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 Federico Borromeo - La pittura sacra

Federico Borromeo

De pictura sacra,1624

a cura di Adriano Bernareggi

 

 

Indice degli argomenti

Nota, II

Leges observandae in Academia”

LIBRO I

Cap. I - Indirizzo al lettore e proposizione degli argomenti
Cap. II - Del Bello
Cap. III - Gli errori degli antichi Gentili
Cap. IV - La falsificazione della storia
Cap. V - Le favole dei Gentili
Cap. VI - Del nudo
Cap. VII - L’abbigliamento
Cap. VIII - Le età
Cap. IX - Il campo pittorico
Cap. X - Difficoltà nel ritrarre i sentimenti dell’animo
Cap. XI - Al pittore è necessaria anzitutto la pietà
Cap. XII - Delle figure atletiche
Cap. XIII - Delle figure immorali

LIBRO II

Cap. I - Le immagini della Santissima Trinità
Cap. II - L’immagine del Salvatore
Cap. III - Le immagini del Crocifisso
Cap. IV - I misteri del Salvatore
Cap. V - Le immagini della Beatissima Vergine
Cap. VI - Le immagini degli Angeli
Cap. VII - Emblemi sacri
Cap. VIII - I ritratti al naturale
Cap. IX - Le immagini di San Gregorio e Carlo Magno
Cap. X - Soluzione di alcune difficoltà circa l’immagine dei Santi
Cap. XI - L’abbigliamento e le insegne dei Santi
Cap. XII - Diverso uso delle immagini presso i Cristiani
Cap. XIII - L’antica forma dei templi

 

Indice delle illustrazioni

Tipologie e percorsi iconografici
Prototipi pagani di temi iconografici cristiani: “Traditio legis”, Mater Matuta, allegoria fluviale
La Trinità: varianti iconografiche
Temi biblici in monumenti cristiani: il sacrificio di Abramo, i tre fanciulli, Daniele e i leoni, Noè nell’arca, Mosè fa sgorgare le acque
La resurrezione: tipi iconografici: Angelico, Pinturicchio, Bellini, Rubens
Le nuove istanze fisiognomiche: Leonardo, Lavater, Mersserschmidt, Lombroso
Iconografia dei martiri
Percorsi iconografici: dall’ “Apollo del Belvedere” a Mondrian, dal “Laocoonte” a Munch
Aureole quadrate in “santi viventi”
Vari tipi di aureola
La tiara papale e i suoi precedenti
Santi decollati: Giovanni Battista e Dionigi
Sant’Antonio abate (statua devozionale)
San Bernardo e il diavolo
San Giorgio
San Cristoforo

Elementi pittorici e simboli
Croce gigliata
Grottesche
Monogramma del Cristo e dei papi
Pianta del duomo di Piacenza
Pseudo-croci: svastica e rosa camuna
Simboli paleocristiani: Navicella di S. Pietro,“Ichtys”, pesci e ancore da rilievo funerario, lira di Orfeo, colombe
Simboli del Cristo: il Pellicano, l’ Agnello di Dio
Simboli del Cristo: Orfeo, Giona
Simboli del Cristo: il Buon Pastore
Simboli mariani
Il “tetramorfo” di Raffaello
Il volto di Gesù: Veronica, Mandylion
Il volto della Sindone

Opere d’arte
Allori, Alessandro: Susanna e i vecchioni
Antonello da Messina: Vergine annunziata
L’ “Apoxiòmenos”
Battesimo di Cristo. Ravenna, battistero degli Ariani
Beato Angelico: Resurrezione
Bellini, Giovanni: Resurrezione
Brill, Paul: Paesaggio con San Giovannino
Bruegel, Jan: Scena infernale e Gloria angelica
Cagnacci, Guido: La Vanità
Caravaggio: Decollazione di Giovanni Battista
Correggio: particolare dagli affreschi della camera della badessa Giovanna, Parma
Crocifisso S. Maria Antiqua
Crocifisso di S. Clemente
De Roberti, Ercole: Santa Lucia
Dürer, Albrecht: San Gerolamo
Gentileschi, Orazio: Angelo annunziante
Gherardi, Antonio: Nascita della Vergine
Leonardo: Particolare del “Cenacolo”
Michelangelo: Testa della Madonna nella Pietà di S. Pietro. Testa di Gesù nel “Giudizio”
Michelangelo: San Pietro nel “Giudizio”
Michelangelo: Angeli dal “Giudizio”
Michelangelo: Il Minosse del “Giudizio”
Pinturicchio: Resurrezione
Raffaello: Sacra famiglia
Raffaello: Il “tetramorfo”
Reni, Guido: San Sebastiano
Rubens, P.P.: Resurrezione
Tibaldi, Pellegrino: Adorazione del Bambino
Tiziano: Adorazione dei Magi
Antiche immagini recuperate dal Borromeo: Gregorio e Carlo Magno

 

Nota

Diversamente dalle “Istructiones” di S. Carlo, già oggetto di una mia sommaria esposizione, il libro di Federico Borromeo si presta a una lettura estesa. E' un trattatello in stile umanistico, di tono brillante e scorrevole, in cui le tesi sono so­stenute da “auctoritates”, cioè citazioni di scrittori autorevoli, ed “exempla”, episodi e aned­doti destinati ad esemplificarle. I miei tagli riassuntivi riguardano soprattutto questi punti, ove il testo per esteso non aggiungeva nulla alla sostanza, oltre a quelli ove l'autore mostra una tendenza all'analisi minuziosa e pignolesca che doveva essere un carattere di famiglia.

Come nell’altro caso, il mio scopo non è di sottoporre il testo a un’indagine filologico-esegetica, ma solo di renderlo disponibile agli studenti interessati. Anche qui ho distinto graficamente i diversi livelli di lettura: in corpo più grande e tra virgolette il testo nella traduzione di C. Castiglioni, in corpo più piccolo e tondo le parti riassunte ma conformi al testo; nello stesso corpo ma corsivo i miei interventi. Quanto alla traduzione, vi ho apportato alcune modifiche mar­ginali, quando mi sembrava che la fedeltà al latino nuocesse alla chiarezza.

Ho omesso la maggior parte dei riferimenti a margine, che non dicono molto al lettore non specialistico. Ho invece abbondato nelle illustrazioni per visualiz­zare le opere e gli ogget­ti cui l'autore fa continui riferimenti. A un certo punto (cap. X del li­bro I) mi sono permesso un “excursus” iconografico-storico, perchè mi sembrava che l'argo­mento del capitolo ne contenesse in modo potenziale la sostanza.

Il segno <<< rimanda all’indice, salvo diversa indicazione

 

Federico Borromeo “De Pictura Sacra”, 1624

(Edizione da me usata: Camastro, Sora, 1932, traduzione e cura di C. Castiglioni, introduzione di G. Nicodemi)

 

A introduzione dell'opera, riporto il preambolo del Borromeo alle “Leges Observandae in Academia”, cioè del regolamento dell'Ambrosiana da lui appena fondata.

“Nell'istituire la Scuola o Accademia di pittura, scultura e architettura non ci mos­se alcun motivo umano, ma fu intenzione dell'animo nostro di preparare gli artisti ai la­vori del divin culto e di rendere alquanto migliori in questo campo quelle arti. E' infatti abbastanza noto che molti pittori, scultori e architetti, poiché non hanno fatto strada o nei precetti o nella pietà che dovrebbero apportare nella produzione di tali opere sacre, spesso mancano gravemente e dipingono i divini misteri e i fatti umani, o progettano i templi sacri e le abitazioni degli uomini senz'alcuna distinzione del sacro e del profa­no, ed hanno più riguardo alle comuni regole dell'arte che alla pietà e alla santità dei luoghi, dei tempi e delle cose stesse. Per la qual cosa noi vogliamo che sia regola della nostra Accademia che, oltre all'arte della pittura e della scultura, vi sia qualche docente che insegni i doveri delle virtù cristiane e che, all'udire di frequente simili ragiona­menti, gli artisti siano formati anche alla pietà e religione.

“Converrà che essi conoscano bene i misteri della nostra sacrosanta Fede, la cui conoscenza invero contribuisce non poco alla perfezione delle arti. Poiché, come sa­rebbe assurdo pubblicare libri infarciti di errori e che tendessero a corrompere i costu­mi, e converrebbe anzi distruggere libri di tal genere; così nella composizione di im­magini e di edifici bisogna badare che nulla rimanga da cui gli animi dei mortali siano indotti al male e all'errore. In questa nostra cura pastorale e nell'amministrazione delle cose divine abbiamo avuto presente questo proposito, e a ciò mirammo istituendo que­sta disciplina e maestri e discepoli, e perciò dettammo queste che ne sono come le leg­gi.”   <<<

 

Facciata dell'antica biblioteca

L'Ambrosiana ai tempi di Federico <<<

Libro I

Cap. I: Indirizzo al lettore e proposizione degli argomenti

Viene annunciata la divisio­ne in due libri:

I: “Precetti comuni ad ogni genere d'arte, riguardanti la perfezione sia della pittura che della scultura sacra”

II: iconografie di singoli temi

L'autore richiama la delibera della XXV sessio­ne del Concilio di Trento come testo di riferimento per ogni moderna valutazione di un'opera d'arte.  <<<

Cap. II: Del Bello

“Anche nel vivere umano si ricerca e piace soprattutto agli occhi degli spettatori ciò che si chiama il decoro; quello splendore cioè o quella luce o fiore che risulta da ogni movenza e da ogni gesto, luce e fiore di cui l'animo si allieta. E quella gioiosità e quel piacere, siccome è insito in tutte le opere che si compiono con venustà e grazia, così l'arte lo trasfonde nelle immagini che coi colori o nel marmo riproducano quelle azioni umane. E la gioiosità di queste arti in nulla differisce da quella naturale e viva, se non in ciò, che le loro opere non hanno via né loquela né movimento alcuno; e sono come rinchiuse in simulacri annebbiati e in colori morti.

Tuttavia, i morti colori e questi morti marmi non sdegnano le leggi del decoro, ne abbisognano anzi di più. Invero, qualunque pecca si compia contro il decoro nell'o­pera d'arte rimane in perpetuo ed è insopprimibile, mentre è relativamente facile cam­biare un comportamento e quasi subito esso scompare dagli occhi non appena questi ne sono stati colpiti. Inoltre si può offendere e venir meno al decoro nei comporta­menti inavvertitamente e per leggerezza oppure anche per qualche violenta passione, contro il nostro volere, mentre con animo deliberato e con le proprie mani si deforma e si de­turpa il decoro dell'arte, e la sua egregia bellezza deliberatamente e volontaria­mente la si riduce spesso a una mostruosità vergognosa. La qual mancanza o ingiuria o deturpa­zione del bello, se avviene in materia profana è senza dubbio riprovevole, ma ancor più riprovevole è quando la si commette in cose sacre e divine.” (pagg. 58-49)

Seguono citazioni sulla cura che gli antichi pagani ponevano nel rappresentare le cose divine con la più alta qualità artistica, cosa che noi apprendiamo anche da quanto resta dei loro trattati in materia e da cui gli artisti moderni dovrebbero ancora prender esempio.

