tutto per consacrarsi a Cristo”.[19]

Palesate le sue intenzioni, che ormai erano state tradotte in fatti, deve fuggire lasciandosi dietro l’accusa di aver provocato la morte violenta del fratello. Il silenzio su questa vicenda è assordante: c’è chi incolpa i seguaci del defunto imperatore Magno Massimo, chi lo stesso Paolino - che non fa niente per alleviare il suo senso di colpa. Forse andavano messe insieme le due versioni: i seguaci di Massimo erano gli avversari di Priscilliano e Paolino aveva in ogni caso coinvolto il fratello nelle sue decisioni di vendita. La proprietà del fratello non venne comunque intaccata, visto che veniva citata ancora da Ausonio come confinante con la sua[20].

Il precipitoso abbandono dell’Aquitania era avvenuto in autunno e la destinazione era Complutum[21]. Il motivo della scelta di quella cittadina non è rivelato da Paolino e nessuno azzarda ipotesi. Nel Carme 21 rivela che in quell’occasione aveva fatto voto a S. Felice perché dimostrasse la sua estraneità (proprio come aveva fatto papa Damaso). Con le epistole 35 e 36 indirizzate a Delfino e Amando di Bordeaux esprime il peso della colpa che prova per la morte del fratello e il senso d’inadeguatezza della sua coltivazione spirituale per affrontare una simile prova.[22] Si parla di un’inchiesta, di scampata confisca di beni – quindi non aveva liquidato tutto...[23]

Fino a quel momento non era ancora entrata in scena Therasia (Terasia), ricca orfana cristiana battezzata di Complutum, che Paolino sposerà in quello stesso anno. Essendo arrivato in autunno, oltre alle vendite in segreto aveva anche già combinato il matrimonio a distanza? Therasia è una delle figure femminili più silenziose ed enigmatiche di tutta questa storia. Non sappiamo quanti anni avesse, come apparisse, come fosse entrata in contatto con Paolino, di cosa si occupasse. E’ solo una fugace citazione nelle lettere o una firma congiunta[24]. Ma anche questo silenzio intorno alla sua figura appare come una necessaria strategia per evitare ulteriori aggravamenti della sua posizione. La spada di Damocle del priscillianismo poteva cadere in qualsiasi momento, come la convocazione del sinodo di Ambrogio stava a dimostrare. Da un’epigrafe si deduce la presenza della coppia in Aquitania, forse per il breve tempo necessario a presentare la moglie alla madre, rimasta a Ebromagus. Non fecero certo visita ad Ausonio, visto il risentimento che dimostra nella sua Epistola 21.

Ausonio gli scrive a Complutum provocandolo: non gli risponde più perché è sottoposto a controllo di polizia? Ha bisogno di un inchiostro simpatico? Vuole un codice segreto? Non è capace di sottrarsi alla censura della moglie?[25] Questi versi, che suonano come un rimprovero per la moglie troppo possessiva e bigotta che impediva a Paolino di esprimersi come sempre aveva fatto, sono stati interpretati come se Paolino dovesse difendersi da un delatore e dal magistrato che indagava sui crimini (Vel si tibi proditor instat auto quaesitoris grauior censura timetur), invece esprimono l’incredulità che Paolino possa snobbare il vecchio amico di famiglia, verso il quale aveva dei doveri...di riconoscenza. Nella sua logica, non poteva essere colpa di Paolino, ma solo della perfida moglie Therasia, che neppure vuole nominare.

Silenzio. Nella successiva Epistola 22 Ausonio si accanisce contro il suo ex protetto sfruttando tutte le regole della retorica di cui era maestro. Il cambiamento di Paolino è imputabile alla terra dove ha scelto di vivere, la Spagna, un paese inadatto ad ospitare un alto magistrato romano. E’ quella la fine dei patrios honores, della posizione sociale della famiglia? Se qualche cattivo consigliere (moglie) lo sta inducendo al silenzio, allora che possa perdersi impazzendo muto come Bellerofonte sulle Alpi! Paolino capì subito l’antifona, visto che quando si risolse a rispondere non usò mezzi termini. Ausonio stava usando contro di lui gli argomenti utilizzati per condannare i nobili che volevano seguire le regole monastiche, “soprattutto l’accusa di diserzione sociale e di patologico rifiuto del consorzio umano e civile”.[26] Ambrogio venne informato di queste accuse e le ribalterà al momento opportuno: “Quando gli uomini importanti apprenderanno queste notizie cosa diranno? Un membro di così illustre famiglia, un discendente da stirpe così insigne, così dotato da natura, fornito di tanta eloquenza, avere abbandonato il senato, avere interrotto la successione del suo nobile casato: è una cosa che non può essere tollerata![27]

