Nota
Diversamente dalle “Istructiones” di S. Carlo, già
oggetto di una mia sommaria esposizione, il libro di Federico Borromeo si
presta a una lettura estesa. E' un trattatello in stile umanistico, di tono
brillante e scorrevole, in cui le tesi sono sostenute da “auctoritates”, cioè
citazioni di scrittori autorevoli, ed “exempla”, episodi e aneddoti destinati
ad esemplificarle. I miei tagli riassuntivi riguardano soprattutto questi
punti, ove il testo per esteso non aggiungeva nulla alla sostanza, oltre a
quelli ove l'autore mostra una tendenza all'analisi minuziosa e pignolesca che
doveva essere un carattere di famiglia.
Come nell’altro caso, il mio scopo non è di sottoporre
il testo a un’indagine filologico-esegetica, ma solo di renderlo disponibile
agli studenti interessati. Anche qui ho distinto graficamente i diversi livelli
di lettura: in corpo più grande e tra
virgolette il testo nella traduzione di C. Castiglioni, in corpo più piccolo e
tondo le parti riassunte ma conformi al
testo; nello stesso corpo ma corsivo i
miei interventi. Quanto alla traduzione, vi ho apportato alcune modifiche marginali,
quando mi sembrava che la fedeltà al latino nuocesse alla chiarezza.
Ho omesso la maggior parte dei riferimenti a margine,
che non dicono molto al lettore non specialistico. Ho invece abbondato nelle
illustrazioni per visualizzare le opere e gli oggetti cui l'autore fa
continui riferimenti. A un certo punto (cap. X del libro I) mi sono permesso
un “excursus” iconografico-storico, perchè mi sembrava che l'argomento del
capitolo ne contenesse in modo potenziale la sostanza.
Il segno <<< rimanda all’indice, salvo diversa
indicazione
Federico
Borromeo “De Pictura Sacra”, 1624
(Edizione da me usata:
Camastro, Sora, 1932, traduzione e cura di C. Castiglioni, introduzione di G.
Nicodemi)
A introduzione dell'opera, riporto il preambolo del
Borromeo alle “Leges Observandae in Academia”, cioè del regolamento
dell'Ambrosiana da lui appena fondata.
“Nell'istituire la Scuola o
Accademia di pittura, scultura e architettura non ci mosse alcun motivo umano,
ma fu intenzione dell'animo nostro di preparare gli artisti ai lavori del
divin culto e di rendere alquanto migliori in questo campo quelle arti. E'
infatti abbastanza noto che molti pittori, scultori e architetti, poiché non
hanno fatto strada o nei precetti o nella pietà che dovrebbero apportare nella
produzione di tali opere sacre, spesso mancano gravemente e dipingono i divini
misteri e i fatti umani, o progettano i templi sacri e le abitazioni degli
uomini senz'alcuna distinzione del sacro e del profano, ed hanno più riguardo
alle comuni regole dell'arte che alla pietà e alla santità dei luoghi, dei
tempi e delle cose stesse. Per la qual cosa noi vogliamo che sia regola della
nostra Accademia che, oltre all'arte della pittura e della scultura, vi sia
qualche docente che insegni i doveri delle virtù cristiane e che, all'udire di
frequente simili ragionamenti, gli artisti siano formati anche alla pietà e
religione.
“Converrà che essi conoscano bene i misteri della
nostra sacrosanta Fede, la cui conoscenza invero contribuisce non poco alla
perfezione delle arti. Poiché, come sarebbe assurdo pubblicare libri infarciti
di errori e che tendessero a corrompere i costumi, e converrebbe anzi
distruggere libri di tal genere; così nella composizione di immagini e di
edifici bisogna badare che nulla rimanga da cui gli animi dei mortali siano
indotti al male e all'errore. In questa nostra cura pastorale e
nell'amministrazione delle cose divine abbiamo avuto presente questo proposito,
e a ciò mirammo istituendo questa disciplina e maestri e discepoli, e perciò
dettammo queste che ne sono come le leggi.”
<<<
L'Ambrosiana ai tempi di Federico <<<
Libro I
Cap. I: Indirizzo al lettore e proposizione
degli argomenti
Viene annunciata la divisione in due libri:
I:
“Precetti comuni ad ogni genere d'arte, riguardanti la perfezione sia della
pittura che della scultura sacra”
II:
iconografie di singoli temi
L'autore
richiama la delibera della XXV sessione del Concilio di Trento
come testo di riferimento per ogni moderna valutazione di un'opera d'arte. <<<
Cap. II: Del Bello
“Anche nel vivere umano si ricerca e piace soprattutto
agli occhi degli spettatori ciò che si chiama il decoro; quello splendore cioè
o quella luce o fiore che risulta da ogni movenza e da ogni gesto, luce e fiore
di cui l'animo si allieta. E quella gioiosità e quel piacere, siccome è insito
in tutte le opere che si compiono con venustà e grazia, così l'arte lo
trasfonde nelle immagini che coi colori o nel marmo riproducano quelle azioni
umane. E la gioiosità di queste arti in nulla differisce da quella naturale e
viva, se non in ciò, che le loro opere non hanno via né loquela né movimento
alcuno; e sono come rinchiuse in simulacri annebbiati e in colori morti.
“Tuttavia, i morti colori e questi morti marmi non
sdegnano le leggi del decoro, ne abbisognano anzi di più. Invero, qualunque
pecca si compia contro il decoro nell'opera d'arte rimane in perpetuo ed è
insopprimibile, mentre è relativamente facile cambiare un comportamento e
quasi subito esso scompare dagli occhi non appena questi ne sono stati colpiti.
Inoltre si può offendere e venir meno al decoro nei comportamenti inavvertitamente e per
leggerezza oppure anche per qualche violenta passione, contro il nostro volere,
mentre con animo deliberato e con le proprie mani si deforma e si deturpa il
decoro dell'arte, e la sua egregia bellezza deliberatamente e volontariamente
la si riduce spesso a una mostruosità vergognosa. La qual mancanza o ingiuria o
deturpazione del bello, se avviene in materia profana è senza dubbio
riprovevole, ma ancor più riprovevole è quando la si commette in cose sacre e
divine.” (pagg. 58-49)
Seguono
citazioni sulla cura che gli antichi pagani ponevano nel rappresentare le cose
divine con la più alta qualità artistica, cosa che noi apprendiamo anche da
quanto resta dei loro trattati in materia e da cui gli artisti moderni
dovrebbero ancora prender esempio.
“Il bello, in ogni ordine di cose, non è se non ciò che
armonizza pienamente con sé stesso, in modo da apparirci tale che nulla gli si
possa togliere e nulla aggiungere. E' insomma quale deve essere [Teage,
pitagorico citato da Stobeo]. Sconveniente, al contrario, è tutto ciò che
manca oppure sovrabbonda rispetto alla giusta misura. Queste definizioni
dimostrano chiaramente che qualsiasi virtù è sempre circonfusa di questo
decoro, poiché la sua eccellenza è riposta in una tale perfezione che sta di
mezzo tra il poco e il troppo. E per quanto non la si possa dissociare
dall'onesto, ha tuttavia qualcosa in più, che a parole non si può esprimere
benchè la mente la comprenda [Cicerone, de Officiis, I]. Come infatti la
bellezza del corpo non si può disgiungere da una salute buona e stabile, così
il Bello non si disgiunge mai dalla virtù. I Pitagorici sostennero perfino che
la virtù non è che l'abito del Bello e che il brutto può risultare in due modi,
cioè o per difetto o per eccesso di ciò che è puramente conveniente. Il Bello
poi sta in quel giusto mezzo mancando il quale i corpi umani si dicono infermi
(…) Così, portando oltre questa elegantissima teoria pitagorica, possiamo dire
che le immagini che presentano qualcosa di viziato e di indecente sono come
corpi ammalati e che gli artisti inetti sono genitori di una prole inferma”
(pagg. 59-60)
Il
cardinale accoglie dunque la classica idea del Bello come equilibrio ideale fra
opposti eccessi e dell'arte come restituzione di tale equilibrio, quindi della
riproduzione della realtà “quale deve essere”. Vedremo subito però che in
questo “dover essere” egli pone anche ciò che chiama la “verità storica” e i
canoni della Chiesa, non esclusa la tradizione iconografica, rischiando quindi
non poche contraddizioni <<<
Cap. III: Gli errori degli antichi gentili
Naturalmente
anche gli antichi hanno fatto i loro bravi errori, innanzitutto nel non rispettare
la verità fisica o storica dei fatti considerati, come quando raffiguravano
Ercole che “squarcia” il leone aprendogli le fauci, mentre con quel gesto
poteva al massimo soffocarlo, o Cleopatra che porge il seno all'aspide, quando
la serpe le avrebbe sicuramente morso prima il braccio. Ma già quegli antichi
trovarono tra i loro contemporanei chi li redarguisse. <<<
Cap. IV: La falsificazione
della storia
“Perchè non si offendano i diritti della storia, si
deve tener presente che è certamente lecito al pittore e allo scultore
abbellire e nobilitare meglio che possono gli episodi riprodotti, ma non è
affatto permesso contraddire alla loro verità e deturpare o non riconoscere
l'inveterata tradizione su un dato fatto. A ciò appunto mirando il Decreto del
Sacro Concilio Tridentino ordinò che dalla pittura sacra si bandissero le
falsità e gli errori tutti, affinchè le devote immagini non presentino nulla
che possa scandalizzare gli animi semplici. Dice precisamente quel decreto: -
in modo che nulla si veda di disordinato, di fatto al contrario o alla
rinfusa, nulla di profano e nulla di indecente-.
“Perchè poi si comprenda come e quanto nell'arte dei
pittori si possa variare e ornare un fatto, lo si può così definire. Alcune
cose sono vere o perchè avvennero un tempo o perchè avvengono tuttora. Altre
cose possono essere o avvenire ma non è affatto probabile, mentre altre ancora
possono essere o avvenire con ogni probabilità. Nel primo ordine di cose il
pittore dovrà esprimere con fedeltà quelle che avvennero in passato e che
avvengono nel presente; e ciò tuttavia non lo farà confusamente, ma usando
criterio e maturità di giudizio, allo stesso modo che nel discorso quotidiano è
conveniente tacere parecchie cose che pur sono vere. Le cose, poi, che sono
probabili richiedono d'essere trattate con riguardo e con somma prudenza,
giacchè l'arte si esercita più propriamente nelle cose vere, così che quando
da esse si allontana, ancor più si allontana dalla vera e schietta arte del
dipingere e dello scolpire. Delle cose più o meno probabili diciamo insomma che
è permesso servirsene allo stesso modo in cui l'oratore, pur nel trattare e
dimostrare la verità, non disdegna affatto argomenti probabili. Ne viene così
che le cose probabili si rappresentano come vere non senza una certa forza di
persuasione e con quel sovrano piacere e diletto che tutte le cose nuove
arrecano.
“Le cose false però non si dovrà mai ammetterle né
accettarle, così come vengono assolutamente bandite dagli scritti e dalla
letteratura. Non è infatti diverso scrivere un libro falso e dipingere un
episodio non vero. Anzi, il falso nella pittura spiacerà a dotti e indotti,
mentre la falsità letteraria recherà disgusto solo alle persone istruite e
prudenti (pagg. 61-62)
L'arte
figurativa dunque equivale a quella letteraria in quanto veicolo di verità o di
menzogna, ma rispetto a questa ha un impatto sociale maggiore, perchè i suoi
contenuti possono essere capiti non solo dai dotti ma anche dagli analfabeti,
che costituivano la gran parte della popolazione del tempo. Questo in virtù di
quelle “cose probabili” che l'artista vi può aggiungere, che costituiscono i
caratteri specifici di ogni opera (luci, ambientazione, gesti...) e quelli cui
è affidata la forza persuasiva dell'opera stessa. Non a caso proprio questi
caratteri saranno, in modo implicito o dichiarato, oggetto di gran parte della
trattazione che seguirà. <<<
Esempi di
pittura falsa: Gesù che impara a leggere sulle ginocchia della madre, “quasi si
avesse a ritenere che il Salvatore, al pari degli altri fanciulli, si sia
dedicato alle esercitazioni scolastiche; Maria partoriente ma “bisognosa
dell'assistenza di altre donne”; santi moderni anacronisticamente posti ai
piedi della croce o in adorazione di Gesù bambino; Lazzaro che esce dal
sepolcro coi piedi slegati (Giovanni dice il contrario); la Samaritana al pozzo
con corda e secchio (Giovanni non ne parla); il Cristo che porta la croce
vestito di porpora. <<<
Questi
esempi appaiono piuttosto deboli, soprattutto in rapporto alla grande precettistica
conciliare, basata com'è su concetti di “verità”, “ordine” ecc., discutibili
quanto si voglia ma orientati a un livello di realtà più alto di quello preso
in esame dall'autore. Ma rappresentano il suo modo di cercare la verità
storica, come vedremo soprattutto nel libro II.
Cap. V: Le favole dei Gentili
“Fu sempre concessa ai pittori e ai poeti la massima
libertà, ma tale libertà non deve mai giungere al punto che le venerabili e
sacrosante leggi della Fede Cattolica, nonché la stessa ragione (le quali tutte
vietano che, come in ogni discorso, così nella pittura si faccia miscela di
sacro e di profano) debbano talora venir calpestate. Michelangelo, dipingendo
nella Cappella Papale in Roma il Giudizio Universale, non so con quale spirito
vi raffigurò la barca di Caronte sulla quale i miseri mortali vengono traghettati,
il che non fu certo una lodevole trovata di quell'artista (pag. 63).
E
Dante? Forse il cardinale ritiene che la “Commedia” sia roba da letterati e
che, in base a quanto detto nel capitolo precedente, non possa giustificare
un'opera figurativa. D'altronde, quali rappresentanti del popolo indotto
avevano accesso alla Cappella Sistina?
“Ma ecco che, per divina disposizione, il caso stesso
intervenne a correggere e quasi a sopprimere quella cosa favolosa e
sconveniente. La mole del maestoso altare, infatti, e i suoi ornamenti,
nascondono la barca a tal punto che non dà più nell'occhio.
“Anzi, i nostri antichi ebbero molto a cuore che questi
soggetti profani non inquinassero le cose sacre, e lo stesso Costantino il
Grande proibì che la sua effigie venisse collocata in qualunque tempio degli
Dèi. Pensava infatti che se vi fosse posta per qualunque motivo, ne sarebbe
stata in un certo qual modo contaminata e macchiata [Eusebio, Vita di Costantino,
IV, 6].
“Alle chiese e a qualunque luogo sacro disconvengono le
Sfingi, la turba dei Satiri, gli uomini foggiati ad alberi e le altre finzioni
del genere: queste vanno lasciate alla vanità dei Gentili, cui appartengono in
proprio (pag. 63).
Qui l'autore se la prende con la moda delle “grottesche”, che imperava da quando era stata scoperta la “Domus
Aurea” (le “grotte” in cui si trovavano i prototipi di quelle figurazioni). <<<
In alto a sinistra: Grottesche con “sfingi”. In alto a destra: Grottesche con satiri, anzi satiresse. In basso: Grottesche della “Domus Aurea” <<<
L’autore ne riconosce giustamente il carattere pagano, ed è provato che
molti artisti si servivano di esse per mascherare sotto apparenti motivi
decorativi simboli e contenuti ispirati ad un neopaganesimo magico-occultistico
(il cosiddetto ermetismo) ben poco compatibile col cattolicesimo romano.
“Se nei più antichi templi che i cristiani costruirono si
trovano creature mostruose di tal fatta, certo vi furono trasferite dalle
costruzioni pagane e non già di proposito scolpite sulle sacre pareti.
[Erano
insomma materiali di spoglio. Ma vi sono anche travasi di motivi iconografici
che l'autore sembra ignorare, come le allegorie del cielo e dei fiumi o
l'atteggiamento della Mater Matuta per la Madonna, di Apollo per il Cristo
giovane ecc.]