“Il bello, in ogni ordine di cose, non è se non ciò che armonizza pienamente con sé stesso, in modo da apparirci tale che nulla gli si possa togliere e nulla aggiungere. E' insomma quale deve essere [Teage, pitagorico citato da Stobeo]. Sconveniente, al con­trario, è tutto ciò che manca oppure sovrabbonda rispetto alla giusta misura. Queste definizioni dimostrano chiaramente che qualsiasi virtù è sempre circonfusa di questo decoro, poiché la sua eccellenza è riposta in una tale perfezione che sta di mezzo tra il poco e il troppo. E per quanto non la si possa dissociare dall'onesto, ha tuttavia qualco­sa in più, che a parole non si può esprimere benchè la mente la comprenda [Cicerone, de Officiis, I]. Come infatti la bellezza del corpo non si può disgiungere da una salute buona e stabile, così il Bello non si disgiunge mai dalla virtù. I Pitagorici sostennero perfino che la virtù non è che l'abito del Bello e che il brutto può risultare in due modi, cioè o per difetto o per eccesso di ciò che è puramente conveniente. Il Bello poi sta in quel giusto mezzo mancando il quale i corpi umani si dicono infermi (…) Così, por­tando oltre questa elegantissima teoria pitagorica, possiamo dire che le immagini che presentano qualcosa di viziato e di indecente sono come corpi ammalati e che gli artisti inetti sono genitori di una prole inferma” (pagg. 59-60)

Il cardinale accoglie dunque la classica idea del Bello come equilibrio ideale fra oppo­sti eccessi e dell'arte come restituzione di tale equilibrio, quindi della riproduzione della real­tà “quale deve essere”. Vedremo subito però che in questo “dover essere” egli pone anche ciò che chiama la “verità storica” e i canoni della Chiesa, non esclusa la tradizione icono­grafica, rischiando quindi non poche contraddizioni    <<<

Cap. III: Gli errori degli antichi gentili

Naturalmente anche gli antichi hanno fatto i loro bravi errori, innanzitutto nel non ri­spettare la verità fisica o storica dei fatti considerati, come quando raffiguravano Ercole che “squarcia” il leone aprendogli le fauci, mentre con quel gesto poteva al massimo soffocarlo, o Cleopatra che porge il seno all'aspide, quando la serpe le avrebbe sicuramente morso prima il braccio. Ma già quegli antichi trovarono tra i loro contemporanei chi li redarguisse.    <<<

Cap. IV: La falsificazione della storia

“Perchè non si offendano i diritti della storia, si deve tener presente che è certa­mente lecito al pittore e allo scultore abbellire e nobilitare meglio che possono gli epi­sodi riprodotti, ma non è affatto permesso contraddire alla loro verità e deturpare o non riconoscere l'inveterata tradizione su un dato fatto. A ciò appunto mirando il Decreto del Sacro Concilio Tridentino ordinò che dalla pittura sacra si bandissero le falsità e gli errori tutti, affinchè le devote immagini non presentino nulla che possa scandalizzare gli animi semplici. Dice precisamente quel decreto: - in modo che nulla si veda di di­sordinato, di fatto al contrario o alla rinfusa, nulla di profano e nulla di indecente-.

“Perchè poi si comprenda come e quanto nell'arte dei pittori si possa variare e or­nare un fatto, lo si può così definire. Alcune cose sono vere o perchè avvennero un tempo o perchè avvengono tuttora. Altre cose possono essere o avvenire ma non è af­fatto probabile, mentre altre ancora possono essere o avvenire con ogni probabilità. Nel primo ordine di cose il pittore dovrà esprimere con fedeltà quelle che avvennero in passato e che avvengono nel presente; e ciò tuttavia non lo farà confusamente, ma u­sando criterio e maturità di giudizio, allo stesso modo che nel discorso quotidiano è conveniente tacere parecchie cose che pur sono vere. Le cose, poi, che sono probabili richiedono d'essere trattate con riguardo e con somma prudenza, giacchè l'arte si eser­cita più propriamente nelle cose vere, così che quando da esse si allontana, ancor più si allontana dalla vera e schietta arte del dipingere e dello scolpire. Delle cose più o meno probabili diciamo insomma che è permesso servirsene allo stesso modo in cui l'oratore, pur nel trattare e dimostrare la verità, non disdegna affatto argomenti probabili. Ne vie­ne così che le cose probabili si rappresentano come vere non senza una certa forza di persuasione e con quel sovrano piacere e diletto che tutte le cose nuove arrecano.

“Le cose false però non si dovrà mai ammetterle né accettarle, così come vengo­no assolutamente bandite dagli scritti e dalla letteratura. Non è infatti diverso scrivere un libro falso e dipingere un episodio non vero. Anzi, il falso nella pittura spiacerà a dotti e indotti, mentre la falsità letteraria recherà disgusto solo alle persone istruite e prudenti (pagg. 61-62)

L'arte figurativa dunque equivale a quella letteraria in quanto veicolo di verità o di menzogna, ma rispetto a questa ha un impatto sociale maggiore, perchè i suoi contenuti pos­sono essere capiti non solo dai dotti ma anche dagli analfabeti, che costituivano la gran parte della popolazione del tempo. Questo in virtù di quelle “cose probabili” che l'artista vi può aggiungere, che costituiscono i caratteri specifici di ogni opera (luci, ambientazione, gesti...) e quelli cui è affidata la forza persuasiva dell'opera stessa. Non a caso proprio questi carat­teri saranno, in modo implicito o dichiarato, oggetto di gran parte della trattazione che se­guirà.     <<<

Esempi di pittura falsa: Gesù che impara a leggere sulle ginocchia della madre, “quasi si avesse a ritenere che il Salvatore, al pari degli altri fanciulli, si sia dedicato alle esercitazioni scolastiche; Maria partoriente ma “bisognosa dell'assistenza di altre donne”; santi moderni a­nacronisticamente posti ai piedi della croce o in adorazione di Gesù bambino; Lazzaro che e­sce dal sepolcro coi piedi slegati (Giovanni dice il contrario); la Samaritana al pozzo con cor­da e secchio (Giovanni non ne parla); il Cristo che porta la croce vestito di porpora.     <<<

Questi esempi appaiono piuttosto deboli, soprattutto in rapporto alla grande precetti­stica conciliare, basata com'è su concetti di “verità”, “ordine” ecc., discutibili quanto si vo­glia ma orientati a un livello di realtà più alto di quello preso in esame dall'autore. Ma rap­presentano il suo modo di cercare la verità storica, come vedremo soprattutto nel libro II.

Cap. V: Le favole dei Gentili

“Fu sempre concessa ai pittori e ai poeti la massima libertà, ma tale libertà non deve mai giungere al punto che le venerabili e sacrosante leggi della Fede Cattolica, nonché la stessa ragione (le quali tutte vietano che, come in ogni discorso, così nella pittura si faccia miscela di sacro e di profano) debbano talora venir calpestate. Miche­langelo, dipingendo nella Cappella Papale in Roma il Giudizio Universale, non so con quale spirito vi raffigurò la barca di Caronte sulla quale i miseri mortali vengono tra­ghettati, il che non fu certo una lodevole trovata di quell'artista (pag. 63).

E Dante? Forse il cardinale ritiene che la “Commedia” sia roba da letterati e che, in base a quanto detto nel capitolo precedente, non possa giustificare un'opera figurativa. D'al­tronde, quali rappresentanti del popolo indotto avevano accesso alla Cappella Sistina?

“Ma ecco che, per divina disposizione, il caso stesso intervenne a correggere e quasi a sopprimere quella cosa favolosa e sconveniente. La mole del maestoso altare, infatti, e i suoi ornamenti, nascondono la barca a tal punto che non dà più nel­l'oc­chio.
“Anzi, i nostri antichi ebbero molto a cuore che questi soggetti profani non inqui­nassero le cose sacre, e lo stesso Costantino il Grande proibì che la sua effigie venisse collocata in qualunque tempio degli Dèi. Pensava infatti che se vi fosse posta per qua­lunque motivo, ne sarebbe stata in un certo qual modo contaminata e macchiata [Euse­bio, Vita di Costantino, IV, 6].

“Alle chiese e a qualunque luogo sacro disconvengono le Sfingi, la turba dei Sa­tiri, gli uomini foggiati ad alberi e le altre finzioni del genere: queste vanno lasciate alla vanità dei Gentili, cui appartengono in proprio (pag. 63).

Qui l'autore se la prende con la mo­da delle “grotte­sche”, che imperava da quando era stata scoperta la “Do­mus Au­rea” (le “grotte” in cui si trovavano i prototipi di quelle figurazioni). <<<

grottesche sfingigrottesche satiri quirinale
grottesche domus aurea

In alto a sinistra: Grottesche con “sfingi”. In alto a destra: Grottesche con satiri, anzi satiresse. In basso: Grottesche della “Domus Aurea” <<<

 

L’autore ne riconosce giustamente il carattere pagano, ed è provato che molti artisti si servivano di esse per mascherare sotto apparenti motivi decorativi simboli e contenuti ispirati ad un neopaganesimo magico-occultistico (il cosiddetto ermetismo) ben poco compatibile col cattolicesimo romano.

“Se nei più antichi templi che i cristiani costruirono si trovano creature mostruose di tal fatta, certo vi furono trasferite dalle costruzioni pagane e non già di proposito scolpite sulle sacre pareti.

[Erano insomma materiali di spoglio. Ma vi sono anche travasi di motivi iconografici che l'autore sembra ignorare, come le allegorie del cielo e dei fiumi o l'atteggiamento della Mater Matuta per la Madonna, di Apollo per il Cristo giovane ecc.]

apollo belvedereariani
mater matutatraditio

In alto a sinistra: Apollo del Belvedere. In alto a destra: Il battesimo di Gesù con l'allegoria del fiume Giordano. In basso a sinistra: La Mater Matuta in atteggiamento di Madonna. In basso a destra: Il Cristo nella “tra­ditio legis” con le sem­bianze di Apollo e sovrastante l'allegoria del cielo. <<<

 

“Era tanta la premura dei Santi Padri nel rimuovere dalla vista dei fedeli le imma­gini profane che Clemente di Alessandria volle persino indicare quali siano le figure e le immagini adatte ai cristiani. Così stabilisce: - Non spade, non archi, non coppe, ma colombe, pesci e navicelle, ancore e lire porteranno incise nei sigilli -.

pesci e ancoralira
navicellacolombe

In alto a sinistra: Pesci e anco­re in un rilievo funerario. In alto a destra: Orfeo con la lira in un mosaico pavimentale. In basso a sinistra: La Navicella al Museo Pio Cristiano. In basso a destra: Colombe in un mosaico di Ravenna. <<<

Si tratta dei principali simboli paleocristiani, rappresentanti rispettivamente lo Spirito Santo, il Cristo attraverso l'acronimo ICHTYS, la Chiesa (navicella di Pietro) e la salvezza. La lira ricorda forse Orfeo (v. lib. II, cap. II).

“Ai giorni nostri invece è altamente da rimproverarsi la vanità o la superbia di coloro che appena si accingono a far qualche costruzione per uso sacro o caritativo, su­bito dispongono che vi si affiggano e vi campeggino le insegne dei propri stemmi, e li vogliono collocati non in un canto o in un fregio secondario, ma in un posto ben visi­bile ed eminente, e magari la spesa che quella sola fatture richiede supera quella con­sumata per tutto il resto della costruzione! Le persone pie sono veramente nauseate al­la vista di fastosi paramenti o di pianete [vesti cerimoniali del sacerdote] nei cui lembi estremi risplendono ricami con stemmi sormontati da corone o da trofei, ornamenti ed emblemi che nemmeno gli archi trionfali degli antichi portarono mai (pagg. 63-64).

La moda di esporre i propri stemmi nelle opere votive era universalmente diffusa tra le famiglie influenti dal tardo medio evo in poi. Seguono esempi di austerità fra gli antichi, poi l'autore conclude:

Non dubito che quelle insegne si facciano dipingere innocentemente e senza malizia, mi sembra però che convenga evitare anche il sospetto di vanità e di superbia, dal quale non mi sembra che essi possano sfuggire” (pag. 64)   <<<  [a indice]

                                                                                                     >>>  [a lib. II, 3]

Cap. VI: Del nudo

“Un requisito necessario del Bello, di cui sopra parlammo, è l'evitare ogni nudo che non sia strettamente richiesto dalla verità del mistero [= episodio di storia sacra] o che possa offendere la delicatezza d'animo e scemare la devozione degli osservatori. E da parte mia non ho mai potuto capacitarmi dell'artificio pittorico di rappresentare uo­mini o anche donne nude, dal momento che né gli uni né le altre vediamo girare in tal costume per le vie e per le piazze; e se anche qualcuno ciò vedesse, gli riuscirebbe certo sgradevole e ributtante. E non è poi cosa nuova il rivestire e velare le nudità, poiché già l'antica pittura dei Romani usava questa pratica, disdegnando il malvezzo dei Gre­ci, che si compiacevano di figure ignude [Plinio, 34, 5]. (…) Quindi appare ancora la sconvenienza di quelli che effigiano il divino Infante nell'atto di poppare così da mo­strare denudati il seno e la gola della Beata Vergine, mentre quelle membra non si de­vono dipingere che con molta cautela e modestia. Non pochi ritraggono poi nude persi­no le gambe di Santi e Sante, e tra loro li accostano in modo tale che si possa ridestare nell'animo qualche pensiero molesto. Questo fatto così disonorò presso i posteri un ar­tista di gran nome, che fu necessario togliere dalle sue tele quello sconcio [Un premio speciale a chi indovina chi era questo artista !] A riprovazione di tanta impudenza val la pena di riferire le parole di un Concilio [il Magontino]: - Proibiamo nel modo più as­soluto che nella chiesa vengano esposte immagini procaci, effigiate con soverchi leno­cinii d'arte più a scopo di mondana vanità che per eccitare la devozione -” (pag. 66)      <<<

Cap. VII: L'abbigliamento

“Nè basta evitare il nudo: occorre anche usare vesti convenienti a ciascuna perso­na (…) Non bisogna abbigliare i Santi con abiti già in uso presso l'antichità profana, né si debbono imitare le fogge del vestire dei Gentili: converrà invece, dopo aver bene studiato il vestire di ciascuno, nobile o plebeo, e le costumanze del tempo donde si de­sume l'argomento del dipingere, attenervisi scrupolosamente (…) né farà opera pia e seria il pittore che rappresenterà veli rigonfi ed agitati da venti in modo che la veste o­stenti grazie voluttuose. Non sarà invero cosa decente effigiare tra le cose sacre il ra­pimento di Proserpina o le Sabine tra le mani dei giovani Così pure, né gemme né per­le saranno da intrecciarsi tra i capelli di una Santa, visto che tali ornamenti sconverreb­bero anche a qualunque dama onorata delle nostre città. I pittori che in questi modi peccano, non solo ritraggono il falso col loro pennello e creano Santi superbi, vanitosi ed effeminati mentre tali assolutamente non furono, ma proclamano e approvano quel­le vanità che tanto furono biasimate dai Padri e dai Dottori nostri” (pagg. 66-67)  <<<

Cap. VIII: Le età

Dell'esattezza storica fa parte anche l'esatta raffigurazione dell'età apparente dei perso­naggi rispetto all'evento narrato.