Pelagio, Gioviniano e le nozze del clero

Comunque nel 390 la vita della giovane coppia si svolgeva nel rispetto dei dettami cristiani – più o meno priscilliani – ma conformi alla preghiera che Paolino recitava: moderazione nelle spese, carità ai poveri, moglie pia e casta... e figli. Si era fatto battezzare in previsione della sua carriera ecclesiastica, ma con Therasia al suo fianco la vita era cambiata.

Therasia rimase incinta nel 390 e perse il piccolo Celso a una settimana dalla nascita nel 391. Il piccino ebbe la sua cappella personale accanto al martyrium dei piccoli martiri Giusto e Pastore, due fratellini che rappresentavano il culto dei santi innocenti presente ovunque. Lo presero come un segno divino, che li spronava verso la vita ascetica che avevano già scelto ognuno per conto proprio prima del matrimonio. Paolino non poteva più farsi prete, perché un decreto di papa Siricio del 10 febbraio 385 imponeva al clero il celibato[28].

A ben guardare c’era una corrente all’interno del cattolicesimo, capeggiata da Gioviniano, che ammetteva il matrimonio dei religiosi. Poteva essere una scappatoia, ma la strada sembrava irta di ostacoli. In quello stesso periodo, dal 390 al 392, si tenne un sinodo di condanna e scomunica di Gioviniano e di otto suoi seguaci, ribadita anche da Ambrogio, che a sua volta convocherà un sinodo per i vescovi della sua grande diocesi. Nel 393 anche Gerolamo dal suo eremo di Betlemme pubblicò un libello contro Gioviniano, che Paolino volle leggere.

Solo dopo averlo studiato, alla metà del 393, si decide a rispondere ad Ausonio dopo anni di silenzio coi due Carmina 10 e 11. Gli confessa che non se la sente più di stare al gioco letterario, ormai le antiche convenzioni culturali che si rifanno a dèi e muse sono inconciliabili con la sua nuova cultura, che pretendeva la totale immersione nelle Scritture. “Un’altra forza guida la mia mente, un Dio più grande, ed esige altri costumi”.[29] Si sente irrimediabilmente attratto da un modello di vita monastico, ma non ha ancora intrapreso alcun passo al riguardo.[30]

Visto che Paolino ha risposto, Ausonio non può più rimproverargli il silenzio, ma non ribatte ai contenuti della lettera ricevuta, li sorvola per ritornare sulle sue rimostranze. In quest’ ultima epistola (23) si rammarica di non avere più argomenti in comune, di appartenere a due mondi diversi. Paolino non è più un cives romano, ma cristiano e i legami di parentela ereditati dai reciproci genitori - e quindi tenuti per devozione a rispettarli – sono ormai disonorati (v. 9). Paolino si sente legato proprio a quello (Martino) che sta distruggendo nella Gallia meridionale le tradizioni e gli antichi santuari (v. 239ss)!

Ausonio avvertiva la morte del suo mondo e soffriva nel doverla attribuire anche al suo ex pupillo. Il monachesimo era l’aspetto più avversato dai tradizionalisti romani, sia che fossero cristiani moderati sia che fossero rimasti paganeggianti. L’otium era diventato lo spazio di meditazione sulle scritture, l’impegno politico si era riversato sulla gestione di diocesi o episcopati, il rispetto del mos maiorum era ormai cura per la tradizione ecclesiastica.

Monaco e prete per acclamazione popolare

Gerolamo nel 394 risponde dal monastero di Betlemme a una richiesta (persa) di Paolino per consigli di studio scritturale, da cristiano che vuole farsi monaco. Fino a quel momento non si conoscevano. Perché Paolino si rivolge anche a lui? Intorno a questo silenzio c’è in realtà l’impronta del periodo romano e degli ambienti che aveva frequentato quando era senatore, per esempio la domus di Pammachio (340-409), senatore cristiano, marito di Paolina, la figlia di quella Paola che aveva seguito a Betlemme Gerolamo.