In alto a sinistra: Apollo del Belvedere. In alto a destra: Il battesimo di Gesù con l'allegoria del
fiume Giordano. In basso a sinistra: La Mater
Matuta in atteggiamento di Madonna. In basso a destra: Il Cristo nella “traditio legis” con le
sembianze di Apollo e sovrastante l'allegoria del cielo. <<<
“Era tanta la premura dei Santi Padri nel rimuovere dalla
vista dei fedeli le immagini profane che Clemente di Alessandria volle persino
indicare quali siano le figure e le immagini adatte ai cristiani. Così
stabilisce: - Non spade, non archi, non coppe, ma colombe, pesci e navicelle,
ancore e lire porteranno incise nei sigilli -.
In alto a sinistra: Pesci e ancore in un rilievo funerario. In alto a destra: Orfeo con la lira in un mosaico pavimentale. In basso a sinistra: La Navicella al Museo Pio Cristiano. In basso a destra: Colombe in un mosaico di Ravenna. <<<
Si tratta dei principali simboli
paleocristiani, rappresentanti rispettivamente lo Spirito Santo, il Cristo
attraverso l'acronimo ICHTYS, la Chiesa (navicella di Pietro) e la salvezza. La
lira ricorda forse Orfeo (v. lib. II, cap. II).
“Ai giorni nostri invece è altamente da rimproverarsi la
vanità o la superbia di coloro che appena si accingono a far qualche
costruzione per uso sacro o caritativo, subito dispongono che vi si affiggano
e vi campeggino le insegne dei propri stemmi, e li vogliono collocati non in un
canto o in un fregio secondario, ma in un posto ben visibile ed eminente, e
magari la spesa che quella sola fatture richiede supera quella consumata per
tutto il resto della costruzione! Le persone pie sono veramente nauseate alla
vista di fastosi paramenti o di pianete [vesti cerimoniali del sacerdote] nei cui
lembi estremi risplendono ricami con stemmi sormontati da corone o da trofei,
ornamenti ed emblemi che nemmeno gli archi trionfali degli antichi portarono
mai (pagg. 63-64).
La moda di esporre i propri stemmi nelle opere votive era
universalmente diffusa tra le famiglie influenti dal tardo medio evo in poi. Seguono esempi di austerità
fra gli antichi, poi l'autore conclude:
“Non dubito
che quelle insegne si facciano dipingere innocentemente e senza malizia, mi
sembra però che convenga evitare anche il sospetto di vanità e di superbia, dal
quale non mi sembra che essi possano sfuggire” (pag. 64) <<< [a indice]
>>>
[a
lib. II, 3]
Cap.
VI: Del nudo
“Un requisito necessario del Bello, di cui sopra parlammo, è
l'evitare ogni nudo che non sia strettamente richiesto dalla verità del mistero
[= episodio
di storia sacra] o che possa offendere la delicatezza d'animo e scemare la
devozione degli osservatori. E da parte mia non ho mai potuto capacitarmi
dell'artificio pittorico di rappresentare uomini o anche donne nude, dal
momento che né gli uni né le altre vediamo girare in tal costume per le vie e
per le piazze; e se anche qualcuno ciò vedesse, gli riuscirebbe certo sgradevole e ributtante. E non è poi cosa nuova il
rivestire e velare le nudità, poiché già l'antica pittura dei Romani usava questa pratica,
disdegnando il malvezzo dei Greci, che si compiacevano di figure ignude
[Plinio, 34, 5]. (…) Quindi appare ancora la sconvenienza di quelli che
effigiano il divino Infante nell'atto di poppare così da mostrare denudati il
seno e la gola della Beata Vergine, mentre quelle membra non si devono
dipingere che con molta cautela e modestia. Non pochi ritraggono poi nude persino
le gambe di Santi e Sante, e tra loro li accostano in modo tale che si possa
ridestare nell'animo qualche pensiero molesto. Questo fatto così disonorò
presso i posteri un artista di gran nome, che fu necessario togliere dalle sue
tele quello sconcio [Un
premio speciale a chi indovina chi era questo artista !] A
riprovazione di tanta impudenza val la pena di riferire le parole di un
Concilio [il Magontino]: - Proibiamo nel modo più assoluto che nella chiesa
vengano esposte immagini procaci, effigiate con soverchi lenocinii d'arte più
a scopo di mondana vanità che per eccitare la devozione -” (pag. 66)
<<<
Cap. VII: L'abbigliamento
“Nè basta evitare il nudo: occorre anche usare vesti
convenienti a ciascuna persona (…) Non bisogna abbigliare i Santi con abiti
già in uso presso l'antichità profana, né si debbono imitare le fogge del
vestire dei Gentili: converrà invece, dopo aver bene studiato il vestire di
ciascuno, nobile o plebeo, e le costumanze del tempo donde si desume
l'argomento del dipingere, attenervisi scrupolosamente (…) né farà opera pia e
seria il pittore che rappresenterà veli rigonfi ed agitati da venti in modo che
la veste ostenti grazie voluttuose. Non sarà invero cosa decente effigiare tra
le cose sacre il rapimento di Proserpina o le Sabine tra le mani dei giovani
Così pure, né gemme né perle saranno da intrecciarsi tra i capelli di una
Santa, visto che tali ornamenti sconverrebbero anche a qualunque dama onorata
delle nostre città. I pittori che in questi modi peccano, non solo ritraggono
il falso col loro pennello e creano Santi superbi, vanitosi ed effeminati
mentre tali assolutamente non furono, ma proclamano e approvano quelle vanità
che tanto furono biasimate dai Padri e dai Dottori nostri” (pagg. 66-67) <<<
Cap. VIII:
Le età
Dell'esattezza storica fa parte anche l'esatta
raffigurazione dell'età apparente dei personaggi rispetto all'evento narrato.
Raffaello: Sacra famiglia. Madrid, Prado <<<
“Ma anche Giuseppe, sposo della Madre di Dio, viene rappresentato
in età avanzata, mentre i sacri scrittori non dicono affatto che allora fosse
vecchio. Qualcuno allora potrebbe dire: - Si deve forse abbandonare il modello
tradizionale per mettere accanto alla Vergine un bel giovane o un uomo
aitante? - Per nulla affatto lo si farà, perchè è troppo grave l'autorità di
questa antica consuetudine e delle tradizioni ecclesiastiche, specialmente
quelle che si appoggiano sopra misteri e serie ragioni, come avviene appunto
nella tradizione relativa a San Giuseppe. Si imprese a ritrarlo come vecchio
perchè ne risalti la santità della vita e la perfetta castità. Virtù che è più
facile ritrovare nell'età senile che nel fiore degli anni.
“Benchè
convenga conservare questa veneranda tradizione, non debbono tuttavia i pittori
alterare le età degli altri Santi come siamo soliti vedere nelle
rappresentazioni di San Sebastiano. <<<
“Infatti quando egli colse la palma del martirio
era già piuttosto vecchio; i pittori invece lo ritrassero giovane, per aver
modo di sfoggiare la loro bravura artistica in un corpo pieno di salute e
nudo. Ma i padri nostri, severi e santi uomini, non volevano che così fosse
effigiato un martire. Noi stessi ricordiamo di aver visto di lui vecchio un'antica
immagine sulla facciata del tempio che anticamente in Roma fu dedicato a questo
martire.
“Tanto meno opportuno e conforme al vero è rappresentare
giovane l'evangelista Giovanni nell'atto di scrivere l'Apocalisse sull'isola
di Patmos: quando la scrisse era già vecchio. E' di tanta importanza la corrispondenza
delle età che persino all'immortale Michelangelo fu apposto a colpa l'aver
scolpito il Salvatore morto tra le braccia giovanili della Madre. E non
mancano di quelli che trovano anche troppo giovane l'età del Salvatore quale fu
dipinto da Michelangelo nel Giudizio. E si sarebbe potuto anche dubitare se nella rappresentazione
di quel Giudizio l'aspetto dei Santi sia di età media, come di fatto sarà. Ma
i pittori obietteranno che tali questioni non appartengono all'arte e che
quindi a loro sarà lecito riprodurre quelle sembianze che, modellate su età
diverse, sono da tempo accettate. (pag. 69) <<<
Michelangelo: Cristo nel Giudizio Universale (a sinistra); la Vergine nella Pietà di San Pietro (a destra) <<<
Insomma, la verità veicolata dall'arte non è solo quella
“storica”. Ci può essere una verità dottrinale-ideologica (l'età di S.
Giuseppe) o una verità iconografica (la riconoscibilità di un santo), entrambe
avallate dalla tradizione.
Cap. IX: Il campo pittorico [= lo sfondo e i dettagli
di contorno]
Non dev'essere fatto in modo da distrarre l'attenzione
dell'osservatore dal soggetto centrale del dipinto.
“Si deve (…) altamente biasimare l'imperizia di quelli che,
nella descrizione del campo pittorico, pongono gli accessori al primo posto e il
tema essenziale dell'opera quasi lo velano e l'occultano. Volendo, per esempio,
dipingere San Giovanni nel deserto, lo mettono in un angolo oscuro e trascurato
e riempiono la scena con animali, piante, rocce con varia prospettiva. Molto
più opportunamente si sarebbe rappresentata quella varietà di scene in un'altra
tavola, consacrando interamente la prima alla figura per cui era stata
preparata. (pag. 70)
Paul Brill: San Giovanni Battista <<<
Qui il Borromeo condanna
un'altra moda artistica del suo tempo: il paesaggismo minuzioso di cui erano
specialisti i fiamminghi. Di questo genere in realtà era lui stesso appassionato,
come dimostra l'abbondante presenza di esso nella sua collezione all'Ambrosiana.
E non sempre rispettava il suo stesso precetto di non confondere il soggetto
sacro col paesaggio, riservandogli un'”altra tavola”: in diversi casi, come il
San Giovannino di Paul Brill qui mostrato, egli accetta proprio questa
confusione. <<<
“Mancanza ancor più
grave sarebbe quella di chi, propostosi di dipingere una tavola da esporsi al
culto in un tempio, ne deturpasse il meglio, inserendovi una femmina lasciva,
e attorno a quella disonesta figura lavorasse con passione, oltre ogni
necessità di narrazione, quando l'unica necessità, in quel caso, sarebbe di
omettere quella figura. Pertanto io non metterei in un simile quadro Susanna
ignuda, benchè la storia ammetta quella nudità. Così pure condannerò quelli che, dipingendo la nascita
della Vergine Maria, al mistero accennano quasi di volo e con trascuratezza, mentre
ostentano abilità artistica nel ritrarre la suppellettile casalinga e la
famiglia. Io credo che ciò facciano non perchè manchino loro pietà e fede, ma
perchè non sono esperti in arte. Sorvolano ciò che era veramente difficile e
consumano tutta la fatica nelle frivolezze. (pagg. 70-71)
Alessandro Allori: Susanna e i Vecchioni, Digione, Museo Magnin <<<
Tuttavia
la precisione su questo punto non dev'essere esagerata e troppo rigida.
L'autore fa l'esempio di un' “Adorazione dei Magi” di Tiziano acquistata da San
Carlo e da lui esposta nella collezione dell'Ambrosiana:
“In un angolo inferiore di quella tela era stato dipinto un
cagnolino con tale naturalezza e leggiadria insieme quanto è umanamente
possibile con colori e pennello. Orbene, un austero e fanatico personaggio della
corte del Cardinale subito ordinò che fosse cancellata la bestiola accovacciata
nel cantuccio, e così andò perduto quel prodigio di arte. E sì che in quel quadro
il cagnolino poteva starci benissimo, insieme alla torma di cavalli e cammelli
e al numeroso seguito dei Re Magi (…) Si dice che quando Tiziano seppe della
cosa, sospirando con le lacrime agli occhi esclamasse che non faceva meraviglia
se gente ignorante di ogni arte avesse potuto commettere un simile sfregio.
(pag. 70)
Sua Eminenza però dimentica
di osservare (o forse non sapeva) che il cagnolino stava facendo pipì sulla parete della capanna, e
anche questo non è “sfregio” da poco agli occhi dei tradizionalisti!
Comunque un recentissimo restauro ha eliminato la ridipintura facendo riemergere il cagnolino.
<<<
Tiziano: Adorazione dei Magi (particolare dopo il restauro), Milano, Pinacoteca Ambrosiana
Tiziano: Adorazione dei Magi (prima del restauro), Milano, Pinacoteca Ambrosiana <<<
Cap. X: Difficoltà nel
ritrarre i sentimenti dell'animo
“Ho spesse volte notato questo difetto nella nostra natura:
essa rifugge dalle cose più difficili ancorchè nobilissime ed è proclive invece
alle meno belle, essendo queste più facili. Per questo istinto naturale e per
la debolezza dell'umana mente, avviene che, come gli antichi e sommi artisti
posero ogni studio nel disegnare le teste, i nostri moderni, trascurando
quella parte, usano impiegare tutta l'arte loro nelle altre parti. Non badando
alla misura e alla proporzione dei corpi, non pochi anzi pongono tutto il loro
lavoro nelle vesti e nella leggiadria dell'atteggiamento. Michelangelo superò
gli antichi nel ritrarre i piedi, ma li eguagliò anche in ogni genere
artistico. I nostri moderni, dei quali mi lamento, evitano di proposito tutto
ciò che è difficile e nobile e si appigliano a ciò che è appariscente e
superficiale.
“Gli antichi avevano tanta cura dei sentimenti dell'animo che
Callistrato [autore greco di descrizioni di opere d'arte], nel
descrivere la figura di un satiro così si esprime. In quel marmo era insita e
si vedeva rappresentata la passione di lui che danzava al suono dei flauti,
così che si vedevano le vene tumescenti e il fiato che erompeva dal profondo
del petto, il sasso gareggiare con la realtà e l'ansimare affannoso. (…) Proseguendo
poi Callistrato nella descrizione di quella statua, prese a insegnare quanto si
deve curare dai pittori quella parte che oggi si trascura.
“Riporterò anche da Plinio [34, 8] qualcosa che possa in
buona parte servire d'insegnamento ai nostri artisti. Egli dice dunque che la
statua di Paride dello scultore Eufranore presentava contemporaneamente tre
espressioni e quasi tre figure diverse: quella del giudice delle tre dee,
quella dell'amante e quella del furente uccisore di Achille.
“Io desidererei ardentemente che i nostri artisti avessero
sempre sott'occhio questo modello (…) poiché l'arte del pittore non per altro
fine fu inventata che per eccitare per suo mezzo i sentimenti nel cuore degli
spettatori (…) Infatti, come già disse un oratore [Cicerone] non c'è altro
essere vivente fuorchè l'uomo che possa comprendere la bellezza, l'eleganza e
l'armonia delle parti, e perciò giudice di tali cose non può essere che lo
stesso uomo. Di conseguenza è innato nell'uomo un desiderio di vedere, di conoscere
quelle cose che più gli appartengono nella disposizione e nell'armonia delle
parti, perciò vuol vedere e contemplare le varie passioni dell'animo che gli
sono proprie.
“Orbene, sì nobile e precipuo ufficio dell'arte, i nostri
pittori e scultori pare non lo comprendano affatto, e quando si attentano in
tale impresa appaiono inetti e falsi, come dimostreremo, e vogliono esprimere
sentimenti del tutto sconvenienti, come quando, incapaci malgrado ogni sforzo
dell'arte loro, di effigiare la Divina Madre dolente ai piedi della croce e il
suo volto pieno di dolore, si appigliano all'artificio di rappresentarla
svenuta; cosa facile a eseguirsi ma contraria alla testimonianza dei Padri.