Sacra Famiglia

Raffaello: Sacra famiglia. Madrid, Prado        <<<

“Ma anche Giuseppe, sposo della Madre di Dio, viene rappresentato in età avan­zata, mentre i sacri scrittori non di­cono affatto che allora fosse vecchio. Qualcuno allora po­trebbe dire: - Si deve forse abbandonare il modello tradizio­nale per mettere accanto alla Vergine un bel giovane o un uomo aitante? - Per nulla affatto lo si farà, perchè è troppo grave l'autorità di questa antica consuetudine e delle tradi­zioni ecclesiastiche, specialmente quelle che si appoggiano sopra misteri e serie ragioni, come avviene appunto nella tradizione relativa a San Giuseppe. Si imprese a ritrarlo co­me vecchio perchè ne risalti la santità della vita e la perfetta castità. Virtù che è più facile ritrovare nell'età senile che nel fiore degli anni.

San Sebastiano“Benchè convenga conservare questa veneranda tradizione, non debbono tuttavia i pittori alterare le età degli altri Santi come siamo so­liti vedere nelle rappresentazioni di San Sebastiano.        <<<

“Infatti quando egli colse la palma del martirio era già piuttosto vecchio; i pittori invece lo ritrassero giovane, per aver modo di sfog­giare la loro bravura artistica in un corpo pieno di salute e nudo. Ma i padri nostri, severi e santi uo­mini, non volevano che così fosse effi­giato un martire. Noi stessi ricor­diamo di aver visto di lui vecchio u­n'antica immagine sulla facciata del tempio che anticamente in Roma fu dedicato a questo martire.

“Tanto meno opportuno e conforme al vero è rappresentare giova­ne l'evangelista Giovanni nell'atto di scrivere l'Apocalisse sull'isola di Patmos: quando la scrisse era già vecchio. E' di tanta importanza la cor­rispondenza delle età che persino all'immortale Mi­chelangelo fu appo­sto a colpa l'aver scolpito il Salva­tore morto tra le braccia giova­nili del­la Madre. E non mancano di quelli che trovano anche troppo giovane l'età del Salvatore quale fu dipinto da Michelangelo nel Giu­dizio. E si sarebbe potuto anche dubitare se nella rappresentazione di quel Giudi­zio l'aspetto dei Santi sia di età media, come di fatto sarà. Ma i pittori o­bietteranno che tali questioni non appartengono all'arte e che quindi a loro sarà lecito riprodurre quelle sembianze che, model­late su età diver­se, sono da tempo accettate. (pag. 69)           <<<

Cristo del GiudizioPietà di San Pietro

Michelangelo: Cristo nel Giudizio Universale (a sinistra); la Vergine nella Pietà di San Pietro (a destra)        <<<

Insomma, la verità veicolata dall'arte non è solo quella “storica”. Ci può essere una verità dottrinale-ideologica (l'età di S. Giuseppe) o una verità iconografica (la riconoscibilità di un santo), entrambe avallate dalla tradizione.

Cap. IX: Il campo pittorico [= lo sfondo e i dettagli di contorno]

Non dev'essere fatto in modo da distrarre l'attenzione dell'osservatore dal soggetto cen­trale del dipinto.

“Si deve (…) altamente biasimare l'imperizia di quelli che, nella descrizione del campo pittorico, pongono gli accessori al primo posto e il tema essenziale dell'opera quasi lo velano e l'occultano. Volendo, per esempio, dipingere San Giovanni nel de­serto, lo mettono in un angolo oscuro e trascurato e riempiono la scena con animali, piante, rocce con varia prospettiva. Molto più opportunamente si sarebbe rappresentata quella varietà di scene in un'altra tavola, consacrando interamente la prima alla figura per cui era stata preparata. (pag. 70)

Paul Brill

Paul Brill: San Giovanni Battista        <<<

Qui il Borromeo condanna un'altra moda artistica del suo tempo: il paesaggi­smo minuzioso di cui erano specialisti i fiamminghi. Di questo genere in realtà era lui stesso appassionato, come dimostra l'ab­bondante presenza di esso nella sua colle­zione all'Ambrosiana. E non sempre rispet­tava il suo stesso precetto di non confondere il soggetto sacro col paesaggio, riservando­gli un'”altra tavola”: in diversi casi, come il San Giovannino di Paul Brill qui mostra­to, egli accetta proprio questa confusione.  <<<

“Mancanza ancor più grave sarebbe quella di chi, propostosi di dipin­gere una tavola da esporsi al culto in un tempio, ne deturpasse il meglio, in­seren­dovi una femmina lasciva, e attorno a quella disone­sta figura lavorasse con passione, oltre ogni necessità di narrazione, quando l'unica necessità, in quel caso, sarebbe di omettere quella fi­gura. Pertanto io non metterei in un simile quadro Susanna ignuda, benchè la storia ammetta quella nudità. Così pure condannerò quelli che, dipingendo la nascita della Vergine Maria, al mistero accennano quasi di volo e con trascuratezza, mentre ostentano abilità artistica nel ritrarre la suppellettile casalinga e la famiglia. Io credo che ciò faccia­no non perchè manchino loro pietà e fede, ma perchè non sono esperti in arte. Sorvolano ciò che era veramente difficile e consumano tutta la fatica nelle frivolezze. (pagg. 70-71)

Alessandro Allori

Alessandro Allori: Susanna e i Vecchioni, Digione, Museo Magnin        <<<

Tuttavia la precisione su questo punto non dev'essere esagerata e troppo rigida. L'autore fa l'esempio di un' “Adorazione dei Magi” di Tiziano acquistata da San Carlo e da lui espo­sta nella collezione dell'Ambrosiana:

“In un angolo inferiore di quella tela era stato dipinto un cagnolino con tale na­turalezza e leggiadria insieme quanto è u­manamente possibile con colori e pennello. Orbene, un austero e fanatico personaggio della corte del Cardinale subito ordinò che fosse cancellata la bestiola accovacciata nel cantuccio, e così andò perduto quel prodigio di arte. E sì che in quel quadro il cagnolino poteva starci benissimo, insieme alla torma di cavalli e cammelli e al numeroso seguito dei Re Magi (…) Si dice che quando Tiziano seppe della cosa, sospirando con le lacrime agli occhi esclamasse che non faceva meraviglia se gente ignorante di ogni arte avesse potuto commettere un simile sfregio. (pag. 70)

Sua Eminenza però dimentica di osservare (o forse non sapeva) che il cagnolino stava facendo pipì sulla parete della capanna, e anche questo non è “sfregio” da poco agli occhi dei tradizionalisti!
Comunque un recentissimo restauro ha eliminato la ridipintura facendo riemergere il cagnolino.
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Adorazione dei Magi

Tiziano: Adorazione dei Magi (particolare dopo il restauro), Milano, Pinacoteca Ambrosiana       

Adorazione dei Magi

Tiziano: Adorazione dei Magi (prima del restauro), Milano, Pinacoteca Ambrosiana        <<<

Cap. X: Difficoltà nel ritrarre i sentimenti dell'animo

“Ho spesse volte notato questo difetto nella nostra natura: essa rifugge dalle cose più difficili ancorchè nobilissime ed è proclive invece alle meno belle, essendo queste più facili. Per questo istinto naturale e per la debolezza dell'umana mente, avviene che, come gli antichi e sommi artisti posero ogni studio nel disegnare le teste, i nostri mo­derni, trascurando quella parte, usano impiegare tutta l'arte loro nelle altre parti. Non badando alla misura e alla proporzione dei corpi, non pochi anzi pongono tutto il loro lavoro nelle vesti e nella leggiadria dell'atteggiamento. Michelangelo superò gli antichi nel ritrarre i piedi, ma li eguagliò anche in ogni genere artistico. I nostri moder­ni, dei quali mi lamento, evitano di proposito tutto ciò che è difficile e nobile e si appi­gliano a ciò che è appariscente e superficiale.

“Gli antichi avevano tanta cura dei sentimenti dell'animo che Callistrato [autore greco di descrizioni di opere d'arte], nel descrivere la figura di un satiro così si espri­me. In quel marmo era insita e si vedeva rappresentata la passione di lui che danzava al suono dei flauti, così che si vedevano le vene tumescenti e il fiato che erompeva dal profondo del petto, il sasso gareggiare con la realtà e l'ansimare affannoso. (…) Prose­guendo poi Callistrato nella descrizione di quella statua, prese a insegnare quanto si deve curare dai pittori quella parte che oggi si trascura.

“Riporterò anche da Plinio [34, 8] qualcosa che possa in buona parte servire d'in­segnamento ai nostri artisti. Egli dice dunque che la statua di Paride dello scultore Eu­franore presentava contemporaneamente tre espressioni e quasi tre figure diverse: quella del giudice delle tre dee, quella dell'amante e quella del furente uccisore di A­chille.

“Io desidererei ardentemente che i nostri artisti avessero sempre sott'occhio que­sto modello (…) poiché l'arte del pittore non per altro fine fu inventata che per eccitare per suo mezzo i sentimenti nel cuore degli spettatori (…) Infatti, come già disse un o­ratore [Cicerone] non c'è altro essere vivente fuorchè l'uomo che possa comprendere la bellezza, l'eleganza e l'armonia delle parti, e perciò giudice di tali cose non può essere che lo stesso uomo. Di conseguenza è innato nell'uomo un desiderio di vedere, di co­noscere quelle cose che più gli appartengono nella disposizione e nell'armonia delle parti, perciò vuol vedere e contemplare le varie passioni dell'animo che gli sono pro­prie.

“Orbene, sì nobile e precipuo ufficio dell'arte, i nostri pittori e scultori pare non lo comprendano affatto, e quando si attentano in tale impresa appaiono inetti e falsi, come dimostreremo, e vogliono esprimere sentimenti del tutto sconvenienti, come quando, incapaci malgrado ogni sforzo dell'arte loro, di effigiare la Divina Madre do­lente ai piedi della croce e il suo volto pieno di dolore, si appigliano all'artificio di rap­presentarla svenuta; cosa facile a eseguirsi ma contraria alla testimonianza dei Padri. Molti ancora effigiarono gli altri Santi con espressioni per nulla convenienti alla loro santità, e così facendo peccarono gravemente contro l'autorità delle Sacre Carte e con­tro la tradizione. Gli Scrittori Sacri magnificarono i meriti e le virtù dei Santi; questi artisti invece ostentano e appioppano ai Santi passioni che mai non ebbero. Che se questi inetti non sapevano esprimere i sensi delle virtù, avrebbero almeno dovuto imi­tare l'accortezza di quell'artista greco che, non volendo fare apparire nella sua pittura un difetto degli occhi, lo soppresse e lo nascose. Non avrebbero insomma dovuto fare ciò che disperavano di poter fare; avrebbero dovuto nascondersi nel silenzio piuttosto che attribuire ai Santi quelle vergogne che a loro disonore ridondano dal linguaggio dei loro pennelli.