Paolino non aveva conosciuto Gerolamo, che era arrivato solo nel 382 a Roma ospite nella casa della nobile Marcella sull’Aventino, ma aveva conosciuto senz’altro Marcella e Paola, un’altra nobile vedova che nel 379 si era unita a Marcella. Erano appunto gli anni in cui Paolino era a Roma e frequentava in senato Pammachio. Quando Gerolamo alla morte di papa Damaso – di cui era segretario – decise di lasciare Roma per andare in Terrasanta, Paola e la figlia Eustochio decisero di seguirlo. Tutte queste donne erano di alto rango, elevata cultura, traduttrici dal greco e dall’ebraico, assistenti molto attive dell’intensa attività letteraria di Gerolamo.

Pammachio era in contatto epistolare con la suocera e Gerolamo, con cui discuteva di questioni teologiche, cercando di ammorbidire la sua posizione contro Gioviniano. Si può considerare Pammachio il tramite dell’inizio epistolare tra Paolino e Gerolamo? Fu ancora lui a indirizzare Paolino verso i vescovi del nord Africa? Pammachio aveva numerose proprietà in Numidia ed era in contatto con quei vescovi, gli stessi ai quali si rivolgerà senza conoscerli Paolino. Quanto ad esempio, dopo la morte di parto nel 387 della moglie, si era fatto monaco e insieme a Fabiola, anch’essa appartenente alla cerchia di Marcella e Gerolamo, aveva fondato lo xenodochio di Porto, presso la foce del Tevere, destinato ad ospitare gratuitamente i pellegrini poveri e i malati. Era l’interlocutore perfetto per Paolino, che voleva fare la stessa cosa con Terasia a Cimitile.

Gerolamo gli risponde (Ep. 53) a Barcellona per esortarlo a studiare la Scrittura con metodo e sotto una sicura direzione, senza cedere a tentazioni poetiche nell’affrontare il simbolismo nella Bibbia. Per far ciò, lo invita a Betlemme (Ep. 53, 10-11), rinunciando ai beni temporali anche a discapito del guadagno: “Nemo renuntiaturus saeculo bene potest vendere, quae comtempsit, ut venderet (...) si habes in potestate rem tuam, vende; si non habe, proice”.[31]

Paolino sembra averlo preso alla lettera, perché fece pubblica rinuncia ai suoi beni e dichiarazione di vita monastica (anche Therasia?). Pochi mesi dopo, la notte di Natale 394, Paolino venne consacrato presbyter dal vescovo Lampio di Barcellona. Paolino informa l’amico Sulpicio Severo di essere diventato prete e di aver preso finalmente la decisione di partire per l’Italia appena dopo Pasqua (25 marzo)[32], per cui lo invitava a Barcellona per gli ultimi saluti. Scrive ad Amando di Bordeaux (Ep. 2) per informarlo e confermarlo come sua guida spirituale.

La lettera che il vescovo Ambrogio indirizza nel 395 al vescovo Sabino non entra in merito al ruolo prete/monaco: “1. Ho saputo che Paolino, a nessuno secondo per la nobiltà della stirpe nella terra d’Aquitania, venduti sia i propri beni sia quelli della moglie, ha adottato – in conformità della sua fede – un tale tenore di vita per cui mette a disposizione dei poveri se stesso col denaro ricavato e, fattosi povero da ricco, come alleggerito da un grave peso dice addio alla casa, alla patria, alla stessa parentela per servire Dio con maggior impegno. Si dice poi che abbia scelto la solitudine della città di Nola per trascorrere la vita lontano dal trambusto. 2. Anche la moglie è assai simile a lui nella virtù e nell’ardore, e condivide il proposito del marito. Perciò, trasferiti in proprietà d’altri i suoi poderi, segue lo sposo e là, contenta del modesto reddito del consorte, troverà un compenso nei tesori della religione e della carità. Non ci sono figli, e quindi desiderano una posterità di meriti”.[33]

L’unico che sembra dimostrare sconcerto è Gerolamo nella risposta (Ep. 58 del 395) a una lettera di Paolino, che lo informa di aver “accettato” l’ordinazione a presbitero, pur essendo monaco, e di non sapere come comportarsi: “Dal momento che mi interroghi come confratello in quale sentiero devi camminare, te lo dirò francamente. Se vuoi fare il prete, se forse ti attirano gli uffici e gli onori dell’episcopato, allora vivi in città e castella e fai della salvezza degli altri il profitto della tua anima. Ma se vuoi essere quello che sei, un monaco, cosa hai a che fare con le città, che certamente non sono i luoghi della solitudine ma della folla?”[34]

Prima di approdare a Nola era però doveroso per Paolino presentarsi a papa Siricio, in ottimi rapporti con Ambrogio, ma non ricevette l’accoglienza che un uomo del suo rango si aspettava, anzi, venne trattato con urbici papae superba discretio, diffidente alterigia[35]. Qualche problema in effetti l’ambiguità di Paolino lo poteva creare.