Molti ancora effigiarono gli altri Santi con espressioni per nulla convenienti
alla loro santità, e così facendo peccarono gravemente contro l'autorità delle
Sacre Carte e contro la tradizione. Gli Scrittori Sacri magnificarono i meriti
e le virtù dei Santi; questi artisti invece ostentano e appioppano ai Santi
passioni che mai non ebbero. Che se questi inetti non sapevano esprimere i
sensi delle virtù, avrebbero almeno dovuto imitare l'accortezza di quell'artista
greco che, non volendo fare apparire nella sua pittura un difetto degli occhi,
lo soppresse e lo nascose. Non avrebbero insomma dovuto fare ciò che
disperavano di poter fare; avrebbero dovuto nascondersi nel silenzio piuttosto
che attribuire ai Santi quelle vergogne che a loro disonore ridondano dal
linguaggio dei loro pennelli.
“Vorrei pertanto che i nostri artisti o s'impegnassero ad
esprimere i sentimenti o, se a ciò non valgono, manifestassero in qualche modo
sforzo e dolore, come fece quell'artista antico che, diffidando di riuscire ad
esprimere i sentimenti del padre nel sacrificio della figlia, ricoperse il capo
di Agamennone. Questo studio porterà grandi e nobili frutti. Infatti la pietà
verso Dio e i Santi, la lode, l'irritazione, il timore, il dolore e la speranza
non sono se non i sentimenti destati nell'animo dalle sacre immagini, le quali
si potranno dire vive ed ispiratrici quando ecciteranno le nostre menti e le
scuoteranno quasi con un soffio vitale. (pagg. 71-73)
A confermare la
forza persuasiva di un'immagine rettamente concepita, l'autore riferisce
l'aneddoto edificante di una prostituta indotta a cambiar vita dopo aver visto
in casa di un cliente il ritratto del filosofo Palemone.
Persuasione,
ma anche, sulle tracce di Cicerone, conoscenza di sé: questi dunque sono i
frutti positivi dell'arte. Ma qual è, esattamente, per il cardinale, il difetto
della pittura dei suoi tempi? Forse quel pietismo filodrammatico e gesticolante
che affollava tante pale d'altare? O l'accademismo dei manieristi attardati?
Ritroveremo critiche simili nel cap. XII.
“Qualcuno potrà forse dire di non riuscire a esprimere i
sentimenti e di essere impari all'impresa. Scusa veramente puerile che quel
savio e prudente uomo che fu lo Speroni non avrebbe mai tenuta buona. [Sperone
Speroni, letterato e filosofo padovano, 1500-1588] Egli anteponeva
l'Apollo che è in Vaticano a Roma [quello detto “del Belvedere”] al
gruppo del Laocoonte, perchè diceva che all'artista era stato più facile
esprimere dolore, anzi un insieme di dolori, che una vivacità lieta e
piacevole. Infatti la passione dell'animo talora si manifesta all'esterno con
segni così chiari ed evidenti che quasi si vede del tutto svelata, mentre alle
volte è così velata dalle apparenze che sfugge all'occhio del corpo, e solo
con la mente e con la fantasia si può intravvedere. L'audacia, la prontezza,
l'ingenuità dell'animo, la venustà e la dignità non si possono percepire, appunto,
che con l'immaginazione. (pag. 74)
Indipendentemente da quest'ultima questione, il cardinale
introduce con questo capitolo argomenti importanti. Esprimere i sentimenti
dell'individuo è un problema che non sempre si pone all'artista. Non si è posto in quelle
stagioni in cui la figura umana era intesa soprattutto come portatrice di un
ideale di bellezza, di santità o comunque di un valore trascendente l'individuo
stesso (Grecia classica, alto medio evo cristiano, civiltà primitive in
genere). Si è posto invece quando l'individuo reclamava i suoi diritti: è il
caso della Grecia alessandrina e dell'Europa borghese dal tardo medio evo in
poi; una stagione che dura tuttora, anche se negli ultimi secoli i risultati
artistici sono difficili da interpretare.
In
quest'ultima stagione l'epoca in cui viveva il Borromeo ha un ruolo chiave.
Mentre l'ormai lunga tradizione ritrattistica lo sviluppava in modo empirico,
lo studio dell'espressione facciale e degli stati d'animo di cui essa è
veicolo stava assumendo carattere scientifico con la fisiognomica, una
disciplina nata con Leonardo e destinata a sviluppi contraddittori (non sempre
recepita dagli artisti, essa da un lato s'integrò nelle discipline
medico-psicologiche ma dall'altro dettò teorie arbitrarie come quelle di
Lombroso o Gobineau). Intanto si riscopriva, con Teofrasto, lo studio
psicologico dei caratteri; e non dimentichiamo che in questo stesso periodo sta
nascendo il teatro moderno. Tutto insomma porta artisti e spettatori a ritrarre
(o a veder ritratti) “i sentimenti dell'animo”. <<<
Franz Xaver
Messerschmidt (1736-1783) si dedicò
in particolare alle alterazioni patologiche della fisionomia umana
|
Una
tavola del "Saggio di fisiognomia" di Johann K. Lavater, opera
che intendeva stabilire un ponte tra la fisiognomia "scientifica"
e l'arte |
L’attore settecentesco David Garrick nella parte di
Riccardo III nell’omonimo dramma di Shakespeare |
Leonardo: studi di volti fortemente connotati
nell'espressione e nei tratti individuali, secondo l'interesse fisiognomico
tipico di questo artista |
Due
tipiche fisionomie criminali secondo Cesare Lombroso |
<<< |
L' “Apollo”del Belvedere (fig.
1) e il “Laocoonte” (fig. 3) possono essere presi come i prototipi delle due
tendenze che dal tardo medio evo in poi si manifestano nell'arte europea. La
prima, più legata all'ideale classico, vede nella figura umana l' “immagine di
Dio”, per cui tende a non individualizzarla e a farne l'immagine dell'umanità
redenta, il cui modello è, ovviamente il Cristo (fig. 4, il “Beau Dieu” di
Amiens, fig. 5, il Risorto di Piero della Francesca). La seconda, più
innovativa, ma egualmente radicata nell'antico, cerca invece l'espressione
individuale e trova un banco di prova nel tema del compianto sul Cristo morto
(fig. 6, un personaggio di Niccolò dell'Arca, fig. 7, un particolare di Giotto
agli Scrovegni). Il tema francese dei “pleurants” (fig. 8), sembra trarre
profitto dall'artificio di coprire il volto dei dolenti per aumentarne
l'espressività.
Fig. 1: Apollo del Belvedere |
Fig. 3: Laocoonte |
Fig. 2: Perseo di Canova |
Fig. 6: un personaggio di Niccolò dell'Arca |
, Fig. 4: il “Beau Dieu” di Amiens |
Fig. 7: Giotto, Compianto di Cristo, Padova, Cappella degli Scrovegni |
Fig. 5: Resurrezione di Piero della Francesca |
Fig. 8: una figura di "pleurant" francese |
Fig. 9: Morandi, Natura morta |
Fig. 16: Ritratto di Tiziano |
Fig. 12: Carlo Carrà, La Musa |
Fig. 11: Théodore Gèricault, Monomane dell'invidia
|
Fig. 13: De Chirico, La partenza degli Argonauti |
Fig. 10: Giacometti |
Fig. 14: Mondrian, Composizione con piano rosso grande, giallo, nero, grigio e blu, 1921 |
Fig. 15: Edvard Munch, L'urlo |
<<<
Ma il Borromeo nota anche che è più facile rappresentare
sentimenti forti e dolorosi che non “una vivacità lieta e piacevole”. Questo
problema è affrontato alla grande dai ritrattisti, che cercano nei loro
modelli ogni sfumatura, smentendo in parte lo scetticismo del cardinale sulla
possibilità di raffigurare sentimenti non estremi: si osservi alla fig. 11 la
follia rattenuta dei personaggi di Géricault. E' vero però che col tempo la
figura umana perde la sua tradizionale centralità nell'interesse degli
artisti. Il neoclassicismo riprende per l'ultima volta il modello apollineo
con la formula winckelmanniana della “nobile semplicità e tranquilla grandezza”
(formula che richiama la “vivacità lieta e piacevole” dello Speroni) e il
“Perseo” del Canova, fig. 2, è quasi una replica dell'Apollo del Belvedere.
Passata questa stagione, la figura diventa sempre più elemento di paesaggio (impressionisti),
oggetto di studio fra gli altri (cubisti) o addirittura emblema di dolore e
disagio esistenziale (Giacometti, fig. 10, Munch, fig. 15). Se non vogliamo
prendere troppo sul serio le idealizzazioni “metafisiche” tipo Carrà (fig. 12)
o De Chirico (fig. 13) dovremo piuttosto cercare l'ideale apollineo in certe
composizioni astratte (fig. 14: Mondrian) o negli oggetti di una “natura
morta” (fig. 9: Morandi). <<<
Cap. XI: Al pittore è necessaria
anzitutto la pietà
“I colori son quasi parole che, percepite cogli occhi,
penetrano nell'animo non meno delle voci percepite dalle orecchie (…), onde avviene
che anche il volgo e la moltitudine ignorante comprendano il linguaggio della
pittura, e con non minore efficacia rispetto agli uomini prudenti (…). E come
riesce vano lo sforzo dell'oratore per commuovere gli animi se prima non sarà
lui stesso commosso, così io penso che ai pittori avvenga alcunchè di simile,
di modo che, se essi prima non si saranno sforzati di eccitare nel proprio
animo i sentimenti, non potranno trasfondere nelle loro opere ciò che essi non
sentono, cioè pietà e nobili sentimenti dell'animo. (pagg. 75-76)
Seguono “exempla” tratti dall'antichità: i lirici vagavano
per selve e monti, Euripide si appartò in una caverna “per ricavarne sensazioni
di mestizia, paura, con altre forme di affanno e atrocità”
“I più celebrati scultori, paghi di un vitto scarsissimo, con
lunghi digiuni temprarono l'animo, onde più facilmente potessero concepire
quelle passioni. E io non temo di affermare che i tre artisti che scolpirono il
famoso gruppo del Laocoonte e ne espressero i dolori non si sostentassero, al
pari degli autori di tragedie, se non di legumi: duro sostentamento che Plinio
riferisce essersi usato fra gli autori di grandi opere d'arte. Comprendevano
benissimo che l'astinenza e i digiuni sono congiunti a dolore e lacrime,
mentre le laute imbandigioni si accompagnano al riso. Nell'ottavo concilio ecumenico
poi vi è un passo che stabilisce e decreta che non si adibiscano a dipingere immagini
sacre quegli uomini che furono dall'autorità della Chiesa condannati e privati
della partecipazione ai sacri riti. Ed è credibile che i Padri fossero indotti
a quel decreto da un duplice motivo: sia perchè uomini contaminati non devono
trattare cose divine essendosi resi indegni di tale funzione, sia perchè,
pieni di vizi e di colpe quali sono, non si vede come possano infondere nelle
immagini quella pietà e quella religione che essi non hanno. (pag. 76)
Segue un elogio di Annibale Fontana, descritto come artista
solitario e taciturno, dedito all'arte solo per amor di Dio, non servile verso
i potenti e generoso coi poveri dei giusti compensi che chiedeva. Un'analoga
generosità si attribuiva anche a Michelangelo, del quale si narra che, non
avendo denaro da prestare a un amico indigente, eseguì estemporaneamente un
disegno e glielo donò perchè lo vendesse.
Cap. XII: Delle figure atletiche <<<
Questa muscolosa “Adorazione del Bambino” sembra possedere tutti i difetti
che il Borromeo rimprovera agli artisti in questo capitolo. Peccato che
sia opera proprio di quel Pellegrino Tibaldi in cui San Carlo riponeva
tutta la sua fiducia <<<
“Ma come
potranno mai i nostri artisti arrivare ad esprimere sensi di pietà se,
completamente degeneri e lontani dalle costumanze di quegli antichi, nessuna
cura pongono nel vivificare le loro immagini coi sentimenti di timore, di
paura, di maestà, di religione, a seconda che lo richieda la natura del
mistero? Essi poi foggiano personaggi virili così svenevoli e delicati che si
scambiano benissimo per figure femminili. Nella pittura, come nelle lettere e
negli altri campi si deve curare che l'artificio non tolga la naturalezza
dell'immagine. E non si deve ricercare la bellezza e l'eleganza fino al punto
di trascurare la somiglianza, la quale, come tiene il primo posto nel ritratto
del volto, così va pure serbata nelle membra corporee e nelle altre figure.
“Narra Teodoro che un artista impudente, volendo dipingere
l'immagine del Salvatore, fece quella di Giove, e che per giusto castigo la
sua mano sacrilega d'improvviso s'irrigidì. Altri artisti invece, formano
talora dei corpi così robusti e truculenti, quasi volessero dipingere non Santi
o Sante ma atleti e creano dei volti così accigliati e severi da ispirare
tutt'altro che sentimenti di pietà. Non pochi, ancora, fanno ostentazione di
singole parti del corpo, delle articolazioni, della flessione delle masse, così
che pare vogliano esibire delle tavole anatomiche per la cura delle ferite
piuttosto che incitamenti alla religione. E a quei corpi imprimono delle
movenze, e nell'espressione una tensione e una violenza che non si addirebbero
neppure a un soldato (...)
“Poichè tutti i Santi condussero una vita morigeratissima,
non si addice affatto dipingere i loro volti rosei e paffuti come si
dipingerebbe un tipo ben pasciuto all'osteria. Dal quale vizio non va immune
Michelangelo, avendo asperso di troppo rossetto le guance del Principe degli
Apostoli. Tramandarono i suoi contemporanei che egli cercava di sottrarsi alle
quotidiane osservazioni su quel fatto dicendo che l'Apostolo era arrossito per
la tristizia di quei tempi, che non erano certo i più felici per la Fede Cattolica.
Ma questa scusa non si deve affatto accettare, poiché non è decoroso, per difendere
sé stesso, riprendere la vita e i costumi corrotti dei più. Quel sommo Maestro avrebbe
dovuto emendare i difetti della sua arte, non i costumi del popolo e della
corte di Roma.
Andiamo, Eminenza, un po' di senso ironico! A parte ciò,
l'aneddoto sembra costruito in funzione puramente polemica, perchè il S.
Pietro del “Giudizio” non appare certo rubicondo. Piuttosto, esso sembra il
prototipo di quei personaggi accigliati con cui il cardinale se la prende, come,
più in generale, si può far risalire al Buonarroti o ai suoi imitatori
l'esibizione di muscoli e posizioni ardite. I volti paffuti sembrano invece
corrispondere a una moda raffaellesca, rappresentata per esempio dalla Vanità di Guido Cagnacci. <<<
“Lisippo rimproverava agli scultori ignobili vissuti prima di
lui, che nel realizzare le statue erano soliti guardare aspetti e volti degli
uomini che avevano vivi davanti agli occhi, mentre dovevano piuttosto badare
alla convenienza, al decoro e a quale figura si addicesse ad ognuno (…) Ma i
pittori recenti purtroppo non dipingono le immagini né come furono né come
dovrebbero essere. (pagg. 77-78) <<<
Abbiamo già visto qual è, per il cardinale, il “dover
essere” dell'arte.
Cap. XIII: Delle figure immorali
“Se non vedessi i tempi nostri essere diventati alquanto
migliori delle età precedenti, vorrei provarmi ora ad aguzzare questo mio
stilo spuntato contro quelli che amano ornare le loro stanze con statue e
pitture lascive e con voluttà vanno in cerca di quei ritrovati demoniaci.
Infatti, quasi non bastasse la fetida e cancrenosa peste di uomini perduti e
quasi non fosse sufficientemente innata l'impura concupiscenza, essi amano
fomentarle e coltivarle, quasi vogliano, come ben disse un tale, stuzzicare
l'appetito con degli stimolanti. Per conto mio però faccio minor colpa ai
compratori di simili immagini che non a quelli che le vanno spacciando. Questi
infatti per sordida cupidigia di guadagno sarebbero pronti a fabbricarne anche
di più sconce, mentre i compratori, alfine accortisi del male, dello scandalo
e della vergogna, mettono da parte quelle opere per non venire essi stessi
privati dei santi sacramenti, se continuano ad offrire incentivi ai vizi e a
procacciarsi di per sé occasioni di peccato.