“Vorrei pertanto che i nostri artisti o s'impegnassero ad esprimere i sentimenti o, se a ciò non valgono, manifestassero in qualche modo sforzo e dolore, come fece quell'artista antico che, diffidando di riuscire ad esprimere i sentimenti del padre nel sacrificio della figlia, ricoperse il capo di Agamennone. Questo studio porterà grandi e nobili frutti. Infatti la pietà verso Dio e i Santi, la lode, l'irritazione, il timore, il dolore e la speranza non sono se non i sentimenti destati nell'animo dalle sacre immagini, le quali si potranno dire vive ed ispiratrici quando ecciteranno le nostre menti e le scuote­ranno quasi con un soffio vitale. (pagg. 71-73)

A confermare la forza persuasiva di un'immagine rettamente concepita, l'autore riferisce l'aneddoto edificante di una prostituta indotta a cambiar vita dopo aver visto in casa di un cli­ente il ritratto del filosofo Palemone.

Persuasione, ma anche, sulle tracce di Cicerone, conoscenza di sé: questi dunque sono i frutti positivi dell'arte. Ma qual è, esattamente, per il cardinale, il difetto della pittura dei suoi tempi? Forse quel pietismo filodrammatico e gesticolante che affollava tante pale d'al­tare? O l'accademismo dei manieristi attardati? Ritroveremo critiche simili nel cap. XII.

“Qualcuno potrà forse dire di non riuscire a esprimere i sentimenti e di essere impari all'impresa. Scusa veramente puerile che quel savio e prudente uomo che fu lo Speroni non avrebbe mai tenuta buona. [Sperone Speroni, letterato e filosofo padova­no, 1500-1588] Egli anteponeva l'Apollo che è in Vaticano a Roma [quello detto “del Belvedere”] al gruppo del Laocoonte, perchè diceva che all'artista era stato più facile esprimere dolore, anzi un insieme di dolori, che una vivacità lieta e piacevole. Infatti la passione dell'animo talora si manifesta all'esterno con segni così chiari ed evidenti che quasi si vede del tutto svelata, mentre alle volte è così velata dalle apparenze che sfug­ge all'occhio del corpo, e solo con la mente e con la fantasia si può intravvedere. L'au­dacia, la prontezza, l'ingenuità dell'animo, la venustà e la dignità non si possono perce­pire, appunto, che con l'immaginazione. (pag. 74)

Indipendentemente da quest'ultima questione, il cardinale introduce con questo capito­lo argomenti importanti. Esprimere i sentimenti dell'individuo è un problema che non sempre si pone all'artista. Non si è posto in quelle stagioni in cui la figura umana era intesa soprat­tutto come portatrice di un ideale di bellezza, di santità o comunque di un valore trascendente l'individuo stesso (Grecia classica, alto medio evo cristiano, civiltà primitive in genere). Si è posto invece quando l'individuo reclamava i suoi diritti: è il caso della Grecia alessandrina e dell'Europa borghese dal tardo medio evo in poi; una stagione che dura tuttora, anche se ne­gli ultimi secoli i risultati artistici sono difficili da interpretare.

In quest'ultima stagione l'epoca in cui viveva il Borromeo ha un ruolo chiave. Mentre l'ormai lunga tradizione ritrattistica lo sviluppava in modo empirico, lo studio dell'espressio­ne facciale e degli stati d'animo di cui essa è veicolo stava assumendo carattere scientifico con la fisiognomica, una disciplina nata con Leonardo e destinata a sviluppi contraddittori (non sempre recepita dagli artisti, essa da un lato s'integrò nelle discipline medico-psicologi­che ma dall'altro dettò teorie arbitrarie come quelle di Lombroso o Gobineau). Intanto si ri­scopriva, con Teofrasto, lo studio psicologico dei caratteri; e non dimentichiamo che in questo stesso periodo sta nascendo il teatro moderno. Tutto insomma porta artisti e spettatori a ritrarre (o a veder ritratti) “i sentimenti dell'animo”.         <<<

 

Messerschmidt
Franz Xaver Messerschmidt (1736-1783) si dedicò in particolare alle alterazioni patologiche della fisionomia umana
       
Lavater
Una tavola del "Saggio di fisiognomia" di Johann K. Lavater, opera che intendeva stabilire un ponte tra la fisiognomia "scientifica" e l'arte
       
Riccardo III
L’attore settecentesco David Garrick nella parte di Riccardo III nell’omonimo dramma di Shakespeare
       
Leonardo
Leonardo: studi di volti fortemente connotati nell'espressione e nei tratti individuali, secondo l'interesse fisiognomico tipico di questo artista
       
Lombroso
Due tipiche fisionomie criminali secondo Cesare Lombroso
       
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L' “Apollo”del Belvedere (fig. 1) e il “Laocoonte” (fig. 3) possono essere pre­si come i prototipi delle due tendenze che dal tardo medio evo in poi si manifestano nell'arte europea. La prima, più legata all'ideale classico, vede nella figura umana l' “immagine di Dio”, per cui tende a non individualizzarla e a farne l'immagine dell'umanità redenta, il cui modello è, ovviamente il Cristo (fig. 4, il “Beau Dieu” di Amiens, fig. 5, il Risorto di Piero della Francesca). La seconda, più innovativa, ma egualmente radicata nell'antico, cerca inve­ce l'espressione individuale e trova un banco di prova nel tema del compianto sul Cristo mor­to (fig. 6, un personaggio di Niccolò dell'Arca, fig. 7, un particolare di Giotto agli Scrovegni). Il tema francese dei “pleurants” (fig. 8), sembra trarre profitto dall'artificio di coprire il vol­to dei dolenti per aumentarne l'espressività.­

 

Apollo del Belvedere
Fig. 1: Apollo del Belvedere
Laocoonte
Fig. 3: Laocoonte
Perseo
Fig. 2: Perseo di Canova
Niccolò dell'Arca
Fig. 6: un personaggio di Niccolò dell'Arca
Beau Dieu di Amiens
, Fig. 4: il “Beau Dieu” di Amiens
Giotto
Fig. 7: Giotto, Compianto di Cristo, Padova, Cappella degli Scrovegni
Resurrezione di Piero della Francesca
Fig. 5: Resurrezione di Piero della Francesca
pleurant
Fig. 8: una figura di "pleurant" francese
Morandi
Fig. 9: Morandi, Natura morta
Tiziano
Fig. 16: Ritratto di Tiziano
Carrà
Fig. 12: Carlo Carrà, La Musa
Géricault
Fig. 11: Théodore Gèricault, Monomane dell'invidia
De Chirico
Fig. 13: De Chirico, La partenza degli Argonauti
Giacometti
Fig. 10: Giacometti
Mondrian
Fig. 14: Mondrian, Composizione con piano rosso grande, giallo, nero, grigio e blu, 1921
Munch
Fig. 15: Edvard Munch, L'urlo

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Ma il Borromeo nota anche che è più facile rappresentare sentimenti forti e dolorosi che non “una vivacità lieta e piacevole”. Questo problema è affrontato alla grande dai ritrat­tisti, che cercano nei loro modelli ogni sfumatura, smentendo in parte lo scetticismo del cardinale sulla possibilità di raffigurare senti­menti non estremi: si osservi alla fig. 11 la follia rattenuta dei personaggi di Géricault. E' vero però che col tempo la figura umana perde la sua tradizionale cen­tralità nell'interesse degli artisti. Il neoclassicismo riprende per l'ultima volta il modello apol­lineo con la formula winckelmanniana della “nobile semplicità e tranquilla grandezza” (for­mula che richiama la “vivacità lieta e piacevole” dello Speroni) e il “Perseo” del Canova, fig. 2, è quasi una replica dell'Apollo del Belvedere. Passata questa stagione, la figura diven­ta sempre più elemento di paesaggio (impressionisti), oggetto di studio fra gli altri (cubisti) o addirittura emblema di dolore e disagio esistenziale (Gia­co­metti, fig. 10, Munch, fig. 15). Se non vogliamo prendere troppo sul serio le idealizzazioni “metafisiche” tipo Carrà (fig. 12) o De Chirico (fig. 13) dovremo piuttosto cercare l'ideale apollineo in certe composizioni astrat­te (fig. 14: Mondrian) o negli oggetti di una “natura morta” (fig. 9: Morandi).     <<<

Cap. XI: Al pittore è necessaria anzitutto la pietà

“I colori son quasi parole che, percepite cogli occhi, penetrano nell'animo non meno delle voci percepite dalle orecchie (…), onde avviene che anche il volgo e la moltitudine ignorante comprendano il linguaggio della pittura, e con non minore effi­cacia rispetto agli uomini prudenti (…). E come riesce vano lo sforzo dell'oratore per commuovere gli animi se prima non sarà lui stesso commosso, così io penso che ai pittori avvenga alcunchè di simile, di modo che, se essi prima non si saranno sforzati di eccitare nel proprio animo i sentimenti, non potranno trasfondere nelle loro opere ciò che essi non sentono, cioè pietà e nobili sentimenti dell'animo. (pagg. 75-76)

Seguono “exempla” tratti dall'antichità: i lirici vagavano per selve e monti, Euripide si appartò in una caverna “per ricavarne sensazioni di mestizia, paura, con altre forme di affanno e atrocità”

“I più celebrati scultori, paghi di un vitto scarsissimo, con lunghi digiuni tempra­rono l'animo, onde più facilmente potessero concepire quelle passioni. E io non temo di affermare che i tre artisti che scolpirono il famoso gruppo del Laocoonte e ne e­spressero i dolori non si sostentassero, al pari degli autori di tragedie, se non di legumi: duro sostentamento che Plinio riferisce essersi usato fra gli autori di grandi opere d'ar­te. Comprendevano benissimo che l'astinenza e i digiuni sono congiunti a dolore e la­crime, mentre le laute imbandigioni si accompagnano al riso. Nell'ottavo concilio ecu­menico poi vi è un passo che stabilisce e decreta che non si adibiscano a dipingere im­magini sacre quegli uomini che furono dall'autorità della Chiesa condannati e privati della partecipazione ai sacri riti. Ed è credibile che i Padri fossero indotti a quel decre­to da un duplice motivo: sia perchè uomini contaminati non devono trattare cose divi­ne essendosi resi indegni di tale funzione, sia perchè, pieni di vizi e di colpe quali so­no, non si vede come possano infondere nelle immagini quella pietà e quella religione che essi non hanno. (pag. 76)

Segue un elogio di Annibale Fontana, descritto come artista solitario e taciturno, dedito all'arte solo per amor di Dio, non servile verso i potenti e generoso coi poveri dei giusti com­pensi che chiedeva. Un'analoga generosità si attribuiva anche a Michelangelo, del quale si narra che, non avendo denaro da prestare a un amico indigente, eseguì estemporaneamente un disegno e glielo donò perchè lo vendesse.

Cap. XII: Delle figure atletiche        <<<

Tibaldi

Questa muscolosa “Adorazione del Bambino” sembra possedere tutti i difetti che il Bor­romeo rimpro­vera agli artisti in que­sto capitolo. Pecca­to che sia opera proprio di quel Pel­legrino Tibaldi in cui San Carlo ri­poneva tutta la sua fiducia        <<<

“Ma come potranno mai i nostri artisti arrivare ad esprimere sensi di pietà se, completamente degeneri e lontani dalle costumanze di quegli antichi, nessuna cura pongono nel vivificare le loro immagini coi sentimenti di timore, di paura, di maestà, di religione, a seconda che lo richieda la natura del mistero? Essi poi foggiano perso­naggi virili così svenevoli e delicati che si scam­biano benissimo per figure femminili. Nella pittura, co­me nelle lettere e negli altri campi si deve curare che l'artificio non tolga la naturalezza dell'immagine. E non si deve ricercare la bellezza e l'eleganza fino al punto di trascurare la somiglianza, la quale, come tiene il primo posto nel ritratto del volto, così va pure serbata nelle membra corporee e nelle altre figure.

“Narra Teodoro che un artista impudente, volendo dipingere l'immagine del Sal­vatore, fece quella di Giove, e che per giusto castigo la sua mano sacrilega d'improv­vi­so s'irrigidì. Altri artisti invece, formano talora dei corpi così robusti e truculenti, quasi volessero dipingere non Santi o Sante ma atleti e creano dei volti così accigliati e seve­ri da ispirare tutt'altro che sentimenti di pietà. Non pochi, ancora, fanno ostenta­zione di singole parti del corpo, delle articolazioni, della flessione delle masse, così che pare vogliano esibire delle tavole anatomiche per la cura delle ferite piuttosto che incita­menti alla religione. E a quei corpi imprimono delle movenze, e nell'espressione una tensione e una violenza che non si addirebbero neppure a un soldato (...)  