Residenti della città sacra

La sua decisione aveva fatto evidentemente scalpore, visto che quando arrivarono a Nola trovarono già le lettere di congratulazione dei vescovi del nord Africa... ma perché del nord Africa e non della Gallia? Alipio di Tagaste gli inviava cinque libri scritti da Agostino e gli chiedeva una copia delle Cronache di Eusebio; Paolino gli rispose (Ep. 3) chiedendogli un suo curriculum (non conosceva né lui né Agostino) e insieme alla risposta ad Alipio aggiunse una lettera per Agostino (Ep. 4), al quale descrive la sua consacrazione in modo curioso: “a Lampio apud Barcilonem in Hispania per vim inflammatae subito plebis sacratus sim”, Lampio era stato costretto all’ordinazione dal popolo, com’era successo con Ambrogio, del quale nella stessa lettera dice “mi ha istruito nei misteri della fede, mi dà tuttora i consigli necessari per adempiere degnamente i doveri del sacerdozio, lui mi ha fatto la grazia di associarmi al suo clero, di modo che, in qualunque luogo io mi trovi, sono sempre considerato come un presbitero della sua Chiesa milanese”.[36]

Quando gli scrisse questa lettera, Agostino non era ancora stato eletto vescovo di Ippona, apparteneva al clero di Tagaste. Paolino doveva sapere che Agostino era stato battezzato a Milano da Ambrogio, eletto vescovo – si diceva - per acclamazione. Che necessità aveva di ricorrere anche lui a questo topos? Era una confessione fra le righe: “stavo ascoltando la messa di Natale quando a furor di popolo sono stato fatto sacerdote... comunque Ambrogio avrebbe approvato perché mi considerava già dei suoi.” Alipio era appena stato ordinato vescovo, Agostino lo sarà pochi mesi dopo a Ippona, perché questa scelta di vescovi africani? Persino il modello architettonico che Paolino sceglierà per la sua basilica triconca si richiamerà a quelli del nord Africa. Eppure nelle due lettere scritte da Paolino dalla Spagna a Sulpicio e Amando parla di una piega imprevista degli eventi nella sua ordinazione, dell’ansia che gli provocavano le nuove impreviste responsabilità. [37]

Il 14 gennaio 396 un commosso Paolino poteva festeggiare S. Felice da residente. Nel secondo Natalicium (Carme 13) afferma di essersi sempre rivolto a lui nelle sue sventure: “nam te mihi semper ubique propinquum/inter dura viae vitaeque incerta vocavi[38]. Non si fatica a credergli, vista la sua propensione a camminare sul filo del rasoio.

Le frequentazioni pelagiane

Intorno al 400-403 Giuliano, pur essendo membro del clero, non si fece scrupolo di sposarsi dopo aver ricevuto gli ordini minori. La cosa non destò alcuno stupore perché sia lui che la sposa erano figli di vescovi. Nell’epitalamio per la giovane coppia di sposi Paolino di Nola dipinse Giuliano e la moglie che, ritti davanti al vescovo di Benevento, suocero di Giuliano, come Adamo ed Eva in paradiso al cospetto di Dio, ricevevano l’esortazione 'crescete e moltiplicatevi!'”[39]

Paolino farà da Cimitile i suoi auguri anche a Eucherio e Galla, giovani sposi in ritiro nell’isola di Lero vicino a quella di Lérins: “Impegnati nello studio e anelanti al cielo con quel cuore uno e indiviso con cui avete abbandonato le cose della terra[40].

Del resto anche Brizio che aveva ereditato da Martino il monastero di Marmoutier presso Tours viveva monasticamente con la moglie, suscitando le ire di Gerolamo. Nella sua Epistola 22, 14 irrideva le vergini che rinunciavano alla convivenza col fratello di sangue per cercare un altro fratello con cui condividere l’esperienza monastica, lasciando intendere ben altro.