“Racconta Lampridio, nella vita dell'imperatore Severo
[Alessandro], che quel principe nel suo larario [locale destinato alle
divinità familiari] aveva raccolto le immagini di quelle persone di
cui egli soprattutto ammirava la gloria e la santità di vita. Vi erano le
immagini di Apollonio [di Tiana, filosofo e taumaturgo, sec. I a.C.], di
Cristo, di Orfeo, di Abramo e di molti altri ch'egli poneva nel numero degli
dèi. In un secondo larario, più oscuro e meno degno, collocò invece le
immagini di Virgilio e Cicerone. E la progenie cattolica, i discepoli del
Salvatore, vorranno porsi davanti agli occhi Amorini e Veneri nude? Non
soltanto dall'autorità ecclesiastica, ma da quella civile stessa e a viva forza
si deve provvedere a che queste immondizie dalla società umana.
La camera affrescata dal
Correggio per la badessa Giovanna (Parma, convento di S. Paolo) rappresenta
proprio ciò che il Borromeo non vorrebbe vedere in un
ambiente cristiano. A chi fra i due ecclesiastici daremo ragione? Non
abbiamo dubbi invece sull'altro tipo di oscenità che il cardinale condanna: [<<<]
“I prìncipi dovrebbero poi fare
scomparire un'altra piaga che offende e deturpa un'arte così nobile (…): cose
già sacre e donate ai templi noi osiamo portarle fuori e adibirle a usi
profani. I potenti che ciò fanno possono sicuramente con autorità e forza frenare
lo sdegno del popolo che protesta contro quegli insulti alla Divinità e alla Patria,
e così spogliare i templi dei loro ornamenti; ma non potranno certamente
turarsi le orecchie perchè non sentano lamenti e querele delle città stesse; e
ciò non avverrà in alcun modo e per nessuna forza. (pagg. 79- 80) <<<
Ecco dunque la nuova
oscenità: il collezionismo rapace e devastante di nobili e cardinali che
asportavano quadri e arredi dalle chiese per adornarne i loro palazzi. Il fatto
che il Borromeo metta le due pratiche sullo stesso piano e che per entrambe
invochi l'intervento dell'autorità civile ci fa sospettare che proprio la
seconda fosse il vero oggetto del capitolo, visto che la prima era più
prevedibile. Nuovo appare il richiamo al valore delle opere d'arte come bene pubblico e patrimonio
civile, che la stessa società civile (la Patria) ha il diritto-dovere
di tutelare. Su questa linea è anche l'”exemplum” finale, in cui Tiberio, che
aveva trasportato nella sua camera la statua dell'”Apoxiòmenos” sottraendola
alla collocazione pubblica in cui si trovava, fu costretto dallo sdegno
popolare a rimetterla al suo posto. <<<
Libro II
Cap. I: Le immagini della Santissima
Trinità
Il capitolo inizia con l'esortazione agli artisti perchè,
sull'esempio di Michelangelo, studino la letteratura, soprattutto quella
sacra, così da conoscere in prima persona gli argomenti e i soggetti che
dovranno trattare.
“Un pittore che volesse dipingere l'Eterno Padre, se effigiasse
un vecchio dalla canizie veneranda, di alta statura e con la barba fluente e
credesse con una simile figura di aver ritratto al vero la divina Persona,
convinto che in cielo l'Eterno Padre abbia un corpo simile al nostro, non
sarebbe meritevole soltanto di riso e disprezzo, ma anche di castigo. Non è
tuttavia da riprovarsi una simile rappresentazione, e che l'Eterno Padre possa
raffigurarsi come persona umana lo prova il fatto che quella prima, eccelsa e
divina Persona si presentò a conversare con Adamo in tal forma. Anche a Daniele
Dio apparve in forma umana, e forse era la seconda persona della Trinità che si
manifestava in tal forma per dare un segno di ciò che sarebbe stato di lì a
non molto la causa della nostra redenzione. Lo Spirito santo poi si manifestò
ora sotto forma di colomba, ora sotto forma di lingue di fuoco, e perciò non
sarebbe da rimproverare che in tal modo lo ritraesse (...)
“Oltre le ragioni e le autorità che riporteremo in seguito,
qua e là le Sacre Carte attribuiscono membra umane a Dio che, come insegnano le
stesse Scritture, sappiamo non avere corpo; ma quelle espressioni sono dette in
senso metaforico e hanno un senso recondito, di gran lunga diverso da quello
che appare a prima vista. Si aggiunga l'autorità dei Padri, che affermarono la
Trinità potersi così dipingere per similitudine o per una certa analogia.
Insomma, bisogna che l'artista sia consapevole del valore
allegorico e metaforico delle figure che dipinge. Salva questa consapevolezza,
si potranno rappresentare le tre Persone nei modi tradizionali.
“Che se accade di dipingere qualche apparizione di tale
mistero, si potrà certo ritrarlo come si manifesta. La figurazione viene
allora così concepita da mostrare come fu talvolta veduta. E come è credibile e
comunemente ammesso che San Paolo abbia visto la figura del Salvatore quando fu
da lui rimproverato, e Santo Stefano abbia avuto la stessa visione quando fu
confermato in grazia, così moltissime altre visioni mostrarono la figura ora
dell'Eterno Padre, ora dello Spirito Santo, in modo tuttavia, come si può
credere, che San Paolo e Santo Stefano abbiano visto la persona del Salvatore
gloriosa e rifulgente nell'umanità assunta, mentre la persona del Padre Eterno
e dello Spirito Santo si sia manifestata o assumendo qualche corpo o attraverso
qualche figurazione della mente umana.
“(...) Alcuni santi Padri hanno dichiarato che quando Dio
appariva nell'Antico Testamento, quella non era la persona dell'Eterno Padre,
né quella dello Spirito Santo, bensì quella del Figlio (…) E dopo di loro
Sant'Antonino consigliò che qualora si dovesse raffigurare il mistero della
Trinità si lasciasse da parte quella mostruosa deformità per cui si pongono
tre capi su un solo corpo. Invero, oltre al fatto che una simile figura ripugna
all'ordine naturale, si deve evitare il plagio dell'antichità pagana, che attribuiva
due volti a Giano, uno di fronte e l'altro a tergo. (pagg. 81-83)
Fig. 1 - Dal Breviario Grimani
|
Fig. 2 - Raffaello, Stanza della Segnatura
|
Fig. 3 - Fonte incerta
|
Fig. 4 - Michelangelo, Volta della Cappella Sistina (nel riquadro Poseidone della Fontana di Trevi)
|
Fig. 5 - Mosaico in S. Vitale, Ravenna
|
Fig. 6 - Raffaello, Trasfigurazione
|
Fig. 7 - Da una vetrata del Duomo di Milano
|
<<< |
Il mostruoso dio trifronte (3) fu
condannato da Urbano VIII nel 1628, pochi anni dopo l'uscita della presente
opera. Ma il cardinale non fa parola delle altre rappresentazioni tradizionali
della Trinità, per esempio sotto la forma dei tre misteriosi ospiti di Abramo
in Gen. 18 (5) o come Padre e Figlio specularmente uguali con la colomba in
mezzo (1). Sembra che egli favorisca la rappresentazione separata delle tre
Persone. Forse ha in mente il famoso affresco di Raffaello in cui l'unità e la
distinzione delle Persone vengono rese con lucida evidenza (2). Il Padre (4) è
modellato sullo Zeus olimpico o, nella versione michelangiolesca, su un
tempestoso Poseidone (4a). Il Figlio “rifulgente nell'umanità assunta” è ben
espresso dal Trasfigurato raffaellesco (6; ma su di lui si veda anche il
capitolo seguente). Per lo Spirito Santo qualunque colomba va bene. <<<
Cap. II: L'immagine del
Salvatore
“A me pare
che i nostri antichi nel fare l'immagine del Salvatore avessero sensi molto più
religiosi che gli artisti d'oggi. Essi infatti usavano simboli o geroglifici
che rendevano più venerando il mistero. (pag. 83)
Tali sono il
pellicano che lacerandosi il petto col becco ne fa sprizzare il sangue [è
una leggenda riportata nei bestiari medievali: si diceva che in quel modo
l'uccello riuscisse a nutrire i suoi piccoli anche in mancanza di prede e si
vedeva in questo gesto un'analogia col sacrificio del Cristo]; l'agnello
col bastone da pastore o col vessillo crociato [l'“Agnello di Dio”];
l'uomo con una pecora sulle spalle, allusivo sia al Buon Pastore che alla
parabola della pecorella smarrita: a quest'immagine è legato l'uso di tessere
in lana anziché in altri materiali il pallio che il vescovo porta sulle spalle.
Fig 1: L’Agnello di Dio nella Basilica Eufrasiana di
Parenzo
|
Fig. 2: Il Pellicano in un paliotto del sec. XVI
|
Fig. 3: Orfeo in un mosaico pavimentale romano
|
Fig. 4: Giona rigettato dal pesce nelle catacombe romane
di Marcellino
|
“In non pochi
cimiteri, per esempio quello di Zefirino in Roma, si vede la figura di Orfeo
in mezzo alle fiere; e potremmo dubitare che una tal figura sia immagine o
simbolo del Salvatore, se non constasse per prove sicure che quell'immagine
non è profana ma sacra. Clemente alessandrino scrisse che veramente il Cristo
è il nostro Orfeo che ammansì le bestie feroci (…) Nelle catacombe o sepolcreti
(…) si vede scolpita l'immagine di Giona gettato in mare e ingoiato dalle
fauci del cetaceo, con la quale figurazione si significava la speranza della
nostra resurrezione e nello stesso tempo la morte e la resurrezione del
Salvatore (…)
<<< [simboli paleocristiani] >>> [attributi mariani]
“Nello stesso cimitero di san Zefirino
si vede dipinto il Salvatore in figura di pastore che, seduto su un sasso,
tiene in mano la zampogna e sembra confabulare con le pecorelle circostanti. Ma
di tutte queste figurazioni pastorali simboleggianti il Salvatore, la più
bella è quella che fu ritrovata nel cimitero Ostriano. E' scolpita in una
pietra di elegante fattura e contiene tre figure: un pastore che, appoggiato al
bastone, veglia a custodia del gregge; un secondo che porta sulle spalle un
agnello; e un terzo nell'atto di parlare con una pecora che, protesa la testa,
pare comprendere la voce del suo pastore. Con queste tre immagini della persona
di Cristo l'antichità volle appunto ricordare i tre precipui doveri del pastore
d'anime [cioè la vigilanza, il sostegno e la predicazione].
Due immagini del “Buon pastore” analoghe a quelle
descritte dal Borromeo. A sinistra, mosaico nel mausoleo di Galla Placidia
a Ravenna. A destra statua nel museo
Pio cristiano in Vaticano <<<
“Oltre a queste figure simboliche,
l'antichità fece ancora ritrarre i volti santi e la sacra sindone, alla quale
specialmente volle prestare culto e onore per la vetustà e per altre gravi
ragioni”.
Qui l'autore affronta il controverso
problema delle immagini “achiròpite”: testi apocrifi e leggende popolari
parlano di immagini del Cristo “non fatte da mano d'uomo” (è questo il significato
del termine greco “acheiropòietai”) o perchè prodottesi miracolosamente o
perchè Gesù stesso le avrebbe lasciate imprimendo i tratti del suo viso su un
tessuto. L'esemplare più noto di questo secondo tipo è la Sindone, “scoperta”
nel sec. XIV; ma prima di essa era molto venerato un fazzoletto (in greco
“mandylion”) su cui Gesù avrebbe impresso il suo volto su richiesta del re
orientale Abgar, e del quale esistevano diverse copie, tutte considerate achiropite.
A volte questo panno viene identificato con quello di Veronica, che, secondo
un'altra nota leggenda, avrebbe asciugato il volto di Gesù sulla via del
Calvario, anche in questo caso ricavandone un'immagine. Il Borromeo accetta i
dubbi espressi da molti sull'autenticità di quelle immagini, tuttavia... <<<
A sinistra: la Veronica di Hans Memling. Al centro: Il"Mandylion" conservato in Vaticano. A destra: il
volto della Sindone
“Non è qui il luogo per tentare di definire in che modo e con
quale arte sia stata fatta [l'immagine per Abgar]. Fuori di ogni dubbio
è che fu eseguita al vero e con somma cura. Oltre queste immagini, che diremmo
mirabili, ossia non fatte senza miracolo, vi fu anche qualche pittore che
ritrasse al vero l'immagine del Salvatore, come attesta Eusebio, e Niceforo
aggiunge che san Luca fu il primo a dipingere in modo meraviglioso l'immagine
di Cristo e della Beata Vergine. Ecco le sue parole: - E l'apostolo Luca,
accintosi all'impresa, lo dipinse accuratamente con le sue proprie mani- (p.85)
Mirabile è anche la diplomazia lessicale dell'autore, che
lascia nell'ambiguo se il “miracolo” sia opera di Dio o dell'artista. Quanto
alle sue fonti, Eusebio da Cesarea è uno storico-apologista del tempo di
Costantino, che riteneva lecita, in certe situazioni, la menzogna; Niceforo Callisto
è uno storico ecclesiastico del XIV secolo. <<<
Dal nome del
Cristo gli antichi ricavarono anche dei monogrammi, introducendo un uso
ripreso poi dai papi. Un'altra usanza invalsa tra i papi è quella di esporre
negli edifici e sugli stessi paramenti sacri i propri emblemi gentilizi:
usanza che l'autore condanna, come ha già fatto al cap. V del libro I.
<<< [a indice] >>> [a libro
II, 3]
“Come si farà
per le immagini della Vergine Maria, riporteremo qui ora, per uso dei pittori,
la descrizione che Niceforo fa (Hist. Eccl., I, 40) della figura del Salvatore:
- Le fattezze dunque di Nostro Signore Gesù Cristo come ce le tramandarono gli
antichi e per quanto è possibile ritrarre con parole informi, furono press'a
poco queste. Fu di aspetto nobile ed espressivo. L'altezza della sua persona
era di circa sette palmi. Aveva i capelli tendenti al biondo, non troppo folti
e leggermente ondulati. Le sopracciglia nere, non però arcuate. Dagli occhi
chiari profluiva una mirabile grazia; erano penetranti, e il naso abbastanza
lungo. La barba, bionda e non troppo fluente; piuttosto lunga era invece la
capigliatura. Né rasoio né mano alcuna d'uomo, tranne quella della madre
quando era in tenera età, corse sulla sua testa. Il collo era alquanto
inclinato, in modo che la linea del corpo non fosse troppo rigida e tesa. Aveva
la faccia del colore del frumento, non rotonda né appuntita ma, come quella di
sua madre, alquanto estesa all'ingiù e un po' vermiglia; spirava gravità e
prudenza miste con dolcezza e con una placidità del tutto priva d'iracondia. Fu
insomma somigliantissimo in tutto alla sua divina e immacolata Genitrice. - I
pittori pertanto, nel fare le immagini di Cristo e di Maria, vorrei si
ricordassero di questa sola cosa che l'antichità unanime credette e i santi
Padri tramandarono: che la faccia del Salvatore era ammirabile per la sua perfetta
somiglianza con quella della Madre, così che chiunque guardi la Madre o il
Figlio potrà facilmente riconoscere dalla Madre il Figlio e dal Figlio la
Madre. (pagg. 84-86)
In chiusura l'autore cita i versi di Dante (Par. XXXII, vv.
85-87) in cui ritorna questo concetto: “Riguarda omai ne la faccia ch'a Cristo
/ più si somiglia, chè la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo”.