“Poichè tutti i Santi condussero una vita morigeratissima, non si addice affatto dipingere i loro volti rosei e paffuti come si dipingerebbe un tipo ben pasciuto all'oste­ria. Dal quale vizio non va immune Michelangelo, avendo asperso di troppo rossetto le guance del Principe degli Apostoli. Tramandarono i suoi contemporanei che egli cerca­va di sottrarsi alle quotidiane osservazioni su quel fatto dicendo che l'Apostolo era ar­rossito per la tristizia di quei tempi, che non erano certo i più felici per la Fede Cat­tolica. Ma questa scusa non si deve affatto accettare, poiché non è decoroso, per difen­dere sé stesso, riprendere la vita e i costumi corrotti dei più. Quel sommo Maestro avrebbe dovuto emendare i difetti della sua arte, non i costumi del popolo e della corte di Roma.

CagnacciPietro

Andiamo, Eminenza, un po' di senso ironico! A parte ciò, l'aneddoto sem­bra costruito in funzione puramente polemica, perchè il S. Pietro del “Giudizio” non appare certo rubi­condo. Piuttosto, esso sembra il pro­totipo di quei personaggi accigliati con cui il cardinale se la prende, co­me, più in generale, si può far risali­re al Buonarroti o ai suoi imitatori l'esibizione di muscoli e posizioni ar­dite. I volti paffuti sembrano invece corrispondere a una moda raf­faellesca, rappresentata per esempio dalla Vanità di Guido Cagnacci.        <<<

“Lisippo rimproverava agli scultori ignobili vissuti prima di lui, che nel realizza­re le statue erano soliti guardare aspetti e volti degli uomini che avevano vivi davanti agli occhi, mentre dovevano piuttosto badare alla convenienza, al decoro e a quale fi­gura si addicesse ad ognuno (…) Ma i pittori recenti purtroppo non dipingono le im­magini né come furono né come dovrebbero essere. (pagg. 77-78)   <<<

Abbiamo già visto qual è, per il cardinale, il “dover essere” dell'arte.

Cap. XIII: Delle figure immorali

“Se non vedessi i tempi nostri essere diventati alquanto migliori delle età prece­denti, vorrei provarmi ora ad aguzzare questo mio stilo spuntato contro quelli che ama­no ornare le loro stanze con statue e pitture lascive e con voluttà vanno in cerca di quei ritrovati demoniaci. Infatti, quasi non bastasse la fetida e cancrenosa peste di uomini perduti e quasi non fosse sufficientemente innata l'impura concupiscenza, essi amano fomentarle e coltivarle, quasi vogliano, come ben disse un tale, stuzzicare l'appetito con degli stimolanti. Per conto mio però faccio minor colpa ai compratori di simili im­magini che non a quelli che le vanno spacciando. Questi infatti per sordida cupidigia di guadagno sarebbero pronti a fabbricarne anche di più sconce, mentre i compratori, alfi­ne accortisi del male, dello scandalo e della vergogna, mettono da parte quelle opere per non venire essi stessi privati dei santi sacramenti, se continuano ad offrire incentivi ai vizi e a procacciarsi di per sé occasioni di peccato.

“Racconta Lampridio, nella vita dell'imperatore Severo [Alessandro], che quel principe nel suo larario [locale destinato alle divinità familiari] aveva raccolto le im­magini di quelle persone di cui egli soprattutto ammirava la gloria e la santità di vita. Vi erano le immagini di Apollonio [di Tiana, filosofo e taumaturgo, sec. I a.C.], di Cri­sto, di Orfeo, di Abramo e di molti altri ch'egli poneva nel numero degli dèi. In un se­condo larario, più oscuro e meno degno, collocò invece le immagini di Virgilio e Cice­rone. E la progenie cattolica, i discepoli del Salvatore, vorranno porsi davanti agli oc­chi Amorini e Veneri nude? Non soltanto dall'autorità ecclesiastica, ma da quella civile stessa e a viva forza si deve provvedere a che queste immondizie dalla società umana.

Correggio

La camera affrescata dal Correggio per la badessa Giovanna (Parma, convento di S. Paolo) rappresenta proprio ciò che il Borro­meo non vorrebbe vedere in un ambiente cri­stiano. A chi fra i due ecclesiastici da­remo ra­gione? Non abbiamo dubbi invece sull'al­tro ti­po di oscenità che il cardinale condanna:  [<<<]

“I prìncipi dovrebbero poi fare scomparire un'altra piaga che offende e deturpa u­n'arte così nobile (…): cose già sacre e donate ai templi noi osiamo portarle fuori e a­dibirle a usi profani. I potenti che ciò fanno possono sicuramente con autorità e forza frenare lo sdegno del popolo che protesta contro quegli insulti alla Divinità e alla Pa­tria, e così spogliare i templi dei loro ornamenti; ma non potranno certamente turarsi le orecchie perchè non sentano lamenti e querele delle città stesse; e ciò non avverrà in alcun modo e per nessuna forza. (pagg. 79- 80)        <<<

ApoxiomenosEcco dunque la nuova oscenità: il collezionismo rapace e deva­stante di nobili e cardinali che asportavano quadri e arredi dalle chiese per adornarne i loro palazzi. Il fatto che il Borromeo metta le due pra­tiche sullo stesso piano e che per entrambe invochi l'intervento dell'au­torità civile ci fa sospettare che proprio la seconda fosse il vero oggetto del capitolo, visto che la prima era più prevedibile. Nuovo appare il ri­chiamo al valore delle opere d'arte come bene pubblico e patrimonio civile, che la stessa società civile (la Patria) ha il diritto-dovere di tu­telare. Su questa linea è anche l'”exemplum” finale, in cui Tiberio, che aveva trasportato nella sua camera la statua dell'”Apoxiòmenos” sot­traendola alla collocazione pubblica in cui si trovava, fu costretto dallo sdegno popolare a rimetterla al suo posto.    <<<

 

Libro II

Cap. I: Le immagini della Santissima Trinità

Il capitolo inizia con l'esortazione agli artisti perchè, sull'esempio di Michelangelo, stu­dino la letteratura, soprattutto quella sacra, così da conoscere in prima persona gli argomenti e i soggetti che dovranno trattare.

“Un pittore che volesse dipingere l'Eterno Padre, se effigiasse un vecchio dalla canizie veneranda, di alta statura e con la barba fluente e credesse con una simile figu­ra di aver ritratto al vero la divina Persona, convinto che in cielo l'Eterno Padre abbia un corpo simile al nostro, non sarebbe meritevole soltanto di riso e disprezzo, ma an­che di castigo. Non è tuttavia da riprovarsi una simile rappresentazione, e che l'Eterno Padre possa raffigurarsi come persona umana lo prova il fatto che quella prima, eccel­sa e divina Persona si presentò a conversare con Adamo in tal forma. Anche a Daniele Dio apparve in forma umana, e forse era la seconda persona della Trinità che si mani­festava in tal forma per dare un segno di ciò che sarebbe stato di lì a non molto la cau­sa della nostra redenzione. Lo Spirito santo poi si manifestò ora sotto forma di colom­ba, ora sotto forma di lingue di fuoco, e perciò non sarebbe da rimproverare che in tal modo lo ritraesse (...)

“Oltre le ragioni e le autorità che riporteremo in seguito, qua e là le Sacre Carte attribuiscono membra umane a Dio che, come insegnano le stesse Scritture, sappiamo non avere corpo; ma quelle espressioni sono dette in senso metaforico e hanno un sen­so recondito, di gran lunga diverso da quello che appare a prima vista. Si aggiunga l'autorità dei Padri, che affermarono la Trinità potersi così dipingere per similitudine o per una certa analogia.

Insomma, bisogna che l'artista sia consapevole del valore allegorico e metaforico delle figure che dipinge. Salva questa consapevolezza, si potranno rappresentare le tre Persone nei modi tradizionali.

“Che se accade di dipingere qualche apparizione di tale mistero, si potrà certo ri­trarlo come si manifesta. La figurazione viene allora così concepita da mostrare come fu talvolta veduta. E come è credibile e comunemente ammesso che San Paolo abbia visto la figura del Salvatore quando fu da lui rimproverato, e Santo Stefano abbia avu­to la stessa visione quando fu confermato in grazia, così moltissime altre visioni mo­strarono la figura ora dell'Eterno Padre, ora dello Spirito Santo, in modo tuttavia, come si può credere, che San Paolo e Santo Stefano abbiano visto la persona del Salvatore gloriosa e rifulgente nell'umanità assunta, mentre la persona del Padre Eterno e dello Spirito Santo si sia manifestata o assumendo qualche corpo o attraverso qualche figu­razione della mente umana.

“(...) Alcuni santi Padri hanno dichiarato che quando Dio appariva nell'Antico Te­stamento, quella non era la persona dell'Eterno Padre, né quella dello Spirito Santo, bensì quella del Figlio (…) E dopo di loro Sant'Antonino consigliò che qualora si do­vesse raffigurare il mistero della Trinità si lasciasse da parte quella mostruosa deformi­tà per cui si pongono tre capi su un solo corpo. Invero, oltre al fatto che una simile fi­gura ripugna all'ordine naturale, si deve evitare il plagio dell'antichità pagana, che at­tribuiva due volti a Giano, uno di fronte e l'altro a tergo. (pagg. 81-83)

Breviario Grimani
Fig. 1 - Dal Breviario Grimani
Raffaello
Fig. 2 - Raffaello, Stanza della Segnatura
Fonte incerta
Fig. 3 - Fonte incerta
Michelangelo
Fig. 4 - Michelangelo, Volta della Cappella Sistina (nel riquadro Poseidone della Fontana di Trevi)
San Vitale, Ravenna
Fig. 5 - Mosaico in S. Vitale, Ravenna
Raffaello
Fig. 6 - Raffaello, Trasfigurazione
Duomo di Milano
Fig. 7 - Da una vetrata del Duomo di Milano
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Il mostruoso dio trifronte (3) fu condannato da Urbano VIII nel 1628, pochi anni dopo l'uscita della presente opera. Ma il cardinale non fa parola delle altre rappresentazioni tra­dizionali della Trinità, per esempio sotto la forma dei tre misteriosi ospiti di Abramo in Gen. 18 (5) o come Padre e Figlio specularmente uguali con la colomba in mezzo (1). Sembra che egli favorisca la rappresentazione separata delle tre Persone. Forse ha in mente il famoso af­fresco di Raffaello in cui l'unità e la distinzione delle Persone vengono rese con lucida evi­denza (2). Il Padre (4) è modellato sullo Zeus olimpico o, nella versione michelangiolesca, su un tempestoso Poseidone (4a). Il Figlio “rifulgente nell'umanità assunta” è ben espresso dal Tra­sfigurato raffaellesco (6; ma su di lui si veda anche il capitolo seguente). Per lo Spirito Santo qualunque colomba va bene.     <<<

Cap. II: L'immagine del Salvatore

“A me pare che i nostri antichi nel fare l'immagine del Salvatore avessero sensi molto più religiosi che gli artisti d'oggi. Essi infatti usavano simboli o geroglifici che rendevano più venerando il mistero. (pag. 83)

Tali sono il pellicano che lacerandosi il petto col becco ne fa sprizzare il sangue [è una leg­genda riportata nei bestiari me­dievali: si diceva che in quel mo­do l'uccel­lo riuscisse a nutrire i suoi piccoli anche in mancanza di prede e si vedeva in questo ge­sto un'analogia col sacrificio del Cri­sto]; l'agnello col bastone da pastore o col vessillo crociato [l'“Agnello di Dio”]; l'uo­mo con una pecora sulle spalle, allusivo sia al Buon Pastore che alla parabola della pecorella smarrita: a quest'im­magine è legato l'uso di tessere in lana anziché in altri materiali il pallio che il vescovo porta sulle spalle.

agnello
Fig 1: L’Agnello di Dio nella Basilica Eufrasiana di Parenzo
pellicano
Fig. 2: Il Pellicano in un paliotto del sec. XVI
Orfeo
Fig. 3: Orfeo in un mosaico pavimentale romano
Giona
Fig. 4: Giona rigettato dal pesce nelle catacombe romane di Marcellino

“In non pochi cimiteri, per esempio quello di Zefirino in Roma, si ve­de la figura di Orfeo in mezzo alle fiere; e po­tremmo dubitare che u­na tal figura sia imma­gine o sim­bolo del Sal­vatore, se non constasse per prove si­cure che quell'immagine non è profana ma sacra. Clemen­te alessandrino scrisse che veramente il Cristo è il nostro Orfeo che ammansì le bestie feroci (…) Nel­le catacombe o sepolcreti (…) si vede scol­pita l'immagine di Giona gettato in mare e ingoiato dalle fauci del cetaceo, con la qua­le figurazione si signi­ficava la speranza del­la nostra resurrezione e nello stesso tempo la morte e la resur­rezione del Salvatore (…)
  
<<<  [simboli paleocristiani]        >>>  [attributi mariani]

“Nello stesso cimitero di san Zefirino si vede dipinto il Salvatore in figura di pa­store che, seduto su un sasso, tiene in mano la zampogna e sembra confabulare con le pecorelle circostanti. Ma di tutte queste figurazioni pastorali simboleggianti il Salvato­re, la più bella è quella che fu ritrovata nel cimitero Ostriano. E' scolpita in una pietra di elegante fattura e contiene tre figure: un pastore che, appoggiato al bastone, veglia a custodia del gregge; un secondo che porta sulle spalle un agnello; e un terzo nell'atto di parlare con una pecora che, protesa la testa, pare comprendere la voce del suo pastore. Con queste tre immagini della persona di Cristo l'antichità volle appunto ricordare i tre precipui doveri del pastore d'anime [cioè la vigilanza, il sostegno e la predicazione].