Anche in questo caso Paolino si mosse sul filo del rasoio. Proclamò in ogni occasione che lui e Terasia erano ormai fratelli, cercò di tenerla al riparo da tutte le voci, ma se restano ancora dubbi sui suoi sentimenti basta leggere cosa diede da scrivere al suo amico Sulpicio Severo, al quale invierà un frammento della Croce per la sua basilica di S. Chiaro a Primuliacum: “Accogli benigno questi voti di peccatori che ti pregano di ricordarti di Paolino e Therasia (...) tu non puoi dividere quelli che sono profondamente uniti (...) perciò abbracciaci così, come fratelli inseparabili e, così uniti, amaci partecipando alla nostra unione”.[41]

Dopo queste parole il silenzio di cui rivestì Therasia si lascia leggere come un estremo atto d’amore e protezione verso la donna alla quale era così intimamente unito. Tutto l’ambiente che lo circonda e che lui cita nelle lettere viene classificato “pelagiano”, senza che lui venisse toccato da alcun provvedimento. Nel 417, quindi molti anni dopo il suo arrivo e il concomitante coinvolgimento, Agostino scrive a Paolino: “Siamo venuti a conoscenza che hai amato Pelagio il Britanno considerandolo un servo di Dio per via del libero arbitrio. Il peccato viene da Adamo e la grazia è necessaria.”[42]

E’ l’unica voce che, pur tardivamente, si alzi ad ammettere che Paolino era (stato) pelagiano. Il caso di sue due parenti ci aiuta anche a comprendere meglio la portata della dispersione patrimoniale della classe senatoriale in nome della povertà evangelica, quella che dallo storico Andrea Giardina è stata definita “la carità eversiva”.

Le pelagiane Melania seniore e juniore

Paolino dice che era legato a Melania Seniore da vincoli di sangue, ma non specifica il tipo di parentela. Era ispanica di nascita, una quindicina d’anni più vecchia di lui, molto intraprendente. Rimasta vedova, aveva lasciato la gestione dei suoi beni al figlio Valerio Publicola e si era messa al servizio delle comunità eremitiche di Egitto e poi di Palestina, fondando lei stessa un monastero sul Monte degli Ulivi. Paolino la considerava “virile”, non si capisce fino a dove fosse un complimento o una constatazione di parità dei sessi nella Chiesa.

Paolino la incontrò a Cimitile, dove lei gli fece dono di una scheggia della Vera Croce per consacrazione la nuova basilica cattedrale. “(...) impressionò i suoi raffinati parenti campani per l’abitudine di portare la veste nera, di cavalcare l’asino e di leggere libri fino a tarda notte.[43] L’anziana Melania cercava di perorare la causa del suo consigliere Rufino d’Aquileia, che diversamente da Paolino non sapeva rimanere sul filo del rasoio, poi se ne era tornata al suo monastero al Monte degli Ulivi. “Il profondo odio con cui Girolamo offese la sua memoria (...), definendo le sue concezioni teologiche sciocchezze da “vecchia rimbambita con un perfido cuore”, ci permette di dedurre quanto Melania fosse diventata famosa tra i suoi contemporanei.”[44]

Rufino rimase in carico a Melania Juniore, che per qualche tempo visse con il marito Piniano e altri congiunti nella città sacra di Cimitile. All’approssimarsi dell’invasione gotica lasciarono la Campania e passarono in Sicilia:
“in una villa siciliana affacciata sullo stretto di Messina dalla quale, nel 410, Rufino e i suoi compagni asceti videro i Goti incendiare e depredare le città della sponda opposta dopo il sacco di Roma. Ormai l’alta società romana, un tempo tanto spavalda, era allo sbando”[45]

Lo storico Andrea Giardina aveva coniato il termine “carità eversiva” proprio ispirandosi alle decisioni della giovane Melania[46], che richiamavano quelle di Paolino e Therasia e di molte altre coppie appartenenti alle famiglie senatorie romane. Nel 404, quando la giovane coppia decise di disfarsi dei beni in Spagna, Aquitania e nelle Gallie, mantenendo solo le proprietà in Campania, Sicilia e Nordafrica per mantenere i monasteri[47], scoppiò il pandemonio tra i parenti: Publicola, il padre di Melania, minacciò di ricorrere all’adozione pur di avere qualcuno in grado di gestire le loro sterminate ricchezze. Era stato pronto a finanziare le stravaganze caritative della madre, ma era assolutamente intransigente di fronte al fanatismo religioso della figlia, per altro sostenuta da sua moglie Albina.