L'insistenza sulla somiglianza
Madre-Figlio è legata probabilmente all'idea che la Madre rappresenti la Chiesa
e che la Chiesa sia l'aspetto visibile ai mortali del mistero di Dio, per cui
tra l'uno e l'altra ci dev'essere perfetta identità. Per il resto la
descrizione rispecchia i lineamenti di Gesù come furono rappresentati dal V
secolo in poi. L'allusione al mancato taglio dei capelli è probabilmente un
ricordo (non so quanto consapevole per uno scrittore medievale) del
“nazireato”, una forma di auto-consacrazione dei giovani ebrei, che richiedeva
anche quella pratica. Il particolare del collo inclinato è forse desunto a
orecchio da un precetto artistico secondo il quale il Crocifisso andava dipinto
in quel modo; precetto che sembra riflettersi anche in architettura nel lieve
disassamento che si nota nella pianta di certe chiese tra il capocroce e la
navata o tra questa e i bracci del transetto. Esempi di questa pratica si notano nelle cattedrali di Piacenza (qui a
fianco) e di Cremona. <<<
Cap. III: Le immagini del Crocifisso
“Nel
dipingere Cristo in croce, i pittori cristiani ne variarono in molti modi la
figurazione. Infatti nei vetusti monumenti talora l'immagine del Salvatore lo
rappresenta già morto, altre volte invece è ancora in vita. Spesso lo
confissero con quattro chiodi, figurazione che più piacque all'antichità, ed
una di tal genere si vede nella cappella di papa Giulio I presso Ponte Milvio,
non lungi dalla chiesa di San Valentino martire, e qui il Salvatore indossa una
veste senza maniche. Anche altrove le immagini più antiche del Crocifisso hanno
quattro chiodi, così disposti che due trapassano le mani e due i piedi. Ma i
piedi poggiano su un supporto (…)
Crocifissione analoga a quella descritta dall'autore. Roma, S. Maria
Antiqua, sec. VIII <<<
E qui comincia una disquisizione sull'esistenza o meno del
supporto, questione che il cardinale conclude in senso positivo sull'autorità
di Gregorio di Tours, storico del VI secolo. E' un'altra di quelle questioni di
cui un lettore d'oggi non percepisce l'importanza, ma che per il nostro autore
riguardano quella “verità storica” che l'artista deve rispettare.
“Alcuni stimano anche che le mani del Salvatore non siano
state trafitte nelle palme, ma dove il braccio si congiunge con la mano,
altrimenti non si sarebbe potuto reggere suo il peso. Tuttavia questa è
consuetudine comune, e la tradizione della Chiesa si dovrà conservare senza
introdurvi alcuna novità
[in omaggio ai dettami tridentini ma in barba alla verità storica!]. Del resto
anche nel Vangelo si legge che Cristo ha mostrato le mani e il costato. Dagli
artisti recenti fu poi introdotto il costume di mostrare i due ladroni non
confitti con chiodi ma legati con funi, il che contrasta con l'autorità delle
Sacre Scritture, poiché dice chiaramente San Matteo che i ladroni furono
crocifissi col Salvatore (…) E il buon ladrone, al dire di Ilario e Agostino,
dovrà dipingersi a destra.
Sulle varie forme che gli
artisti hanno dato alla croce, l'autore rimanda a “due scrittori recenti che ne
hanno dato notizie copiose” senza citarli in nota.
“Dal canto nostro presentiamo una sola
forma di croce, che fu trovata non molto tempo fa nell'India orientale vicino
al sepolcro di San Tommaso. Quelli che la videro riferirono che tale croce
nelle estremità finiva in gigli e fiori, ed è credibile che quella croce sia
stata fatta nei primi tempi, senza dubbio con questa allegoria, come se i
santi uomini di quel tempo volessero significare che la croce del Cristo, per
i trionfi dei martiri, era fiorita e verdeggiante. E sulla croce era delineata
una colomba. <<<
“L'immagine
di questa croce mi rievoca l'immagine di un'altra croce che vidi altrove. La
forma era siffatta. Il Salvatore pendeva dalla croce nudo fino alla cintola,
aveva un supporto sotto i piedi e quattro chiodi, con candide colombe dovunque
le membra del Salvatore lasciavano qualche spazio libero, per indicare, io
penso, l'innocenza dello stesso Salvatore e la purezza delle anime che lo
seguono.
Si tratta con ogni probabilità dell'immagine musiva
nell'abside della chiesa di S. Clemente a Roma, risalente al sec. XII. Anche in
questo caso la croce “fiorisce” in quanto è inserita in una serie di girali
arborei che richiamano l'Albero della Vita. Il numero delle colombe, dodici, fa
pensare agli apostoli. <<<
“(...) E fu sì grande la pietà e la reverenza degli antichi
cristiani verso il sacro segno della croce che non vollero fosse dipinto o
collocato né sul suolo né in alcun luogo sordido, né mai lo si poneva in un
luogo qualunque ad impedire brutture, cosa che non deve avvenire, e che non
avvenga fu decretato dall'autorità del Concilio Costantinopolitano [le stesse raccomandazioni
nelle “Instructiones” di S. Carlo, Lib. I cap. VI] (…) Anzi,
S. Asterio, vescovo di Amasea, nel condannare le vesti superbe e lussuose, dice
che non le si deve fregiare con immagini e segni di cose sacre e divine, anche
se ciò sembri che si faccia a titolo di pietà [altro appello del cardinale contro l'esibizionismo degli
ecclesiastici; si vedano anche Lib. I cap. V e Lib. II cap. II]. Tuttavia
l'imperatore Costantino, per incitare i suoi soldati alla religione e alla
pietà, comandò che fregiassero le armi col segno della croce, e ciò fu da quel
principe fatto con lode e rettitudine. (pp. 87-89)
Due croci “fortuite” in area lombarda: la svastica (a
destra) nell’Alto Garda e la “rosa camuna"in Val Camonica <<<
“Quanto poi alle croci ansate che si trovano sugli antichi monumenti,
si deve sapere che non furono veri segni di croce, ma qualcosa di diverso
raffigurato per caso a quel modo, visto che gli uccelli in volo e gli alberi
delle navi con pennoni presentano una figura simile (…) E credo che fossero
fortuite anche le immagini di croce che si rinvennero in India: non è infatti
credibile che la religione cristiana sia giunta in antico sin là [dipende dalle date: i
nestoriani fecero molta strada].
L'autore loda comunque la pietà di chi volle vedere in
questi segni una traccia del cristianesimo, come di coloro che riconobbero gli
strumenti della passione in un fiore di recente importazione: la passiflora.
Cap. IV: I
misteri del Salvatore <<<
[“Mistero”
in questo contesto significa semplicemente “storia”, “episodio”, essendo legato
non al greco “mysterion” ma al latino “ministerium”, che indicava le cerimonie
o le sacre rappresentazioni. Naturalmente gli scrittori religiosi giocano su
quest'ambiguità di significato]
“Tra gli errori che si riscontrano quasi ad ogni momento
nelle pitture dei misteri della vita del Salvatore, non ultimo è che gli
artisti vi mettono troppo artificio. Infatti nel dipingere la nascita del
Salvatore fanno i corpi atletici dei pastori con figure così grandiose ed
aitanti da attirare a sé gli occhi distogliendoli da ogni altra contemplazione.
La Vergine Madre, invece, e lo stesso divino Infante, li curano assai poco,
cercando tutta la gloria nel ritrarre spalle di pastori e braccia distese con
muscoli e masse carnose.
La critica prosegue sul tono del cap. XII del libro I,
prendendosela anche coi copricapi dei pastori: se li tengono in testa è
irrispettoso, se li tolgono, non era quella l'usanza del tempo!
“Nell'adorazione dei tre Re rilevo che rappresentano volti di
colori diversi e una certa credenza del volgo per cui quello dei Re che è
minore di età repentinamente diventa il più vecchio, perchè in quell'atto di
adorazione volle essere il primo. Perciò alcuni pittori pongono all'ultimo
posto il più vecchio.
“La circoncisione avvenne nella spelonca di Betlem, come
afferma Epifanio, non già nel tempio; e la circoncisione era officio dei
parenti, talvolta della sola madre. Nella circoncisione del Salvatore però io
sono del parere che non si debba mutare il costume seguito dalla tradizione,
secondo la quale sia stata fatta nel tempio e per mano del sacerdote (…)
“Nel rappresentare la tentazione nel deserto non è affatto
contrario alle Sacre Carte mettere attorno al Salvatore alcune pecore; il che
anzi sembra più conforme ad esse.
“Riteniamo anche che non si debba porre il Salvatore su un
pulpito quando disputa nel tempio: nei sacri monumenti non si trova in realtà
che qualche gradino per i predicatori in modo che sovrastino alquanto la turba
circostante.
“Gli autori non si accordano nel dire come sia stata la colonna
della flagellazione, né vi è certezza se fosse alta o bassa (…) [Fermiamoci qui!]
“Vediamo i
pittori nell'ultima cena del Salvatore porre l'agnello tra le vivande della
mensa. Ma l'agnello non veniva affatto mangiato dai commensali adagiati sul
triclinio, e gli studiosi di antichità sanno che il costume di quel convito era
assai diverso da quello degli altri banchetti [è descritto in Esodo, 12] (…)
Nell'istituzione del Santissimo Sacramento potranno porre davanti al Salvatore,
sulla mensa a cui è assiso coi discepoli, pane e vino, ma dovranno guardarsi
dall'effigiare che segni col segno della croce il pane e il vino. Infatti prima
della passione di Cristo le benedizioni si facevano non col segno della croce
ma con altra cerimonia e con altro rito (…) Perciò Leonardo rappresenta il
Salvatore nell'atto di pronunciare o appena finita la preghiera, in quel famoso
cenacolo o triclinio che era tra le bellezze della nostra città prima che il
tempo consumasse quella mirabile opera. Noi, per quanto ci fu possibile,
abbiamo in quell'opera arrestata l'ingiuria del tempo, e con diverse pitture
che si conservano nella nostra biblioteca Ambrosiana procurammo di conservarla;
e ciò fu fatto con grande diligenza, e quando l'opera non era ancora ridotta
nello stato miserevole in cui oggi si vede [ed erano passati meno di 130 anni!].
<<<
“Nel fare poi l'immagine del santo sepolcro, non si addice
una pietra levigata e lucida come spesso si usa. Ciò infatti contrasta con la
verità storica e col Vangelo, che ha queste parole: - E lo depose nel suo
sepolcro nuovo che era scavato nel masso – [Matteo, 27,60]
In effetti la tradizione umanistica portava a privilegiare
il sepolcro classico, forzando il dettato evangelico, ma committenti e autorità
non trovavano nulla da ridire, perchè era chiaro a tutti che il significato
religioso e metafisico del dipinto andava più in là della semplice trascrizione
pittorica del “mistero”. Non diversa, del resto, era la situazione quando
(soprattutto
nel nord Europa) il racconto veniva seguito più da vicino. Potremmo chiederci
se la ricerca della “verità storica”, letteralmente intesa come vuole il
Borromeo, non rischiasse di rivelarsi controproducente ai fini della stessa
comunicazione religiosa.
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Beato Angelico
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Pinturicchio
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Giovanni Bellini
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P.P. Rubens
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“Ma ancor più gravemente vediamo errare nel dipingere la
resurrezione del Salvatore. Infatti rappresentano Cristo che risorge dal
sepolcro in modo che i soldati cadano a terra e giacciano attoniti e
tramortiti dall'improvviso evento. Ciò è falso ed errato, perchè il Salvatore
uscì dal sepolcro senza che i custodi se ne avvedessero. Qualche tempo dopo,
quando l'Angelo rovesciò la pietra del sepolcro, destati sentirono il rumore e
ne furono atterriti. Sbagliano ancora i pittori quando rappresentano il
sepolcro che di per sé si spalanca per lasciare così libera uscita al Salvatore.
I corpi beati in realtà non hanno bisogno di siffatta via per uscire, e
l'Evangelista dice che la pietra fu rovesciata dall'Angelo. E' necessario
dipingere la scena in modo che nell'esprimere lo spavento dei custodi appaia
contemporaneamente rovesciata la pietra per mano dell'Angelo.
“Dopo la resurrezione si può effigiare lo stesso Cristo che
va ad Emmaus, si accompagna coi discepoli e con essi si siede a mensa, come
vediamo talvolta; ma il pane che la divina mano divide non dev'essere bipartito
con precisione quasi fosse tagliato in mezzo con una lama: Si verrebbe così ad
ammettere e a sostenere l'opinione puerile di quelli che credono che quel pane
fu miracolosamente bipartito e che per quel miracolo il Salvatore fu
riconosciuto. (pagg. 90-92)
<<<
Cap. V: Le immagini della Beatissima
Vergine
“Bisogna conservare i simboli e i misteri che si usano a raffigurare
la Vergine Santissima, e la sua persona dev'essere effigiata con quanto più si
possa immaginare di maestà e decoro. Badino i pittori di non fare anche in ciò
qualche cosa contro il decoro e la verità della storia. Alcune scritture
infatti tramandarono a proposito della Vergine Deipara cose che sono tutt'altro
che da approvare, e sbaglierebbe chi, volendo dipingere la sua nascita, si
attenesse al racconto, abbastanza diffuso, che ne fa l'opuscolo sulla Natività
della Beata Vergine indirizzato a Cromazio e a Eliodoro. Anche nel dipingere la
sua morte bisogna evitare la puerilità di qualche racconto, al quale non pochi
vedo che prestan fede, e piuttosto conviene seguire la testimonianza di Dionigi
Areopagita [De Divinis Nominibus, c. 3], il quale racconta che a quel santo
decesso erano presenti, oltre gli altri, San Giacomo, cugino del Signore, San
Pietro, Timoteo e lo stesso Dionigi.
Fidandosi di Dionigi Areopagita il cardinale cade dalla
padella alla brace, perchè quell'autore, lungi dall'essere un testimone dei
fatti, è un'invenzione del VI secolo, sotto il cui nome passano scritti di
contenuto dottrinale, meno “puerili” ma anche meno innocenti di tanti racconti
apocrifi.
“Alcuni
furono a buon diritto incerti sul modo in cui rappresentare il mistero della
concezione della Vergine. Noi pensiamo che si possa dipingere una bambina
ravvolta nei suoi panni, adagiata in mezzo ad una grande luce, e attorno a
quella luce Angeli maggiori e minori; la stessa personcina e gli Angeli vorremmo
alquanto velati e fra i celestiali splendori apparire le tre divine Persone,
esse pure leggermente adombrate. Soltanto a questo modo riteniamo che si
possa ritrarre questo sublime mistero, che non cade sotto gli occhi degli uomini
né rientra nell'arte dei pittori, ma viene intravisto sotto le allusioni
degli scrittori e grazie all'intelligenza degli osservatori. <<<
Non ho trovato un dipinto che corrisponda esattamente alla
descrizione fatta dal cardinale, soprattutto per quanto riguarda le velature
e la Trinità. Questo, del secentista Antonio Gherardi, è uno dei più simili.
Applicato alla “concezione” (immacolata) della Vergine, il termine “mistero”
ritrova il suo senso più profondo.
“Non si deve poi rappresentare la Deipara svenuta ai piedi
della croce, perchè ciò è contrario alla storia e all'autorità dei Padri (…), i
quali tutti esaltavano la fortezza della Santissima Vergine, che dicono essere
stata ammirabile specialmente durante la passione del Figlio.
Maria svenuta nelle Crocifissioni di Duccio (a sin.) e di Van Eyck (a destra) <<<
In effetti il tema della Madonna svenuta è diffuso nella stagione dei “planctus Mariae” (secc. XIII-XV), mentre si dirada dopo il concilio di Trento, in apparente controtendenza rispetto al pietismo emotivo che caratterizza il nuovo periodo.