Buon pastorePietro

Due immagini del “Buon pastore” analoghe a quel­le descritte dal Borromeo. A sinistra, mosaico nel mausoleo di Galla Pla­cidia a Ravenna. A destra statua nel museo Pio cristiano in Vaticano                                 <<<

“Oltre a queste figure simboliche, l'antichità fece ancora ritrarre i volti santi e la sacra sin­done, alla quale specialmente volle prestare culto e onore per la vetustà e per altre gravi ragioni”.

Qui l'autore affronta il controverso problema delle immagini “achiròpite”: testi apocrifi e leggende po­polari parlano di immagini del Cristo “non fatte da mano d'uomo” (è questo il significato del termine greco “acheiropòietai”) o perchè prodottesi mira­colo­samente o perchè Gesù stesso le avrebbe lasciate imprimendo i tratti del suo viso su un tessuto. L'esemplare più noto di questo secondo tipo è la Sindone, “scoperta” nel sec. XIV; ma prima di essa era molto venerato un fazzoletto (in greco “mandylion”) su cui Gesù avrebbe impresso il suo volto su richiesta del re orientale Abgar, e del quale esistevano diverse copie, tutte considerate achiropite. A volte questo panno viene identificato con quello di Veronica, che, secondo un'altra nota leggenda, avrebbe asciugato il volto di Gesù sulla via del Calvario, anche in questo caso ricavandone un'immagine. Il Borromeo accetta i dubbi espressi da molti sull'autenticità di quelle immagini, tuttavia...   <<<

VeronicaMandylionSindone

A sinistra: la Veronica di Hans Memling. Al centro: Il"Mandy­lion" conservato in Vaticano. A destra: il volto della Sindone

“Non è qui il luogo per tentare di definire in che modo e con quale arte sia stata fatta [l'immagine per Abgar]. Fuori di ogni dubbio è che fu eseguita al vero e con som­ma cura. Oltre queste immagini, che diremmo mirabili, ossia non fatte senza miracolo, vi fu anche qualche pittore che ritrasse al vero l'immagine del Salvatore, come attesta Eusebio, e Niceforo aggiunge che san Luca fu il primo a dipingere in modo meravi­glioso l'immagine di Cristo e della Beata Vergine. Ecco le sue parole: - E l'apostolo Luca, accintosi all'impresa, lo dipinse accuratamente con le sue proprie mani- (p.85)

Mirabile è anche la diplomazia lessicale dell'autore, che lascia nell'ambiguo se il “mi­racolo” sia opera di Dio o dell'artista. Quanto alle sue fonti, Eusebio da Cesarea è uno sto­rico-apologista del tempo di Costantino, che riteneva lecita, in certe situazioni, la menzogna; Niceforo Callisto è uno storico ecclesiastico del XIV secolo.                    <<<

XP=monogramma di CristoCelestino VDal nome del Cristo gli antichi ricavarono anche dei mo­no­grammi, introducendo un uso ripreso poi dai papi. Un'altra usanza invalsa tra i papi è quella di esporre negli edifici e su­gli stessi paramenti sacri i propri emblemi gentilizi: usanza che l'autore condanna, come ha già fatto al cap. V del libro I.

<<< [a indice]  >>>  [a libro II, 3]

“Come si farà per le immagini della Vergine Maria, riporteremo qui ora, per uso dei pittori, la descrizione che Niceforo fa (Hist. Eccl., I, 40) della figura del Salvatore: - Le fattezze dunque di Nostro Signore Gesù Cristo come ce le tramandarono gli anti­chi e per quanto è possibile ritrarre con parole informi, furono press'a poco queste. Fu di aspetto nobile ed espressivo. L'altezza della sua persona era di circa sette palmi. A­veva i capelli tendenti al biondo, non troppo folti e leggermente ondulati. Le sopracci­glia nere, non però arcuate. Dagli occhi chiari profluiva una mirabile grazia; erano pe­netranti, e il naso abbastanza lungo. La barba, bionda e non troppo fluente; piuttosto lunga era invece la capigliatura. Né ra­soio né mano alcuna d'uomo, tranne quella della madre quando era in tenera età, corse sulla sua testa. Il collo era alquanto inclinato, in modo che la linea del corpo non fosse troppo rigida e tesa. Aveva la faccia del colore del frumento, non rotonda né appuntita ma, come quella di sua madre, alquanto estesa all'ingiù e un po' vermiglia; spirava gra­vità e prudenza miste con dolcezza e con una placidità del tutto priva d'iracondia. Fu insomma somigliantissimo in tutto alla sua di­vina e immacolata Genitrice. - I pittori pertanto, nel fare le immagini di Cristo e di Maria, vorrei si ricordassero di questa sola cosa che l'antichità unanime credette e i santi Padri tramandarono: che la faccia del Salvatore era ammirabile per la sua perfetta somiglianza con quella della Madre, così che chiunque guardi la Madre o il Figlio po­trà facilmente riconoscere dalla Madre il Figlio e dal Figlio la Madre. (pagg. 84-86)

In chiusura l'autore cita i versi di Dante (Par. XXXII, vv. 85-87) in cui ritorna questo concetto: “Riguarda omai ne la faccia ch'a Cristo / più si somiglia, chè la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo”.

cattedrale di PiacenzaL'insistenza sulla somiglianza Madre-Figlio è legata probabilmente all'idea che la Ma­dre rappresenti la Chiesa e che la Chie­sa sia l'aspetto visibile ai mortali del mistero di Dio, per cui tra l'uno e l'altra ci dev'essere perfetta identità. Per il resto la descrizione rispecchia i lineamenti di Gesù come furono rappresentati dal V secolo in poi. L'allusione al mancato taglio dei capelli è probabilmente un ricordo (non so quanto consa­pevole per uno scrittore medievale) del “nazireato”, una forma di auto-consacrazione dei giovani ebrei, che richiedeva anche quella pratica. Il particolare del collo inclinato è forse desunto a orecchio da un precetto artistico secondo il quale il Crocifisso andava dipinto in quel modo; precetto che sembra riflettersi anche in ar­chitettura nel lieve disassamento che si nota nella pianta di certe chiese tra il capocroce e la navata o tra questa e i bracci del tran­setto. Esempi di questa pratica si notano nelle cattedrali di Piacen­za (qui a fianco) e di Cremona.           <<<

 

 

 

Cap. III: Le immagini del Crocifisso

“Nel dipingere Cristo in croce, i pittori cristiani ne varia­rono in molti modi la figurazione. Infatti nei vetusti monumen­ti talora l'immagine del Salvatore lo rappresenta già morto, al­tre volte invece è ancora in vita. Spesso lo confissero con quat­tro chiodi, figurazione che più piacque all'antichità, ed una di tal genere si vede nella cappella di papa Giulio I presso Ponte Mil­vio, non lungi dalla chiesa di San Valentino martire, e qui il Salvatore indossa una veste senza maniche. Anche altrove le immagini più antiche del Crocifisso hanno quattro chiodi, così disposti che due trapassano le mani e due i piedi. Ma i piedi poggiano su un supporto (…)

Crocifissione

Crocifissione analoga a quella descritta dall'au­tore. Roma, S. Maria Anti­qua, sec. VIII           <<<

E qui comincia una disquisizione sull'esistenza o meno del supporto, questione che il cardinale conclude in senso positivo sull'autorità di Gregorio di Tours, storico del VI secolo. E' un'altra di quelle questioni di cui un lettore d'oggi non percepisce l'importanza, ma che per il nostro autore riguardano quella “verità storica” che l'artista deve rispettare.

“Alcuni stimano anche che le mani del Salvatore non siano state trafitte nelle pal­me, ma dove il braccio si congiunge con la mano, altrimenti non si sarebbe potuto reg­gere suo il peso. Tuttavia questa è consuetudine comune, e la tradizione della Chiesa si dovrà conservare senza introdurvi alcuna novità [in omaggio ai dettami tridentini ma in barba alla verità storica!]. Del resto anche nel Vangelo si legge che Cristo ha mostrato le mani e il costato. Dagli artisti recenti fu poi introdotto il costume di mostrare i due la­droni non confitti con chiodi ma legati con funi, il che contrasta con l'autorità delle Sa­cre Scritture, poiché dice chiaramente San Matteo che i ladroni furono crocifissi col Salvatore (…) E il buon ladrone, al dire di Ilario e Agostino, dovrà dipingersi a destra.

crocifissioneSulle varie forme che gli artisti hanno dato alla croce, l'autore rimanda a “due scrittori recenti che ne hanno dato notizie copiose” senza citarli in nota.

croce gigliata“Dal canto nostro presentiamo una sola forma di croce, che fu trovata non molto tempo fa nell'India orientale vicino al sepolcro di San Tommaso. Quelli che la videro riferirono che tale croce nelle estremità finiva in gigli e fiori, ed è credibile che quella croce sia stata fatta nei primi tempi, senza dub­bio con questa allegoria, come se i santi uomini di quel tempo volessero si­gnificare che la croce del Cristo, per i trionfi dei martiri, era fiorita e verdeg­giante. E sulla croce era delineata una colomba. <<<

“L'immagine di questa croce mi rievoca l'immagine di un'altra croce che vidi altrove. La forma era siffatta. Il Salvatore pendeva dalla croce nudo fino alla cintola, aveva un supporto sotto i piedi e quattro chiodi, con candide colombe dovunque le membra del Salvatore lasciavano qualche spazio libero, per indicare, io penso, l'innocenza dello stesso Salvatore e la pu­rezza delle anime che lo seguono.

Si tratta con ogni probabilità dell'immagine musiva nell'abside della chiesa di S. Clemente a Roma, risalente al sec. XII. Anche in questo caso la croce “fiorisce” in quanto è inserita in una serie di girali arborei che richiamano l'Albero della Vita. Il numero delle colombe, dodici, fa pensare agli apostoli.        <<<

“(...) E fu sì grande la pietà e la reverenza degli antichi cristiani verso il sacro se­gno della croce che non vollero fosse dipinto o collocato né sul suolo né in alcun luogo sordido, né mai lo si poneva in un luogo qualunque ad impedire brutture, cosa che non deve avvenire, e che non avvenga fu decretato dall'autorità del Concilio Costantinopo­litano [le stesse raccomandazioni nelle “Instructiones” di S. Carlo, Lib. I cap. VI] (…) An­zi, S. Asterio, vescovo di Amasea, nel condannare le vesti superbe e lussuose, dice che non le si deve fregiare con immagini e segni di cose sacre e divine, anche se ciò sembri che si faccia a titolo di pietà [altro appello del cardinale contro l'esibizionismo degli eccle­siastici; si vedano anche Lib. I cap. V e Lib. II cap. II]. Tuttavia l'imperatore Costantino, per incitare i suoi soldati alla religione e alla pietà, comandò che fregiassero le armi col segno della croce, e ciò fu da quel principe fatto con lode e rettitudine. (pp. 87-89)

rosa camunasvastica

Due croci “fortuite” in area lombarda: la svastica (a destra) nell’Alto Garda e la “rosa camuna"in Val Camonica             <<<

fiore della passione“Quanto poi alle croci ansate che si trovano su­gli antichi monumenti, si deve sapere che non furono veri segni di croce, ma qualcosa di diver­so raffigurato per caso a quel modo, visto che gli uccelli in volo e gli alberi delle navi con penno­ni presentano una figura simile (…) E credo che fossero fortuite anche le immagini di croce che si rinvennero in India: non è infatti cre­dibile che la religione cristiana sia giunta in antico sin là [dipende dalle date: i nestoriani fecero molta strada].