Il fratello di Piniano, Valerio Severo, cercò in tutti i modi di dissuaderli, ricorrendo anche ai tribunali. Melania, che voleva fare l’asceta ma era ben conscia delle sue prerogative sociali, si appellò direttamente a Serena, moglie di Stilicone e tutrice del piccolo imperatore Onorio. Da parte sua Serena, avvalendosi di un diritto che non aveva, incaricò i governatori provinciali di sorvegliare personalmente la vendita[48]. In pratica i due sconsiderati liberarono in massa 8000 schiavi impiegati nei fondi rurali, dislocati in numerose provincie e gli altri schiavi del suburbio romano furono presi dal panico, respinsero l’emancipazione e chiesero di passare al servizio di Valerio Severo, il fratello di Piniano, che dovette acquistarli per 3 nomismata (soldi) l’uno[49].

Nel 406 decisero di vendere anche la ricca residenza romana per trasferirsi nei loro possedimenti campani. Nuovamente si ebbe una sommossa, perché dal punto di vista degli schiavi-coloni dei grandi latifondi senatori d’Occidente il timore della rovina economica era più forte della libertà (a differenza del mondo orientale)[50]. In tutto questo trambusto la nonna Melania ci mise del suo. Si era sempre limitata a lasciare la gestione patrimoniale al figlio purché le versasse le quote che le spettavano delle rendite, ora invece lo storico Palladio ci mostra un altro quadro: “Dovette affrontare tutti i membri dell’ordine senatorio e le loro mogli, che lottavano come belve per impedirle di allontanare dal mondo ciò che restava del suo casato[51]. Lo conferma anche Paolino nella sua Epistola 29, 11, che non poteva dimenticare come era stato trattato dai Bordolesi.

In Sicilia la proprietà di Melania compredeva 60 villaggi ciascuno con 400 schiavi. Agostino e Alipio di Tagaste, dei quali la coppia aveva grande stima, li sconsigliano di vendere, piuttosto donassero immobili e rendite ai monasteri. Comunque almeno una villa l’avevano tenuta, se nel 409 Melania, Piniano, Albina e Rufino d’Aquileia ci si rifugiarono guardando le coste della Calabria in fiamme. Geronzio, il biografo di Melania la Giovane, descrive la splendida villa con bagno e piscina dalla quale si vedevano transitare le navi nello stretto.

Il gruppetto, senza Rufino morto in Sicilia o durante la traversata, raggiunse nel 411 Tagaste, dov’era vescovo Alipio. Fondarono due monasteri in memoria di Rufino, uno con 130 donne e l’altro con 80 uomini, tutti schiavi da loro emancipati in loco. Fecero dono alla Chiesa di Tagaste di una vastissima proprietà inclusi un impianto termale, gli artigiani per la lavorazione dei preziosi e... due vescovi, uno cattolico e l’altro donatista[52]. Ma era ovvio che le cose non dovessero andare così tranquillamente per quei clarissimi smaniosi di diventare santi (cosa peraltro successa!). Il pio gruppetto fu obbligato a traslocare nel 417 in Palestina, dove fondarono un altro grande monastero al Monte degli Olivi. Melania non poté fare a meno di entrare in competizione anche con l’imperatrice Eudocia in pellegrinaggio nel 438 a Gerusalemme per le reliquie di S. Stefano, altezzosa anche in punto di morte.

Paolino vescovo

Oltre ad occuparsi della città sacra, dove costruì una basilica tricora con battistero e un complesso sistema di portici, Paolino estese i suoi interessi anche a Nola, costruendo la basilica dei SS. Apostoli Pietro e Paolo e un’altra la edificò a Fondi, ampliando una piccola basilica.

La sua fama era veramente diffusa, anche perché era convinto di rappresentare S. Felice, col quale era in contatto diretto. Circolò la voce che si erano in effetti verificate delle apparizioni di Felice all’interno della necropoli e questo aveva alzato di molto le quotazioni delle sepolture vicino al santo. Paolino era diventato esorcista e, per tramite di Felice, anche taumaturgo. L’ultima pennellata al suo cangiante ritratto lo diede nelle feste di Felice, quando non si fece scrupolo di incoraggiare riti agrari pagani.[53]