“Che l'immagine della Santissima Vergine somigliasse al vivo
a quel Divin Volto è pure confermato da Niceforo, e perciò i pittori devono
sforzarsi di avvicinarsi il più possibile a quel modello (…) E perchè i pittori
con più esattezza ritraggano al naturale l'immagine della Beata Vergine,
proporrò l'esemplare che lo stesso Niceforo ci ha lasciato: - I costumi, le
forme e la misura della sua persona, come dice Epifanio, erano i seguenti. In
ogni cosa appariva onesta e grave, parlava poco e solo il necessario, attenta
ad ascoltare, affabile assai, prestava a tutti l'onore e la venerazione
conveniente, era di giusta statura benchè vi sia chi dica essere stata alquanto
più alta della media. Con tutti gli uomini teneva una dignitosa libertà di
parola, senza riso, senza eccitazione e soprattutto senza ira. Per colorito,
tendeva a quello del frumento, capigliatura bionda, occhi penetranti con le
pupille chiare e quasi del colore dell'oliva. Le sopracciglia incurvate e di
un bel nero, il naso un po' lungo, le labbra tonde e soffuse della soavità
delle parole; la faccia non rotonda né angolosa ma alquanto allungata, come
piuttosto lunghe erano mani e dita. Era infine schiva di ogni fasto, semplice,
dal volto aperto, senz'alcuna mollezza da di umiltà eccelsa, contenta delle
vesti di color naturale e dalle sue stesse mani preparate, come si vede ancor
oggi nel santo velo del suo capo [una reliquia?]. Per dirlo in una parola, tutto in
lei mostrava una grazia celestiale. L'età sua poi si mantenne come sopra dissi
-. (pagg. 92-94) <<<
Cap. VI: Le
immagini degli Angeli
“Dopo aver
parlato delle più nobili forme umane, sarà opportuno discorrere delle immagini
degli Angeli, giacchè si è soliti dipingere quei celesti spiriti in forme
umane. Siccome queste forme si distinguono dai corpi umani soprattutto per
l'ornamento delle ali, converrà esaminare se quell'attributo si debba o meno
aggiungere agli Angeli. Michelangelo li rappresentò del tutto privi di ali,
le quali in verità si può dimostrare essere inutili anche con un argomento
desunto dallo stesso paganesimo. Infatti persino Omero, che si crede aver
tutto visto e conosciuto, non solo non ritenne che gli Dèi avessero bisogno
del remeggio delle ali, ma li rappresentò incedenti a piè pari e non movendo
passi secondo il nostro costume. [Probabilmente l'autore, che non cita direttamente il
poeta, vuol dire che fluttuano liberamente nello spazio e non che si muovono
a pendolo come i paraplegici!] D'altra parte però scrittori molto
seri vogliono che gli Angeli si dipingano con le ali e lo comprovano con
diversi argomenti. Né vale il dire che tali figure angeliche non sono immagini
veritiere della realtà ma fantasie dell'umano ingegno. Perchè nessuno che
sia savio ignora come quelle figure di Angeli non siano ritratte dal vero ma
sono imperfetti simulacri o simboli e visualizzazioni della loro natura (…)
Tipica figura di angelo (da un'
“Annunciazione” di Orazio Gentileschi): ali, panneggio fluente, piedi nudi,
aspetto giovanile ed efebico. Il giglio simboleggia la purezza di Maria,
destinataria dell'annuncio. <<<
“Le immagini degli Angeli
saranno dunque da effigiarsi con quella forma che meglio valga a dimostrare la
natura e l'eccellenza loro. Si aggiungano le ali ad indicare la velocità,
l'abito per motivi di modestia, la vigoria e la forza che nessuna decadenza
senile attacca. Si dipingono anche nudi perchè si comprenda che sono immuni da
qualsiasi contagio delle miserie umane: la nudità dei piedi in particolare
indica che sono pronti ad ogni cenno d'Iddio. Mosè, Isaia e gli Apostoli stessi
ebbero l'ordine di stare a piedi nudi per eseguire i divini comandi. Si
potranno inoltre dipingere le vesti degli Angeli a foggia di pannolini, come in
Ezechiele, oppure di abiti sacerdotali, come nell'Apocalisse, o del colore
della pietra, come nella stessa Apocalisse, o di quel fulgore di cui li vide
circonfusi Adamo.
“E neppure apparvero sempre in figura umana. Talora infatti
assunsero forme di animali; nelle Sacre Carte quei divini spiriti diventano
ruote e pietre preziose, nubi, venti e fiamme, e apparizioni di tal genere non
pochi dei nostri descrissero nelle loro opere. E già in passato Dionigi
Areopagita con l'alto suo ingegno spiegò questi misteri e ricerco
particolarmente perchè agli Angeli si attribuisce la forma del fuoco [De coelesti
Hyerarchia, capp. 2 e 15] (pagg. 94-95)
<<<
Cap. VII: Emblemi sacri
“Talora anche
i nostri antichi e santi Padri usarono, invece di figure umane, emblemi sacri
coi quali significavano un concetto oppure una persona, e l'imitazione di
questo antico costume non solo non è da evitare, ma piuttosto da conservare ed
intensificare. Sappiamo che gli Evangelisti si rappresentano con figure di
animali e che i quattro animali visti da Ezechiele i più autorevoli dei Padri
ritennero significassero appunto gli Evangelisti.
Si tratta del cosiddetto “tetramorfo”, le “quattro forme”
che una lunghissima tradizione associa appunto agli evangelisti sulla base
della visione narrata da Ezechiele (1, 4-28): l'aquila corrisponde a Giovanni,
il leone a Marco, il bue a Luca e l'angelo a Matteo. Qui sopra abbiamo una
versione semplificata della visione ad opera di Raffaello. <<<
Arca dell'alleanza |
Scrigno eletto di devozione
|
Torre di Davide |
Giardino cintato |
Specchio senza macchia |
Alcuni esempi di attributi mariani tradotti in immagine. Essi
derivano a loro volta da testi biblici o teologici. <<<
“Anche i misteri della Santissima Vergine e alcuni dei suoi
titoli si trovano raffigurati con forme materiali. Nelle catacombe di Roma poi
si trova dipinta la colomba a significare la semplicità dei primi fedeli. Essa portava nel becco un
ramoscello con questa mistica significazione: che sarebbe pur venuto il tempo
in cui sarebbe cessata la persecuzione dei tiranni verso la Chiesa (…) Dipingevano
anche il pavone affinchè gli uomini, ammaestrati dall'esempio di quell'animale,
imparassero a pensare alla loro fine con gemiti e sospiri. La figura del pavone
si nota nel cimitero Ostriano, ove vediamo anche Giona che esce dalla bocca della balena, simbolo non dubbio delle traversie
di quel tempo (…) [vedi l'immagine al cap. II]
“Dipingevano ancora il fuoco a significare la vita eterna,
oppure la carità o l'immortalità dell'anima. La navicella era simbolo della
Chiesa [vedi figura],
e la si dipingeva in preda alla procella, a significare le calamità dei cristiani,
che allora erano gravi e molte. Dipingendo un vasetto con dentro piantato un
semprevivo intendevano confermare la speranza delle cose eterne e specialmente
della resurrezione finale. Anche col rappresentare Noè nell'arca e Daniele
nudo nella fossa dei leoni, raffiguravano i cristiani tra le fiere e l'ondata
dei loro affanni, Simboli dell'obbedienza e della fede erano Abramo che
sacrifica il figlio, i giovani di Babilonia nella fornace ardente e Mosè che
fa sgorgare l'acqua dal deserto, le quali scene dipinte nei cimiteri
confortavano a riporre ogni
speranza in Dio.
Fig. 1: I tre fanciulli |
Fig. 2: Mosè fa sgorgare l'acqua |
Fig. 3: Daniele e i leoni |
Fig. 4: Sacrificio di Abramo |
Fig. 5: Noè nell'arca |
1: I tre
fanciulli, catacomba di Priscilla. 2: Mosè fa sgorgare l'acqua nel deserto, catacombe romane. 3: Daniele e i leoni, sarcofago
paleocristiano. 4. Sacrificio di Abramo, sarcofago paleocristiano. 5: Noè nell'arca,
Duomo di Worms. <<<
“Se i pittori useranno questi simboli o emblemi con prudenza
e con pietà, daranno ancora venustà all'opera loro per la varietà che ne nasce.
All'ingresso dei templi si pongono anche figure di leoni, perchè i
mortali capiscano che i luoghi sacri si devono venerare con tremore [v. “Instructiones”, Lib. I,
7]. Oro
Apolline scrive che i denti leonini significano minaccia e perciò quella belva
viene posta alle porte dei templi quasi a custodia, essendo quelle belve molto
vigilanti perchè non chiudono mai gli occhi. (...)
[Questo Oro Apolline è un altro falso letterario come
Dionigi Areopagita. In questo caso si tratta di un supposto sacerdote egiziano
di lingua greca (il suo nome sintetizza il dio egiziano Horus e quello del
greco Apollo), capace di interpretare gli antichi geroglifici. In realtà le sue
interpretazioni sono del tutto arbitrarie perchè fondate su concezioni
simboliche e ideografiche estranee a quell'alfabeto. E ciò non fa meraviglia,
perchè lo scritto che porta il suo nome apparve nel tardo medio evo ed ebbe
successo (non disgiunto da perplessità) presso gli umanisti]
“Infine le Sacre Lettere col nome di leone designarono il
Salvatore e la sua figura indicava la regalità, la forza non solo del corpo ma
anche grandezza d'animo; perciò anche la leggenda antica aggiogò al carro del
sole i leoni, per una certa similitudine col sommo astro. L'origine degli
emblemi sacri si trova nelle Sacre Lettere, perchè Dio stesso ordinò che sulle
porte si incidessero palme, mele granate e Serafini, soggetti ricchi di
significazione. (pagg. 95-97) <<<
Cap. VIII: I
ritratti al naturale
Il capitolo si apre con l' “exemplum” positivo del dotto
romano Marco Terenzio Varrone, che, secondo Plinio, aveva raccolto in alcuni
volumi i ritratti di oltre settecento uomini illustri per conservarne la
memoria garantendo loro una sorta d'immortalità.
“Quale più grande e più ricco tesoro si avrebbe se le
immagini al naturale dei Santi dalla più remota antichità sino ad oggi si
fossero potute tramandare! In questo sforzo di tramandare le immagini mi pare
che i Greci abbiano di gran lunga superato gli altri popoli e con maggior cura abbiano
conservato le sembianze e i simulacri dei loro eroi. Quel popolo erudito e
solerte, dopo che ebbe ricevuto la Fede cristiana, tenne lo stesso
atteggiamento anche coi Santi, così oggi i menologi presentano e conservano le
immagini di Crisostomo, di Basilio e di Gregorio. [Menologio, letteralmente
“libro dei mesi”: testo liturgico dedicato alle feste dei santi, di cui si
espone, alle corrispondenti date, la liturgia corredata da cenni biografici e
da immagini]. Questa diligenza e questa premura non vedo in qual tempo i
Latini l'abbiano usata; per cui è risultato che vi sia grave penuria di tali
immagini, e le pochissime che vi sono devono essere accuratamente imitate dai
pittori, se pur vogliono nell'arte loro raggiungere la gloria che si tributa all'autore
di un ritratto dal vero.
“Nella Biblioteca Ambrosiana oggi si conservano non poche di
queste immagini raccolte con amore in molti anni, e mi pare di poter sperare
una maggior dovizia e una raccolta magnifica, se con la diligenza e l'assiduità
che furono da noi prescritte saranno in futuro radunate e conservate le
immagini delle persone egregie che ogni epoca produrrà.
“Sappiamo che Eusebio [lib. 7] e Niceforo [lib. 8] scrissero
che al loro tempo si conservava l'immagine dal vero di San Pietro e di San
Paolo.
Queste immagini furono date da papa Silvestro I a
Costantino. Oggi le immagini più verosimili dei due santi si basano sulla
descrizione di Luciano nel “Filopatro”, che fa dire fra l'altro a un
interlocutore: “Paolo era calvo sulla fronte e dal naso aquilino”. Seguono
altri “exempla” positivi di santi personaggi le cui immagini erano circondate
di ammirazione e in alcuni casi rivelavano un'energia taumaturgica.
“Abbiamo ricordato questi fatti perchè siano d'eccitamento ai
pittori a non lasciar perire le immagini di quelli che o per senno civile o per
bravura militare o per fama di santità o per gloria di lettere furono insigni.
Conviene infatti che gli artisti migliori gareggino fra loro nel conservare
siffatte immagini e non siano tanto dediti al lucro da non tener conto della
pubblica utilità e degli spiriti grandi. Del resto anche l'amore al guadagno e
al denaro dovrebbe allettarli a questa cura. In fatti, per tacere di altri, il
solo caso di San Carlo basterà a provare quanto la cosa sia utile e lucrosa.
Io credo che si sia spesa una somma ingente nell'effigiare la sua figura dopo
che fu morto; mentre era in vita, forse non ci fu nessuno che avrebbe pensato
di ritrarre dal vero le fattezze del Santissimo Pastore.
“Questa non curanza degli artisti può forse trovare una
scusante nel fatto che i santi uomini rifuggono dagli onori e da simili glorie [seguono esempi]. Con intento
molto diverso e per un ben serio motivo Gregorio Magno volle invece essere
effigiato ancor vivo, perchè la sua immagine stesse sempre davanti agli occhi
dei monaci come freno e norma di vita. Così infatti riferisce Giovanni Diacono.
“Alcuni pensano che presso gli antichi cristiani fosse uso,
quando un personaggio veniva ritratto da vivo, apporgli dietro la nuca una
tavoletta quadrata, come si vede in Roma qua e là nelle figure a mosaico,
specialmente nel celebre e mirabile complesso di San Clemente, e forse quella
tavoletta significava che non era ancora compiuta l'opera della salvezza,
essendo il soggetto tuttora in cammino. Così intepreta Giovanni Diacono,
ma la cosa non è molto sicura.
Due papi ritratti da vivi nell’atto di offrire una
chiesa: a sin. Pasquale I (817- 824), a d. Giovanni VII (705-707) <<<
Ha ragione il
cardinale a dubitare, perchè il significato di quell'attributo non è stato del
tutto chiarito. Alcuni vi vedono un'aureola quadrata, e allora sarebbe corretta
la sua interpretazione come segno di santità ancora imperfetta. Ma in troppi
casi essa si presenta come una vera “tavoletta”, con tanto di spessore
prospetticamente reso. E allora la si può associare a un dipinto funebre,
come se il personaggio fosse già degno di un tale imperituro ricordo. Forse
queste interpretazioni (o altre simili) convivevano già in antico, come dimostra
la differenza tra i due esemplari qui esposti.
“Il segno rotondo invece che si vede
circondare la testa di molti, e si chiama diadema [modernamente “aureola” o
“nimbo”],
forse voleva significare la corona di gloria o la perfezione spirituale che
l'anima loro aveva raggiunta. (…) Più esattamente forse pensarono coloro che la
ritennero essere la forma dello scudo che si usava per incoronare i soldati.
Consta che anche a figure pagane fu posta quella corona (…), onde nasce
l'ipotesi che forse quell'uso fu derivato dal rito dei Gentili. Non mai però
quel segno si ritrova intorno al capo di persona oscura, ed è probabile che
ciò si solesse fare ad imitazione dello stemma regale. Invece del disco o
diadema talora si trova un nimbo di raggi, col qual segno qualcuno credette si
volesse distinguere la gloria dei Beati dalla gloria di coloro che la Chiesa
aveva posto nel numero dei Santi. Ma siccome negli antichi monumenti sacri
quella raggiera non si riscontra, è lecito pensare che sia stata introdotta di
recente.
1. Apollo con nimbo raggiato in Velasquez |
2. Buddha nimbato |
3. Cristo con nimbo crociato in un mosaico del sec.XII |
4. Apollo con nimbo raggiato in un mosaico romano |
5. Maddalena nimbata in Giotto |
6. Dee nimbate al giudizio di Paride (mosaico sec. V) |
7. Cristo con nimbo raggiato del Greco |
<<< |
Anche
sull'origine pagana dell'aureola il cardinale ha ragione. E pare che dal mondo
ellenistico questo segno sia emigrato in India. D'origine pagana è anche
l'aureola raggiata, che però è stata ripresa nell'arte cristiana solo nel tardo
'500 (Tintoretto, Greco): altra giusta intuizione del Borromeo. Dell'aureola
crociata di Cristo parla S. Carlo nel cap. XVII, lib. I.