L'autore loda comunque la pietà di chi volle vedere in questi se­gni una traccia del cristianesimo, come di coloro che riconobbero gli stru­men­ti della passione in un fiore di recente importazione: la passi­flora.

Cap. IV: I misteri del Salvatore               <<<

[“Mistero” in questo contesto significa semplicemente “storia”, “episodio”, essendo legato non al greco “mysterion” ma al latino “ministerium”, che indicava le cerimonie o le sacre rappresentazioni. Naturalmente gli scrittori religiosi giocano su quest'ambiguità di signifi­cato]

“Tra gli errori che si riscontrano quasi ad ogni momento nelle pitture dei misteri della vita del Salvatore, non ultimo è che gli artisti vi mettono troppo artificio. Infatti nel dipingere la nascita del Salvatore fanno i corpi atletici dei pastori con figure così grandiose ed aitanti da attirare a sé gli occhi distogliendoli da ogni altra contemplazio­ne. La Vergine Madre, invece, e lo stesso divino Infante, li curano assai poco, cercan­do tutta la gloria nel ritrarre spalle di pastori e braccia distese con muscoli e masse carno­se.

La critica prosegue sul tono del cap. XII del libro I, prendendosela anche coi copricapi dei pastori: se li tengono in testa è irrispettoso, se li tolgono, non era quella l'usanza del tem­po!

“Nell'adorazione dei tre Re rilevo che rappresentano volti di colori diversi e una certa credenza del volgo per cui quello dei Re che è minore di età repentinamente di­venta il più vecchio, perchè in quell'atto di adorazione volle essere il primo. Perciò al­cuni pittori pongono all'ultimo posto il più vecchio.

“La circoncisione avvenne nella spelonca di Betlem, come afferma Epifanio, non già nel tempio; e la circoncisione era officio dei parenti, talvolta della sola madre. Nel­la circoncisione del Salvatore però io sono del parere che non si debba mutare il costu­me seguito dalla tradizione, secondo la quale sia stata fatta nel tempio e per mano del sacerdote (…)

“Nel rappresentare la tentazione nel deserto non è affatto contrario alle Sacre Carte mettere attorno al Salvatore alcune pecore; il che anzi sembra più conforme ad esse.

“Riteniamo anche che non si debba porre il Salvatore su un pulpito quando di­sputa nel tempio: nei sacri monumenti non si trova in realtà che qualche gradino per i predicatori in modo che sovrastino alquanto la turba circostante.

“Gli autori non si accordano nel dire come sia stata la colonna della flagellazione, né vi è certezza se fosse alta o bassa (…) [Fermiamoci qui!]

“Vediamo i pittori nell'ultima cena del Salvatore porre l'agnello tra le vivande della mensa. Ma l'agnello non veniva affatto mangiato dai commensali adagiati sul triclinio, e gli studiosi di antichità sanno che il costume di quel convito era assai di­verso da quello degli altri banchetti [è descritto in Esodo, 12] (…) Nell'istituzione del Santissimo Sacramento potranno porre davanti al Salvato­re, sulla mensa a cui è assiso coi discepoli, pane e vino, ma dovranno guardarsi dall'effigiare che segni col segno della croce il pane e il vino. Infatti prima della pas­sione di Cristo le benedizioni si facevano non col segno della croce ma con altra cerimonia e con altro rito (…) Perciò Leonar­do rappresenta il Salvatore nell'atto di pronunciare o appena finita la preghiera, in quel famoso cenacolo o triclinio che era tra le bel­lezze della nostra città prima che il tempo consu­masse quella mirabile opera. Noi, per quanto ci fu possibile, abbiamo in quell'o­pera arrestata l'ingiuria del tempo, e con diverse pitture che si conservano nella nostra biblioteca Ambrosiana procurammo di conservarla; e ciò fu fatto con grande diligenza, e quando l'opera non era ancora ridotta nello stato miserevole in cui oggi si vede [ed erano passati meno di 130 anni!].                    <<<

cenacolo, particolare

“Nel fare poi l'immagine del santo sepolcro, non si addice una pietra levigata e lucida come spesso si usa. Ciò infatti contrasta con la verità storica e col Vangelo, che ha queste parole: - E lo depose nel suo sepolcro nuovo che era scavato nel masso – [Matteo, 27,60]

In effetti la tradizione umanistica portava a privilegiare il sepolcro classico, forzando il dettato evangelico, ma committenti e autorità non trovavano nulla da ridire, perchè era chia­ro a tutti che il significato religioso e metafisico del dipinto andava più in là della semplice trascrizione pittorica del “mistero”. Non diversa, del resto, era la situazione quando (soprat­tutto nel nord Europa) il racconto veniva seguito più da vicino. Potremmo chiederci se la ri­cerca della “verità storica”, letteralmente intesa come vuole il Borromeo, non rischiasse di rivelarsi controproducente ai fini della stessa comunicazione religiosa.                    <<<

Beato Angelico
Beato Angelico
Pinturicchio
Pinturicchio
Giovanni Bellini
Giovanni Bellini
P.P. Rubens
P.P. Rubens

“Ma ancor più gravemente vediamo errare nel dipingere la resurrezione del Sal­vatore. Infatti rappresentano Cristo che risorge dal sepolcro in modo che i soldati cada­no a terra e giacciano attoniti e tramortiti dall'improvviso evento. Ciò è falso ed errato, perchè il Salvatore uscì dal sepolcro senza che i custodi se ne avvedessero. Qualche tempo dopo, quando l'Angelo rovesciò la pietra del sepolcro, destati sentirono il rumo­re e ne furono atterriti. Sbagliano ancora i pittori quando rappresentano il sepolcro che di per sé si spalanca per lasciare così libera uscita al Salvatore. I corpi beati in real­tà non hanno bisogno di siffatta via per uscire, e l'Evangelista dice che la pietra fu ro­vesciata dall'Angelo. E' necessario dipingere la scena in modo che nell'esprimere lo spavento dei custodi appaia contemporaneamente rovesciata la pietra per mano del­l'Angelo.

“Dopo la resurrezione si può effigiare lo stesso Cristo che va ad Emmaus, si ac­compagna coi discepoli e con essi si siede a mensa, come vediamo talvolta; ma il pane che la divina mano divide non dev'essere bipartito con precisione quasi fosse tagliato in mezzo con una lama: Si verrebbe così ad ammettere e a sostenere l'opinione puerile di quelli che credono che quel pane fu miracolosamente bipartito e che per quel mira­colo il Salvatore fu riconosciuto. (pagg. 90-92)               <<<

Cap. V: Le immagini della Beatissima Vergine

“Bisogna conservare i simboli e i misteri che si usano a raffigurare la Vergine Santissima, e la sua persona dev'essere effigiata con quanto più si possa immaginare di maestà e decoro. Badino i pittori di non fare anche in ciò qualche cosa contro il decoro e la verità della storia. Alcune scritture infatti tramandarono a proposito della Vergine Deipara cose che sono tutt'altro che da approvare, e sbaglierebbe chi, volendo dipinge­re la sua nascita, si attenesse al racconto, abbastanza diffuso, che ne fa l'opuscolo sulla Natività della Beata Vergine indirizzato a Cromazio e a Eliodoro. Anche nel dipingere la sua morte bisogna evitare la puerilità di qualche racconto, al quale non pochi vedo che prestan fede, e piuttosto conviene seguire la testimonianza di Dionigi Areopagita [De Divinis Nominibus, c. 3], il quale racconta che a quel santo decesso erano pre­senti, oltre gli altri, San Giacomo, cugino del Signore, San Pietro, Timoteo e lo stesso Dionigi.

Fidandosi di Dionigi Areopagita il cardinale cade dalla padella alla brace, perchè quell'autore, lungi dall'essere un testimone dei fatti, è un'invenzione del VI secolo, sotto il cui nome passano scritti di contenuto dottrinale, meno “puerili” ma anche meno innocenti di tanti racconti apocrifi.

“Alcuni furono a buon diritto incerti sul modo in cui rappresentare il mistero del­la concezione della Vergine. nascita della VergineNoi pensiamo che si possa dipingere una bambina ravvol­ta nei suoi panni, adagiata in mezzo ad una gran­de luce, e attorno a quella luce Angeli mag­giori e minori; la stessa personcina e gli An­geli vor­remmo alquanto velati e fra i cele­stiali splen­dori apparire le tre divine Perso­ne, esse pure legger­mente adombrate. Soltanto a questo modo rite­niamo che si possa ritrarre questo sublime mi­stero, che non cade sotto gli occhi degli uo­mini né rientra nell'arte dei pitto­ri, ma viene in­tra­visto sotto le allusioni degli scrit­tori e grazie all'intelligenza degli osserva­tori.  <<<

Non ho trovato un dipinto che corrisponda e­sattamente alla descrizione fatta dal cardi­nale, so­prattutto per quanto riguarda le velature e la Tri­ni­tà. Questo, del secentista Antonio Gherardi, è uno dei più simili. Applicato alla “concezione” (imma­colata) della Vergine, il termine “mistero” ritrova il suo senso più profondo.

“Non si deve poi rappresentare la Deipara svenuta ai piedi della croce, perchè ciò è contrario alla storia e all'autorità dei Padri (…), i quali tutti esaltavano la fortezza della Santissima Vergine, che dicono essere stata ammirabile specialmente durante la passione del Figlio.

Duccio di BuoninsegnaVan Eyck

Maria svenuta nelle Crocifissioni di Duccio (a sin.) e di Van Eyck (a destra)   <<<

In effetti il tema della Madonna sve­nuta è diffuso nella stagione dei “planctus Ma­riae” (secc. XIII-XV), mentre si dirada dopo il concilio di Trento, in apparente controtendenza rispetto al pietismo emotivo che caratterizza il nuovo periodo.

“Che l'immagine della Santissima Vergine somigliasse al vivo a quel Divin Volto è pure confermato da Niceforo, e perciò i pittori devono sforzarsi di avvicinarsi il più possibile a quel modello (…) E perchè i pittori con più esattezza ritraggano al naturale l'immagine della Beata Vergine, proporrò l'esemplare che lo stesso Niceforo ci ha la­sciato: - I costumi, le forme e la misura della sua persona, come dice Epifanio, erano i seguenti. In ogni cosa appariva onesta e grave, parlava poco e solo il necessario, atten­ta ad ascoltare, affabile assai, prestava a tutti l'onore e la venerazione conveniente, era di giusta statura benchè vi sia chi dica essere stata alquanto più alta della media. Con tutti gli uomini teneva una dignitosa libertà di parola, senza riso, senza eccitazione e soprattutto senza ira. Per colorito, tendeva a quello del frumento, capigliatura bionda, occhi penetranti con le pupille chiare e quasi del colore dell'oliva. Le sopracciglia in­curvate e di un bel nero, il naso un po' lungo, le labbra tonde e soffuse della soavità delle parole; la faccia non rotonda né angolosa ma alquanto allungata, come piuttosto lunghe erano mani e dita. Era infine schiva di ogni fasto, semplice, dal volto aperto, senz'alcuna mollezza da di umiltà eccelsa, contenta delle vesti di color naturale e dalle sue stesse mani preparate, come si vede ancor oggi nel santo velo del suo capo [una re­liquia?]. Per dirlo in una parola, tutto in lei mostrava una grazia celestiale. L'età sua poi si mantenne come sopra dissi -. (pagg. 92-94)   <<<