Nel 409 Paolino finalmente ottiene la cattedra di vescovo di Nola, più correttamente di Cimitile, visto che la cattedrale è nella città sacra e anche la sede del vescovo. Era morto il “misterioso” vescovo Paolo di Nola, talmente eclissato dalla presenza di Paolino da non avere neppure due righe di biografia. Ancora una volta Paolino era stato acclamato vescovo a furor di popolo, ma giusto in tempo per fronteggiare l’esercito dei Goti – rimpolpato anche dagli schiavi “liberati” dalla nuova sensibilità caritativa dei senatori cristiani. Nell’agosto 410, dopo l’ennesimo tradimento da parte di Onorio, i Goti avevano infierito su Roma, poi si erano diretti verso sud, perché l’obiettivo di Alarico era di passare lo stretto, andare in Sicilia e quindi approdare in Africa, il granaio dell’impero. Passarono per Capua, che nel V secolo era ancora l’ottava città del mondo e anche per Nola. Sappiamo che da Cosenza in poi le cose non andarono secondo i piani, perché Alarico morì – si dice per una divina pestilenza – e il suo successore Ataulfo preferì prendere la strada delle Gallie, stanziandosi proprio a Bordeaux, magari sulle perdute terre di Paolino o su quelle di Ausonio!

Gli archeologi sostengono che l’area sacra di Cimitile se la cavò con pochi danni, forse perché c’era poco o niente da rubare, la comunità era pauperistica. Passata la bufera, Paolino continuò ad apportare migliorie al complesso, ripristinando l’acquedotto proveniente da Avella. Morì nel 431 e per sua disposizione volle esser tumulato accanto al santo che lui aveva tanto amato e onorato. La discreta Therasia, a lui premorta, non ha una tomba che la ricordi.

 



[1] Si conosce questa tenuta grazie alle Epistole di Ausonio (Ep. 9, 2;15) e di Paolino (ep. 9,1,3; 2,35 e ep. 11,14 indirizzata a Sulpicio Severo). Oltre all’approdo sul fiume, la tenuta era collegata via terra con la Spagna, sia verso Pamplona sia verso Barcellona (Ausonio, Ep. 23,117).

[2] Sulla data della morte del padre cfr. conferenza di Jean Dartigolles del 28.3.2012 a Budos, in www.siriona.org

[3] Ausonio, Epistole 21,33 e 22,61.

[4] Ausonio, Epistole 8,2,25 e 21,24; Paolino, Carme 10, 93. Luca Mondin, Introduzione alle Epistole di Ausonio,Città Nuova, p. 109.

[5] Luca Mondin, Introduzione alle Epistole di Ausonio, Città Nuova, p. XXXI.

[6] J. Quarter, Ancient Christian Writers, Paolino de Nole, p. D. E. Trout, The dates of the ordination of Paulinus of Bordeaux and of his departure for Nola, "Revue des Etudes Augustiniennes", 37 (1991), p. 287.

[7] Troviamo questa confessione riportata nell’Epistola 8 di Ausonio indirizzata a Paolino a Ebromagum. (L. Mondin, Introduzione alle Epistole di Ausonio, p. 128).

[8] Lo racconterà intorno al 388-389 nell’Epistola 54 all’amico Sulpicio Severo, discepolo e biografo di Martino di Tours.

[9] Paolino di Nola, Epistola 18 indirizzata a Vittricio di Rouen intorno al 396. Si rammarica di non aver saputo prima che fosse stato un tale martire della fede, mentre allora aveva visto in lui solo un vescovo.

[10] André Pelletier, Vienna-Vienne, Presses Universitaires de Lyon, 2001, p. 164.

[11] Histoire du diocèse de Rouen-Le Havre, p. 10 (consultabile online).

[12] La diocèse de Bordeaux, sous la direction de Bernard Guillemain, Ed. Beauchesne, Paris, 1974, p. 15; www.vallee-du-ciron.com Eglise de Saint Gervais. Riportano che con le reliquie di Gervasio Paolino avrebbe fondato nel 390 una memoria ad Alingo (Langon), nei cui pressi era la tenuta di Ebromagus, ingrandita dopo il 400 dal vescovo di Bordeaux. A parte il fatto che nel 390 Paolino era in Spagna, scriverà molto più tardi a Delfino da Cimitile per complimentarsi della fondazione di una chiesa ad Alingo e non cita neppure le reliquie di S. Gervasio.

[13] Luca Mondin, commento all’Epistola 21 di Ausonio, p. 243.

[14] Ausonio, Epistole 5,6,8,9. Luca Mondin, Introduzione alle Epistole di Ausonio, p. XXXI.

[15] Paolino, Carme 1 indirizzato a Gestidio.

[16] Paolino di Nola, Epistola 11, 14 a Sulpicio Severo del 397, da Cimitile.

[17] Nei pressi dell’attuale St-Seurin a Bordeaux.

[18]Ne sparsa raptamque domum lacertaque centum per dominos ueteris Paulini regna”, Ausonio, Epistola XXIII, vv. 107-108.