“Mentre lodiamo e raccomandiamo l'usanza premurosa di
ritrarre le fisionomie dei vivi, non possiamo poi non rimproverare quegli
artisti che scelgono persone di fama perduta per appioppare i volti e gli
aspetti loro alle immagini dei Santi, e lo fanno con tale destrezza da renderli
immediatamente riconoscibili (…) E non mancheranno neppure quelli che vorranno
sfogare le proprie ire e rancori prendendo occasione dalle cose sacre: è nota
la malignità di un celebre artista che, dipingendo Giuda il traditore, lo
rappresentò simile a un suo nemico. Un altro ancora rappresentò un demonio col
volto e con l'aspetto di uno che gli era molesto. [E' il famoso episodio di
Michelangelo, che nel “Giudizio” diede a Minosse il volto del cerimoniere
vaticano Biagio da Cesena, dopo che costui, intervenuto durante i lavori, aveva
espresso il suo disappunto per la nudità dei personaggi.] Io esorto
quindi caldamente gli artisti a non effigiare nessuno al vivo, se non di fama
costumata e onesta, e a fare in modo che non siano maledetti per il loro
pennello, non tocchino cioè loro i biasimi e i danni che sogliono guadagnarsi
le penne velenose degli scrittori” (pp. 97-101) <<<
Questa raccomandazione riprende e chiarisce quella fatta da
S. Carlo nel suo capitolo sulle pitture sacre (l. I, cap. XVII). Lo scopo quindi è di
evitare che l'arte diventi strumento di futili polemiche, come avveniva troppo
spesso nell'ambiente letterario. <<<
Cap. IX: Le immagini di San
Gregorio e di Carlo Magno
“Ai nostri tempi, con qualche amore pur tardivo verso le
antichità sacre, si è preso alfine a conservare le scarse reliquie che
sfuggirono alla distruzione dei secoli, e quando la cosa non è altrimenti
possibile si è ricorso al ritrovato, senza dubbio ottimo, della carta e del
papiro. E' questo infatti l'estremo rimedio e quasi l'ancora di salvezza contro
i naufragi e le tempeste che travolgono le umane cose. Io stesso, or sono
alcuni anni, mi presi a cuore la faccenda e molte immagini antiche, raccolte in
libri, depositai nella Biblioteca Ambrosiana, il che fu veramente
provvidenziale poiché, o per ignoranza o per negligenza di non pochi, in
breve la rovina distrusse anche i simulacri dai quali erano state ricavate.
“Lode e riconoscenza grande si deve a quei sacerdoti che
delinearono la basilica di San Pietro ed oggi ancora diligentemente lavorano a
che la posterità possa da qualche disegno ricostruito riconoscere quale sia
stata la forma antica di quel tempio. E per quanto nulla di più maestoso si
sarebbe potuto fare della celebre mole del tempio Vaticano, tuttavia attorno a
quella stessa mole accade a persone pie ciò che si dice essere accaduto al
popolo ebreo quando fu ricostituito l'augusto tempio di Gerusalemme. [I Esdra,
III, 12] (…) Una parte del popolo, ricordando l'antica forma del tempio, e non
pochi dei magistrati stessi, affezionati all'antico tempio, lacrimavano perchè
vedevano che il danno era irreparabile e che quelle rovine non si sarebbero mai
più potute restaurare. I giovani invece, che non potevano ricordarsi l'antica
costruzione, si rallegravano sommamente della nuova e non desideravano nulla
più. Riguardo ai ritratti al naturale si dovrebbero dunque fare e conservare
con somma diligenza, dal momento che [i loro modelli] svaniscono e per sempre scompaiono.
(pagg. 101-102)
A documentare
la sua sollecitudine per la conservazione di ritratti illustri, il cardinale allega
alla sua opera le riproduzioni a disegno, da lui stesso ordinate, di tre
immagini da lui viste a Roma e ormai seriamente compromesse dal tempo. La
prima [sotto, a sinistra] proviene dalla chiesa dedicata a san Gregorio Magno e
ritrae quel santo ancora in vita, come dimostra la tavoletta dietro il suo
capo. La seconda [al centro], collocata nel palazzo lateranense, mostra san Pietro
nell'atto di donare il pallio cerimoniale a papa Leone III e uno stendardo a
Carlo Magno, e ricorda evidentemente l'incoronazione del sovrano da parte del
papa; anche in questo caso le tavolette attestano la contemporaneità
dell'opera rispetto ai personaggi. La terza [a destra] è un altro ritratto di Carlo
Magno che figurava, sempre colla sua brava tavoletta, insieme a quello di Leone
III nella chiesa di Santa Susanna. L'autore ci assicura che i connotati
dell'imperatore in queste immagini corrispondono a quelli riscontrabili in un
suo sigillo e in un antico codice, che sono,
insomma, ritratti dal vivo.
Questo
capitolo è un'altra dimostrazione dell'alto e moderno concetto che il Borromeo
aveva di “bene culturale” (si ricordi anche la chiusa del I libro). Gli esempi
figurativi da lui portati sono tanto più importanti in quanto si tratta di
opere oggi del tutto perdute e che, nel caso di quelle ove figura Carlo Magno,
costituiscono l'unica documentazione iconografica contemporanea di un
avvenimento epocale. <<<
Cap. X: Soluzione di alcune
difficoltà circa l'immagine dei Santi
Ercole De Roberti: Santa Lucia che mostra gli occhi come fiori <<< |
“(...) Alcuni dubitarono se
nel dipingere la santa martire Lucia mentre sostiene e presenta essa stessa
sulla mano gli occhi, la si debba effigiare con le palpebre abbassate o
coperte e le occhiaie vuotate dalla ferocia dei carnefici. Io penso che così
non la si debba mai effigiare, anche se si dipingesse tutta la vicenda del
martirio. E non si dovrà neppure dipingere il modo tenuto dai carnefici per
cavare gli occhi alla Vergine, poiché ciò sarebbe contrario alla verità e alla
storia. A torto quindi le si pongono in mano gli occhi quasi segno del genere
del martirio, allo stesso modo che a San Lorenzo si pone in mano la graticola
e a San Sebastiano le frecce. (pagg. 103-104)
Non sono
chiare in questo caso le motivazioni dell'autore, né per quanto riguarda la verità
storica né per quanto riguarda l'iconografia. La verità storica esigerebbe (o
almeno consentirebbe) di rappresentare la tortura in atto, come avviene
appunto con San Lorenzo e San Sebastiano, mentre l'iconografia richiede che il
martire venga raffigurato col corpo integro, in quanto è risorto, ma corredato
dagli strumenti del martirio. Sì dunque agli occhi aperti quando la santa è
raffigurata in quanto tale, ma perchè non metterle in mano gli occhi mortali
come si fa con la pelle dello scorticato Bartolomeo? Quanto al “modo tenuto dai
carnefici” in questo caso è così ripugnante da rendere comprensibile che si
eviti di raffigurarlo, ma il farlo non sarebbe certo contrario alla verità.
“Si è
pure discusso se l'immagine di San Giovanni Battista debba sostenere con la
mano la propria testa. Per nulla affatto deve sostenerla con la mano: benchè di
altri santi si racconti che abbiano portato con le proprie mani la testa
troncata, ciò in nessun luogo leggiamo a proposito di Giovanni Battista. Ma i
pittori pare che con una certa leggerezza vogliano profanare la gloriosa
decollazione del Precursore. Infatti usano tutta l'arte loro nel dipingere la
madre o la scellerata donzella che richiese la nobile e veneranda testa di
Giovanni. Oltre a ciò non vedi che carnefici, satelliti e corpi seminudi di donne. E non sarebbe
mancata occasione più onesta ed opportuna per l'arte se quegli artisti avessero
voluto ritrarre o il tetro e orrido carcere nel quale il santo giacque, o
l'annuncio della sua sentenza, o la scena della decollazione o la cura dei discepoli per il cadavere, o la
sua sepoltura.
Ferraù Franzoni: Decollazione del Battista |
Arte francese sec. XV: San Dionigi regge la sua testa |
Michelino da Besozzo: San Giovanni regge la sua testa |
P. Bonnaud: Salomè |
<<<
Quasi
tutte le richieste del cardinale sembrano essere state soddisfatte (e con
anticipo) dal Caravaggio nella “Decollazione del Battista” da lui dipinta nel
1608 per i Cavalieri di Malta. C'è il carcere, c'è la scena del supplizio, c'è
l'orrore dei discepoli e c'è un bacile per accogliere la testa. <<<
L'"Annunciata" di Antonello da Messina ben esemplifica
l'ideale dell'autore su questo tema iconografico <<< |
“Bisogna ancora astenersi dal dipingere alcunchè di indecoroso, come farebbe chi per
esempio dipingesse la Vergine Santissima gongolante di gioia per la celeste
ambasciata ricevuta. Ella apparirà piuttosto tutta compresa e quasi
trepidante, in modo che la pittura corrisponda alle parole che in quella circostanza
le uscirono di bocca. Si deve rispettare la
verità storica perchè gli artisti, dipingendo, non abbiano a dire cose vane e
false. La pittura infatti è un linguaggio col quale i pittori parlano non alle
orecchie degli uomini ma ai loro animi. Il detto ormai vieto che a pittori e
poeti tutto è lecito risale a quel poeta che non solo dettò precetti finissimi
sull'arte sua, ma li osservò lui stesso con la massima accortezza [Orazio].
Questa libertà dei pittori deve quindi moderarsi con regole fisse e severe,
così che non esca da quei precetti dei quali ci pare comunque di aver trattato
a sufficienza fino a qui.
Altri precetti iconografici. Nella scena della Deposizione
il corpo del Salvatore non sarà retto dagli angeli, ma dai personaggi umani lì
convenuti, e dovrà portare i segni delle percosse ricevute. Gaudenzio Ferrari
ha sbagliato nel mettere, fra i santi che circondano la Madonna col Bambino,
San Cristoforo con lo stesso Bambino in spalla! Non sarà invece un errore rappresentare
i martiri con le armi che li uccisero o in mano (le frecce di Sebastiano) o
anche confitte in corpo (la mannaia di Pietro da Verona).
“Ma se queste cose son permesse ai pittori, si dovranno però
evitare gli assurdi e le molte incongruenze che essi imbastiscono contro la
verità della storia e del mistero, nel dipingere il Paradiso, il Purgatorio,
il Limbo e l'Inferno. Dipingono infatti nel Paradiso i corpi completamente
nudi, della qual cosa lo stesso Michelangelo, avendola commessa, fu castigato,
poiché si dovette col pennello d'altri velare quella nudità unitamente all'errore
dell'artista [anche
san Carlo, a suo tempo, era stato contrario a quei nudi]. Né si deve
ammettere la scusa di quelli che dicono che Adamo ed Eva, al tempo
dell'innocenza, erano nudi e che per conseguenza i corpi in Paradiso son da
effigiarsi nudi perchè ivi non v'è posto per il rossore. Infatti quelli che
osservano quei corpi nudi non si trovano già ora in tale stato d'innocenza, per
cui possono arrossirne e provare tentazioni. Siamo poi del parere che gli
Angeli si debbano rappresentare ritti o seduti piuttosto che coricati o
giacenti. Nel dipingerli poi l'artista non sottoporrà ai loro piedi un suolo
erboso e nel suo lavoro avrà cura di tener fisso al cielo ogni suo pensiero,
così che col pennello non rasenti la terra che calpesta coi piedi.
“Nel
dipingere l'Orco e le sedi infernali, eviteranno tutto ciò che possa presentare
qualche cosa di osceno. Sarebbe in verità una benemerenza presso tutta la razza
dei demoni se si dipingessero incentivi alla lascivia. L'immagine del
Purgatorio dev'esser tale che risalti il dolore unitamente alla gioia delle
anime, che là soffrono ma sanno che ne usciranno. Tutti questi opposti
sentimenti, egregiamente esposti in una tavoletta in cera, si vedono tra le
statue e i quadri della nostra Biblioteca, uno dei quali dimostra in
altrettante scene la disperazione dei dannati, il lutto del Purgatorio e il
gaudio del Paradiso.
Non ho trovato, tra le opere
attualmente esposte all'Ambrosiana, qualcosa che rispondesse esattamente alla descrizione dell'autore. Vi
ho trovato solo queste due tavolette di Jan Bruegel e bottega intitolate
rispettivamente “Scena infernale” e “Gloria angelica” <<<
“Si potrà anche fra le pene del Purgatorio frammischiare
qualche figura di Angelo che conforta le anime, le conduce a quei tormenti
oppure le porta fuori; ma sarà ottima scelta escludere dal Purgatorio ogni
figura di Demoni, essendovi già bastanti supplizi senza la ferocia e la
crudeltà di quelli. E non sarà impresa da poco per un provetto artista
dipingere bene le anime miserelle degli infanti nel Limbo. Esse non saranno saltellanti
o giocose ma neppure supplici e in atto di percuotersi il petto, ma tacite e meste,
e non senza qualche lacrimuccia stillante dagli occhi. (pagg. 103-106) <<<
Cap. XI: L'abbigliamento e le
insegne dei Santi
“Ma se non si possono avere i ritratti al naturale dei Santi,
si devono almeno conservare i distintivi che o dalle Sacre Lettere o dalla
storia civile o dalle rispettive biografie furon desunti o furono introdotti
per autorità dalla Chiesa. Distintivo dei martiri sono le palme, come dichiara
l'Apocalisse. Gli Apostoli portano i sandali, il cui uso è attestato da
Clemente Alessandrino ed è credibile che molti pontefici lo abbiano conservato;
il che è attestato da antichissime immagini,e quel costume non era stato ancor
del tutto dismesso al tempo in cui fu dipinta l'effigie di San Gregorio.
Infatti le calzature di quel pontefice somigliano in parte alle calzature
comuni del tempo nostro ma in parte anche ai sandali (…)
Corteo dei martiri in S. Apollinare Nuovo, Ravenna (a sinistra). Santa martire con foglia di palma. Milano, s. Maurizio (a destra).
I martiri che
sfilano in corteo a S. Apollinare Nuovo (Ravenna) hanno
molti dei caratteri attribuiti ai santi dall'autore: i sandali, le palme, i
segni grafici sulle vesti. In più portano la corona, segno di elezione, che
verrà loro imposta dal Redentore verso cui si dirigono. Più spesso però la
palma è una sola foglia che viene portata in mano dal santo. <<<
“Le vesti degli apostoli sull'orlo portano segni di questo
tipo: L, H, Z, che alcuno potrebbe dire esser la marca dell'officina o del
fondaco, se non fossero troppo simili tra loro (…). I vescovi poi e gli
arcivescovi si distinguono per il pallio che scende fino ai piedi, come mostrano
molte figure dei mosaici e specialmente l'immagine di San Gregorio, che è
ritenuta la più veritiera perchè corrisponde alla descrizione di Giovanni
Diacono (…). Nella chiesa superiore di Assisi si vede il pallio ornato con
croci nere [segue
una disquisizione sui vari modi di panneggiare intorno al corpo questo
paramento rituale, che ha l'aspetto di una lunga sciarpa].
“Contrassegno dei Sommi Pontefici è l'infula [= tiara,
copricapo cerimoniale] che si chiama Regno [più spesso Triregno]. Esso
deve essere circondato da tre corone per la suprema autorità, e questo
ornamento nell'antica Legge era proprio del Sommo Sacerdote, e Giuseppe
[Flavio] assicura che aveva la triplice corona.” Non mancano però casi in cui la corona è una sola. “Conviene
con la forma di questo Regno pontificio quanto si vede nelle immagini degli
Apostoli Pietro e Paolo (…). I capelli di quelle immagini simulano infatti una
triplice corona, una più piccola dell'altra, il che dovette essere stato fatto
per una tradizionale usanza apostolica o per indicare sommo potere e
superiorità.