[19] Camille Jullian, op. cit., pp. 141-142.

[20]iam praedia fratris uicina ingreditur”, Ausonio, Epistola XXIII, vv. 118-119.

[21] Oggi Alcala de Henares, 35 km NE di Madrid. Ci sono notevoli scavi archeologici.

[22] D. E. Trout, op. cit., p. 84.

[23] Luca Mondin, Introduzione, testo critico e commento alle Epistole di Decimo Magno Ausonio, Il Cardo, Venezia 1995, p. XXXII.

[24] Undici lettere sono firmate “Paolino e Therasia”; è ricordata nelle Epistole di Paolino 21, 281; 25, 240; 31, 626; nel Carme 21, v. 399; Agostino indirizza a entrambi cinque lettere (31, 42, 45, 80, 149).

[25] Luca Mondin, commento all’Epistola 21, vv. 10-12, p. 242.

[26] Luca Mondin, commento all’Epistola 22 di Ausonio, pp. 249-250.

[27] Lettera al vescovo Sabino di Piacenza dell’inizio del 395, Ep. 27, 3: Haec ubi audierint proceres uiri, quae loquentur? Ex illa familia, illa prosapia, illa indole, tanta praeditum eloquentia, migrasse a senatur, interceptasse familiae nobilis successionem: ferri non posse!, in Opera omnia di Sant’Ambrogio, Lettere/1, Città Nuova Editrice, Milano 1998, a cura di Gabriele Banterle.

[28] Questo è il motivo per cui nella sua agiografia Paolino viene fatto sposare prima del 385!

[29] Paolino di Nola, Carme 10, 23. L. Mondin, commento alle Epistole di Ausonio, pp. 108, 242.

[30] D. E. Trout, op.cit., p. 256. Nel testo ci sono i rimandi usati da Paolino e prelevati dal libello di Gerolamo.

[31] D. E. Trout, op. cit., p. 255.

[32] Paolino di Nola, Epistola 1,10-11 a Sulpicio Severo, inizio 395.

[33] Ambrogio, Ep. 27, 1-2 inizio 395 a Sabino vescovo di Piacenza, cfr. nota 51.

[34] Gerolamo, Epistola 58, vv. 2-6, in D. E. Trout, op. cit., p. 257.

[35] Paolino di Nola, Epistola 5, 14.

[36] Angelo Paredi, Sant’Ambrogio, Rizzoli, Milano 1985, p. 303.

[37] D. E. Trout, op.cit., p. 255

[38] D. E. Trout, op. cit., p. 103

[39] Peter Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nei primi secoli cristiani, Einaudi, Torino 1992, pp. 371-372.

[40] Paolino di Nola, Epistola 51,1.

[41] Paolino di Nola, Epistola 32, 6, 45 a Sulpicio Severo., in C. Mazzucco-C. Militello-A. Valerio, E Dio li creò, Milano 1990, pp. 163-185.

[42] Agostino, Epistola 186.

[43] P. Brown, op. cit., p. 252.

[44] P. Brown, op. cit., pp. 252.

[45] P. Brown, op. cit., p. 253

[46] Andrea Giardina, Carità eversiva: le donazioni di Melania la Giovane e gli equilibri della società tardoromana, "Studi storici", anno 29, 1 (1988), Fondazione Istituto Gramsci, pp. 127-142.

[47] Giorgio Fedalto, Rufino di Aquileia, Città Nuova, Roma, 2005, p. 191.

[48] Andrea Giardina, Carità eversiva: Le donazioni di Melania la Giovane e gli equilibri della società tardoromana, "Studi storici", Anno 29,1 (1988), Fondazione Istituto Gramsci, pp. 127-142.

[49] Tra marginalità e integrazione. Aspetti dell’assistenza sociale nel mondo greco e romano. Atti delle giornate di studio Università Europea di Roma, 7-8 novembre 2012, a cura di Umberto Roberto e Paolo A. Tucci, Edizioni Universitarie, Milano 2015, pp. 168.

[50] Tra marginalità e integrazione, op. cit., p. 169.

[51] Palladio, Storia Lausiaca, 54,5, Fondazione Valla.

[52] Tra marginalità e integrazione, op. cit., pp. 166-167.

[53] Paola Marone, Alle origini del culto di S. Felice a Nola, in "Studi e Materiali di Storia delle religioni", 80, (2014), pp. 282-299, nota n. 81 a p. 298.

Ultima modifica: sabato 5 marzo 2016

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