1. Giulio II colla tiara a tre corone
(Raffaello, stanze vaticane)
<<< |
2. Innocenzo III colla tiara a una sola corona
(Subiaco, Sacro Speco) |
3. Il Sommo Sacerdote nelle “Nozze della Vergine” di Raffaello |
4. San Pietro colla capigliatura “a triregno” nella cappella Brancacci. Ma è uno dei pochi casi in cui il santo presenta questa caratteristica in quel ciclo, e l'unico in un contesto pienamente masaccesco. |
“I Santi
si distinguono gli uni dagli altri per diversi contrassegni, come quando si
aggiunse all' immagine di Sant'Antonio Abate il campanello, il fuoco e il
sozzo animale, dei quali distintivi non abbiamo una spiegazione sicura da
dare, se non forse il fatto che quel sozzo animale rappresenta i demoni, che
furono molesti al santo abate, come dice Sant'Atanasio, e accorsero per
spaventarlo con schiamazzi e fischi. La figura del porco infatti designa la
bruttezza dei Demoni.
Evidentemente il cardinale ignora (o intende screditare) quei culti e quelle leggende che associano il 'sozzo animale' al santo come operatore inconsapevole della più popolare ed invocata tra le sue virtù taumaturgiche: la cura di malattie cutanee come l''herpes zoster' (detto ancor oggi 'fuoco di sant'Antonio'), cura che si effettuava proprio col grasso di maiale. A tale cura si dedicava sin dal secolo XIII una comunità religiosa che aveva la facoltà di allevare maiali, e per renderli riconoscibili applicava loro una
campanella. Naturalmente anche su questi dati le leggende popolari hanno
lavorato non poco.
Immagine popolare di S. Bernardo col diavolo incatenato ai suoi piedi |
“San Bernardo vien dipinto in atto di legare il demonio, e i pittori
s'ingannano quando credono che questo sia l'abate di Chiaravalle. Vi fu infatti
un altro San Bernardo, religioso dei Canonici Regolari, che condusse vita
quasi eremitica [si tratta infatti di Bernardo di Mentone, vissuto a cavallo
dell'anno 1000] . Abitò sull'alto monte che da lui prende ancor oggi il
nome e fondò lassù un celebre monastero. Raccontano di questo Bernardo
anacoreta che rintuzzò l'audacia dei Demoni che infestavano col loro furore
quelle regioni, e da ciò ebbe origine la credenza che i Demoni siano stati da
lui incatenati. <<<
“La famosa lotta sostenuta da San Giorgio
contro il Demonio non è parimenti attestata da prove sicure, benchè non vogliamo
punto negare che quel santo sia stato caro e accetto a Dio. Ma non si dovrebbe
dipingere San Cristoforo per la sua smisurata altezza alle porte delle chiese,
come pure del medesimo si raccontano cose frivole e false.
Con l' “exemplum” del Giove
olimpico di Fidia l'autore suggerisce, a scusa degli artisti, che a volte la
grandezza dell'immagine è proporzionale alla grandezza morale da essi attribuita
al soggetto.
Nella leggenda di S. Giorgio il diavolo ha l'aspetto di un drago |
San Cristoforo accanto alla porta del battistero di Castiglione Olona |
“Santa Lucia
viene dipinta con qualche segno che dimostri com'ella provvede alla sanità
degli occhi (…) Può darsi che questa usanza sia nata dal fatto che bisognava
allontanare i cristiani dalle superstizioni dei Gentili:
Albrecht
Dürer: San Gerolamo <<< |
siccome l'antichità
credeva che la dea Lucina fosse il Nume tutelare per gli occhi, così fu
sostituito al Nume vano il nome della martire Lucia (…).
“Sappiamo con
certezza che il santo padre Francesco portava un cappuccio a punta, e così lo
ritrasse Cimabue in Firenze nel 1240 (…). Si è discusso se accanto a San Gerolamo
convenga porre il cappello rosso o galero, poiché dicono che tale distintivo
della cardinalizia dignità sia stato introdotto da Innocenzo IV, che è di molto
posteriore a Gerolamo (…) Ma io non do gran peso a questa difficoltà, perchè
il cappello rosso vicino all'immagine del santo Dottore non significa che
l'abbia portato, ma soltanto che fu insignito della dignità cardinalizia
(...). Si è anche discusso se allo stesso santo Dottore si deve aggiungere la
figura del leone a ricordare il celebre e mirabile evento [l'amicizia nata fra il
santo e l'animale dopo che egli gli ebbe tolto una spina dalla zampa: fatto attribuito
anche ad altri santi e risalente alla leggenda di Androclo]. <<<
Cap. XII: Diverso
uso delle immagini presso i cristiani
“(...) L'antichità [cristiana]
usò le immagini per vari scopi, e anzitutto per ridestare quel sentimento di
dolore che ognuno deve provare nell'animo per le proprie colpe, e ciò lo
attesta san Gregorio [Magno, Epist. 9, 9]. Inoltre pensavano di poter ammaestrare
con questo mezzo la moltitudine ignorante nei sacri misteri, come scrisse lo
stesso papa Gregorio. Intendevano ancora tributare alle immagini quel culto che
le scuole e i dottori consentono; al qual proposito San Basilio dice che non
solo in privato ma anche in pubblico egli venerava le immagini, e che ciò era
di istituzione e tradizione apostolica. Infine stimavano essere un dovere di
riconoscenza tenere in onore quegli uomini che avevano fatto dei benefici, ed
Eusebio dice che forse, delle usanze cristiane, quella delle immagini derivò
dagli stessi Gentili, i quali usavano tenere in onore coloro da cui avevano
ricevuto aiuto e salvezza. (…) San Basilio invece arreca un'altra ragione, e
l'esprime in questi termini, parlando non tanto dei dotti quanto degli
ignoranti: - Quella storia che il discorso presenta per mezzo dell'udito, la
muta pittura la mostra con la rappresentazione - .
“Per quanto riguarda il luogo e il sito delle immagini,
San Crisostomo dice che ai primi tempi della Chiesa i fedeli solevano far le
agapi [= pranzi comunitari] negli stessi templi e quivi, apparecchiate
in ordine le tavole, sedersi. (…) E' sostenibile dunque la supposizione che
nella navata di mezzo del tempio fossero dipinte le storie sacre affinchè
quelli che, secondo l'antico costume, si cibavano nel tempio, mentre si ristoravano
potessero in quelle fissare gli occhi. Ma altre ancora furono le sedi delle
sacre immagini. Si collocavano sullo stesso ingresso dei templi, come afferma
Anastasio bibliotecario, ed Eusebio dice che era stata posta sulla porta di un
tempio la statua della donna che il Salvatore guarì dall'emorragia, perchè
fosse un ricordo del miracolo. Sugli stessi soffitti, nei recinti e nelle
parti superiori delle navate erano dipinte delle immagini (…).
“Davanti a quelle immagini si sospendevano anche
lampade accese (…). Solevano anche onorarle con incenso e altri profumi (…) ed
Eusebio ci assicura che questo fu già un costume dei Gentili (…) . Infine, si
davano anche baci alle immagini, e che questo fosse costume degli antichi
cristiani la provò Giovanni, monaco e sacerdote, quando espose il suo parere
al Concilio Niceno [probabilmente il secondo, che si occupò del culto
delle immagini]. (pagg. 110-112) <<<
Cap. XIII: L'antica forma dei
templi
“Essendoci noi proposti con questo studio di correggere
i difetti in cui cadono spesso gli artisti del pennello e dello scalpello, ci
pare opportuno aggiungere qualcosa intorno agli errori che gli architetti
commettono nella costruzione dei templi. Quest'ultima nostra cura si
concilierà con la cura e con le regole secondo le quali noi abbiamo istituito
la scuola o accademia di queste tre arti affinchè a maggior gloria di Dio noi le
abbiamo a coltivare più correttamente e con miglior gusto.
“Affermiamo pertanto che nella costruzione dei templi
bisogna tener presente soprattutto ciò che si tien presente in ogni altra
impresa, cioè che si badi al fine e al motivo per cui si costruiscono i templi:
questo motivo e questo fine imporranno la norma e la misura a tutte le spese,
le leggi e gli artifici dell'architettura. Questo principio e questo canone
fondamentale noi potremmo confermare con diverse prove e testimonianze, ma ci
limitiamo ad una sola osservazione: gli antichi Romani sceglievano luoghi ampi
e spaziosi per collocarvi le statue, affinchè la luce, la forma e la
proporzione dell'ambiente concorressero al piacere non meno che alla comodità
degli ammiratori di quelle statue. Orbene, nella costruzione dei templi si deve
aver di mira di procurare ai fedeli, quasi popolo di statue viventi, un luogo
opportuno per pregare e adorare la Divinità. Ogni qualvolta gli architetti non
osservarono questa norma, siamo costretti a dire che essi non costruirono
templi, ma cappelle ed oratori, come dicono i cristiani, o sacelli, edicole e
delubri, come dicevano gli antichi pagani.
“Gli antichi templi dei cristiani avevano parti ben
distinte, e d'ambo i lati portici, esedre, cappelle, oltre al sacrario, al coro
e al presbiterio. Avevano una navata centrale lunga, i cui bracci si stendevano
dall'una e dell'altra parte [formavano il transetto? Ma questo
elemento non è proprio delle basiliche più antiche], e questo piano della costruzione sacra è diffusamente
spiegato da Eusebio e da Gregorio Nazianzeno. E non fu per capriccio se i
nostri antenati così stabilirono, perchè non si sarebbe altrimenti potuto separare
con sedi proprie la gerarchia ecclesiastica e il popolo cristiano. Infatti non
soltanto collocavano separatamente un sesso dall'altro, ma anche le vergini,
le maritate, gli ossessi, i neofiti, i poveri e i colpiti da qualche punizione
avevano un posto distinto: tutte queste separazioni non si potrebbero
certamente ottenere nella forma dei templi che oggi si edificano.
“Si deve inoltre procurare, ad imitazione dei templi
antichi, di riprodurre, per quanto i nostri riti consentono, il disegno dello
stesso tempio di Salomone. Questo tempio infatti constava delle parti che ho
ricordate, e in esso ogni categoria di persone aveva il proprio posto. La forma
descritta da Clemente Romano è opportunissima agli usi ecclesiastici: sarà a
similitudine di una nave, che è lunga e diversamente divisa, così che i
ministri della casa sacra siano ripartiti secondo le proprie mansioni, come
avviene nel servizio navale. Qualora queste disposizioni, o per ignoranza o per
incompetenza degli architetti, fossero tralasciate, ne conseguiranno molti
inconvenienti e soprattutto questo, che né i sacerdoti dalla massa del popolo,
né le parti più sacre del tempio si potranno distinguere per maestà e dignità
dalle altre.
“So che è costumanza introdotta di recente che gli
ecclesiastici prendano posto dietro l'altar maggiore, mentre il popolo si
distende di fronte e soprattutto ai lati dell'altare stesso. Non facevano così
i nostri antenati, i quali erano del parere di sottrarre quanto più era
possibile i sacri misteri dagli sguardi della moltitudine. Però al coro, al
presbiterio e a quella parte che è detta Sancta Sanctorum destinavano la
parte centrale del tempio, come la più nobile e splendida [per la
spiegazione di questi termini si possono consultare le “Instructiones” di San
Carlo. Il “Sancta Sanctorum” (termine mutuato dal tempio di Gerusalemme) è la
zona del tabernacolo]. Intorno a quella
parte poi si disponevano in giro, davanti gli ecclesiastici e dietro di loro
il popolo secondo i vari ordini e secondo le varie disposizioni di esso.
Quest'antica disposizione io credo sia stata sconvolta dall'arbitrio degli
architetti, i quali fecero l'entrata e il prospetto del tempio ampi e
magnifici, e così facendo non si accorsero d'aver relegato per così dire il
Signore della casa e i suoi principali ministri nella parte più angusta, per
lasciare invece la parte migliore all'infima plebe.
“Un altro inconveniente è anche questo, che i
sacerdoti, sedendo dietro l'altare, guardano verso Occidente, non già verso
Levante, cosa contraria agli antichi precetti della disciplina ecclesiastica.
Per di più dal popolo non è più visto il clero, il quale, in quel luogo
piuttosto oscuro e nascosto, si atteggia con gesti e parole assai più liberamente
di quanto non farebbe in vista dell'assemblea, che invece dovrebbe temere come
testimone e censore della propria licenza, così che l'amore della virtù e il
timore del biasimo sarebbero di stimolo alla compostezza.
“Si violano inoltre le leggi ecclesiastiche nella
costruzione dei templi quando i Pastori di anime e i sacerdoti che hanno un po'
di potere e di senno permettono ai costruttori e agli architetti di disporre
ed edificare tutto a loro arbitrio. Non così avvenne nella fabbrica del maggior
tempio di questa nostra Milano: San Carlo volle bensì che fosse di convenevole
ampiezza e che fosse di architettura curata ed elegante, ma in modo che l'arte
stessa si adattasse agli usi ecclesiastici e vi fosse finalizzata. Ne era architetto
il famoso Pellegrino, nato in oscuro villaggio di Valsolda, regione che è per
intero soggetta alla Chiesa milanese. In quel paesello si vede ancora l'umile
casetta di questo architetto, che con gusto fine, dopo che si fu arricchito,
non volle demolire per erigere allo stesso posto un palazzo, come forse avrebbe
fatto qualcun altro. Vi aggiunse soltanto alcuni semplici ornamenti quasi di
arte nascente, come volesse ivi mostrare gli inizi dell'arte sua. (pagg.
112-114)
[Segue un
breve profilo biografico del Pellegrini, di cui l'autore ricorda il tirocinio
con Michelangelo e ribadisce le qualità artistiche. Sulla sua figura si
concludono il capitolo e l'opera.]
Questo
capitolo si sovrappone, quanto a contenuto, alle “Instructiones” di San Carlo,
così come in quell'opera il capitolo sulle pitture sacre (lib. I, XVII) si
sovrappone alla presente. Ma mentre le “Instructiones”, nella loro brevità,
non dicono nulla che si differenzi dalla trattazione di Federico, qui qualcosa
di diverso rispetto al più vecchio Borromeo lo troviamo. Non l'allusione alla
spaziosità delle chiese, che anzi viene confermata sulla scorta dell'uso
antico col suggestivo paragone popolo-statue umane. E nemmeno l'opzione per la
pianta longitudinale, riaffermata qui come spazio modulare adatto alle molte
separazioni che il nuovo cardinale considera, se non obbliganti, certo
opportune nello svolgimento dei riti.
Vi è
invece quella nostalgia per la collocazione centrale del coro, che per Carlo è
solo una delle scelte possibili. Tale collocazione rende il clero più visibile
al popolo e il vantaggio è più per il primo che per il secondo, perchè l'essere
visibile obbliga il clero a tenere un contegno corretto: il Borromeo conosceva
i suoi polli! Questa aspirazione alla centralità del clero porta Federico a
smentire almeno in parte i precetti del cugino sul primato della facciata e
delle porte nell'edificio ecclesiastico: se il coro è dietro l'altare, la
facciata imponente non fa che accentuarne la distanza (fisica e psicologica)
rispetto alla massa dei fedeli. Massa che in ogni caso non gode di un ruolo da
protagonista; anche se non è sempre chiamata “infima plebe”, è sempre oggetto,
mai soggetto dell'azione liturgica o pastorale; ma questo è un tema epocale,
che va ben oltre quelli presenti negli scritti qui esaminati.
Resta
da chiedersi quali difetti vedesse il Borromeo nelle chiese edificate “a loro
arbitrio” dai nuovi architetti. E' presto per pensare al barocco; forse
alludeva agli ampi spazi a navata unica introdotti dai gesuiti o a qualche
ritorno alla pianta centrale come nel San Giuseppe richiniano. Ma è difficile
parlare di “arbitrio” in questi casi. Forse gli spiaceva semplicemente
constatare che non tutti i Pastori dotati “di potere e di senno” esercitassero
su artisti e architetti quel controllo formale e dottrinale che egli, sulle
tracce del grande predecessore, si proponeva di esercitare. <<<