Cap. VI: Le immagini degli Angeli

algeli del giudizio

“Dopo aver parlato delle più nobili forme uma­ne, sarà opportuno discorrere delle immagini degli Angeli, giacchè si è soliti dipingere quei celesti spiriti in forme umane. Siccome queste forme si distinguono dai corpi umani soprattutto per l'ornamento delle ali, converrà esaminare se quel­l'at­tributo si debba o meno aggiunge­re agli Angeli. Mi­chelangelo li rappresentò del tutto privi di ali, le quali in verità si può dimostra­re esse­re inutili anche con un argomento desunto dallo stesso paganesimo. Infatti persi­no O­mero, che si crede aver tutto visto e cono­sciuto, non solo non ritenne che gli Dèi aves­sero bi­so­gno del remeggio delle ali, ma li rappresentò in­cedenti a piè pari e non mo­vendo passi secondo il nostro costume. [Probabilmente l'au­tore, che non cita diretta­mente il poeta, vuol dire che fluttuano libera­men­te nello spazio e non che si muovo­no a pen­dolo come i paraple­gici!] D'altra parte però scrittori molto seri vogliono che gli Angeli si dipinga­no con le ali e lo comprovano con diversi argomenti. Né vale il dire che tali figure angeliche non sono immagini ve­ritiere della realtà ma fantasie dell'umano inge­gno. Per­chè nessuno che sia savio ignora come quelle fi­gure di Angeli non siano ritratte dal vero ma sono imper­fetti si­mulacri o simboli e visualizzazioni della loro natura (…)

Orazio Gentileschi

Tipica figura di angelo (da un' “Annunciazione” di Orazio Gentileschi): ali, panneggio fluente, piedi nudi, aspetto giovanile ed efebico. Il giglio simbo­leggia la purezza di Maria, destinataria dell'annuncio.          <<<

“Le immagini degli Angeli saranno dunque da effi­giarsi con quella forma che meglio valga a dimostrare la natura e l'eccellenza loro. Si aggiungano le ali ad indicare la velocità, l'abito per motivi di modestia, la vigoria e la forza che nessuna decadenza senile attacca. Si dipingono anche nudi perchè si comprenda che sono immuni da qualsiasi contagio delle miserie umane: la nudità dei piedi in particolare indica che sono pronti ad ogni cenno d'Iddio. Mosè, Isaia e gli Apostoli stessi ebbero l'ordine di stare a piedi nudi per eseguire i di­vini comandi. Si potranno inoltre dipingere le vesti degli Angeli a foggia di pannolini, come in Ezechiele, oppure di abiti sacerdotali, come nell'Apocalisse, o del colore della pietra, come nella stessa Apocalisse, o di quel fulgore di cui li vide circonfusi Adamo.

“E neppure apparvero sempre in figura umana. Talora infatti assunsero forme di animali; nelle Sacre Carte quei divini spiriti diventano ruote e pietre preziose, nubi, venti e fiamme, e apparizioni di tal genere non pochi dei nostri descrissero nelle loro opere. E già in passato Dionigi Areopagita con l'alto suo ingegno spiegò questi misteri e ricerco particolarmente perchè agli Angeli si attribuisce la forma del fuoco [De coe­lesti Hyerarchia, capp. 2 e 15] (pagg. 94-95)   <<<

Cap. VII: Emblemi sacri

“Talora anche i nostri antichi e santi Padri usa­rono, invece di figure umane, emblemi sacri coi quali significa­vano un concetto oppure una persona, e l'i­mitazione di questo antico costume non solo non è da evitare, ma piut­tosto da conservare ed intensificare. Sappiamo che gli E­vangelisti si rappresentano con fi­gure di animali e che i quattro animali visti da Eze­chiele i più autorevoli dei Pa­dri ritennero significas­sero appunto gli Evangelisti.

Raffaello

Si tratta del cosiddetto “tetramorfo”, le “quattro forme” che una lunghissima tradizione associa appunto agli evangelisti sulla base della visione narrata da Eze­chiele (1, 4-28): l'aquila corrisponde a Giovanni, il leone a Marco, il bue a Luca e l'angelo a Matteo. Qui sopra abbiamo una versione semplificata della visione ad opera di Raffaello.         <<<

arca dell'alleanza
Arca dell'alleanza
scrigno eletto di devozione
Scrigno eletto di devozione
torre di davide
Torre di Davide
giardino cintato
Giardino cintato
specchio senza macchia
Specchio senza macchia

Alcuni esempi di attributi mariani tradotti in immagine. Essi derivano a loro volta da testi biblici o teologici.       <<<

“Anche i misteri della Santissima Vergine e alcuni dei suoi titoli si trovano raffi­gurati con forme materiali. Nelle catacombe di Roma poi si trova dipinta la colomba a significare la semplicità dei primi fedeli. Essa portava nel becco un ramoscello con questa mi­stica significazione: pavoneche sarebbe pur venuto il tempo in cui sarebbe cessata la persecuzione dei tiranni verso la Chiesa (…) Dipingevano anche il pavone affinchè gli uomini, ammaestrati dall'esempio di quell'animale, imparassero a pensare alla loro fine con gemiti e sospiri. La figura del pavone si nota nel cimitero Ostriano, ove vediamo anche Giona che esce dalla boc­ca della balena, simbolo non dubbio delle traversie di quel tempo (…) [vedi l'immagine al cap. II]

“Dipingevano ancora il fuoco a significare la vita eterna, oppure la carità o l'im­mortalità dell'anima. La navicella era simbolo della Chiesa [vedi figura], e la si di­pingeva in preda alla procella, a significare le calamità dei cri­stiani, che allora erano gravi e molte. Dipingendo un vasetto con dentro piantato un semprevivo intendevano confermare la speranza delle cose eterne e specialmente della resurrezione finale. An­che col rappresentare Noè nell'arca e Daniele nudo nella fossa dei leoni, raffiguravano i cristiani tra le fiere e l'ondata dei loro affanni, Simboli dell'obbedienza e della fede erano Abramo che sacrifica il figlio, i giovani di Babilonia nella fornace ardente e Mo­sè che fa sgorgare l'acqua dal deserto, le quali scene dipinte nei cimiteri confortavano a riporre ogni speranza in Dio.

 

tre fanciulli
Fig. 1: I tre fanciulli
Mosè fa sgorgare l'acqua
Fig. 2: Mosè fa sgorgare l'acqua
Daniele e i laoni
Fig. 3: Daniele e i leoni
Sacrificio di Abramo
Fig. 4: Sacrificio di Abramo
Noè nell'arca
Fig. 5: Noè nell'arca

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1: I tre fanciulli, ca­tacomba di Priscil­la. 2: Mosè fa sgorgare l'acqua nel deser­to, catacombe romane. 3: Daniele e i leoni, sarcofago paleocristiano. 4. Sacrificio di Abramo, sarcofago paleocristiano. 5: Noè nell'arca, Duomo di Worms.            <<<

“Se i pittori useranno questi simboli o emblemi con prudenza e con pietà, daranno ancora venustà all'opera loro per la varietà che ne nasce. All'ingresso dei templi si pongono anche figure di leoni, per­chè i mortali capiscano che i luoghi sacri si devono venerare con tre­more [v. “Instructiones”, Lib. I, 7]. Oro Apolline scrive che i denti leonini significano minaccia e perciò quella belva viene posta alle porte dei templi quasi a custodia, essendo quelle belve molto vigilanti perchè non chiudono mai gli occhi. (...)

[Questo Oro Apolline è un altro falso letterario come Dionigi Areopagita. In questo ca­so si tratta di un supposto sacerdote egiziano di lingua greca (il suo nome sintetizza il dio e­gi­ziano Horus e quello del greco Apollo), capace di interpretare gli antichi geroglifici. In realtà le sue interpretazioni sono del tutto arbitrarie perchè fondate su concezioni simboliche e ideo­grafiche estranee a quell'alfabeto. E ciò non fa meraviglia, perchè lo scritto che porta il suo nome apparve nel tardo medio evo ed ebbe successo (non disgiunto da perplessità) presso gli umanisti]

“Infine le Sacre Lettere col nome di leone designarono il Salvatore e la sua figura indicava la regalità, la forza non solo del corpo ma anche grandezza d'animo; perciò anche la leggenda antica aggiogò al carro del sole i leoni, per una certa similitudine col sommo astro. L'origine degli emblemi sacri si trova nelle Sacre Lettere, perchè Dio stesso ordinò che sulle porte si incidessero palme, mele granate e Serafini, soggetti ricchi di significazione. (pagg. 95-97)   <<<

Cap. VIII: I ritratti al naturale

Il capitolo si apre con l' “exemplum” positivo del dotto romano Marco Terenzio Varro­ne, che, secondo Plinio, aveva raccolto in alcuni volumi i ritratti di oltre settecento uomini il­lustri per conservarne la memoria garantendo loro una sorta d'immortalità.

“Quale più grande e più ricco tesoro si avrebbe se le immagini al naturale dei Santi dalla più remota antichità sino ad oggi si fossero potute tramandare! In questo sforzo di tramandare le immagini mi pare che i Greci abbiano di gran lunga superato gli altri popoli e con maggior cura abbiano conservato le sembianze e i simulacri dei loro eroi. Quel popolo erudito e solerte, dopo che ebbe ricevuto la Fede cristiana, tenne lo stesso atteggiamento anche coi Santi, così oggi i menologi presentano e conservano le immagini di Crisostomo, di Basilio e di Gregorio. [Menologio, letteralmente “libro dei mesi”: testo liturgico dedicato alle feste dei santi, di cui si espone, alle corrispondenti date, la liturgia corredata da cenni biografici e da immagini]. Questa diligenza e questa premu­ra non vedo in qual tempo i Latini l'abbiano usata; per cui è risultato che vi sia grave penuria di tali immagini, e le pochissime che vi sono devono essere accuratamente i­mitate dai pittori, se pur vogliono nell'arte loro raggiungere la gloria che si tributa al­l'autore di un ritratto dal vero.

“Nella Biblioteca Ambrosiana oggi si conservano non poche di queste immagini raccolte con amore in molti anni, e mi pare di poter sperare una maggior dovizia e una raccolta magnifica, se con la diligenza e l'assiduità che furono da noi prescritte saranno in futuro radunate e conservate le immagini delle persone egregie che ogni epoca pro­durrà.

“Sappiamo che Eusebio [lib. 7] e Niceforo [lib. 8] scrissero che al loro tempo si conservava l'immagine dal vero di San Pietro e di San Paolo.

Queste immagini furono date da papa Silvestro I a Costantino. Oggi le immagini più ve­rosimili dei due santi si basano sulla descrizione di Luciano nel “Filopatro”, che fa dire fra l'altro a un interlocutore: “Paolo era calvo sulla fronte e dal naso aquilino”. Seguono altri “exempla” positivi di santi personaggi le cui immagini erano circondate di ammirazione e in alcuni casi rivelavano un'energia taumaturgica.

“Abbiamo ricordato questi fatti perchè siano d'eccitamento ai pittori a non lasciar perire le immagini di quelli che o per senno civile o per bravura militare o per fama di santità o per gloria di lettere furono insigni. Conviene infatti che gli artisti migliori ga­reggino fra loro nel conservare siffatte immagini e non siano tanto dediti al lucro da non tener conto della pubblica utilità e degli spiriti grandi. Del resto anche l'amore al guadagno e al denaro dovrebbe allettarli a questa cura. In fatti, per tacere di altri, il so­lo caso di San Carlo basterà a provare quanto la cosa sia utile e lucrosa. Io credo che si sia spesa una somma ingente nell'effigiare la sua figura dopo che fu morto; mentre era in vita, forse non ci fu nessuno che avrebbe pensato di ritrarre dal vero le fattezze del Santissimo Pastore.

“Questa non curanza degli artisti può forse trovare una scusante nel fatto che i santi uomini rifuggono dagli onori e da simili glorie [seguono esempi]. Con intento mol­to diverso e per un ben serio motivo Gregorio Magno volle invece essere effigiato an­cor vivo, perchè la sua immagine stesse sempre davanti agli occhi dei monaci come freno e norma di vita. Così infatti riferisce Giovanni Diacono.

“Alcuni pensano che presso gli antichi cristiani fosse uso, quando un personaggio veniva ritratto da vivo, apporgli dietro la nuca una tavoletta quadrata, come si vede in Roma qua e là nelle figure a mosaico, specialmente nel celebre e mirabile complesso di San Clemente, e forse quella tavoletta significava che non era ancora compiuta l'o­pera della salvezza, essendo il soggetto tuttora in cammino. Così intepreta Giovanni Diacono, ma la cosa non è molto sicura.

Pasquale IGiovanni VII

Due papi ritratti da vivi nell’atto di offrire una chiesa: a sin. Pasquale I (817- 824), a d. Gio­vanni VII (705-707)                              <<<

Ha ragione il cardinale a dubitare, perchè il si­gnificato di quell'attributo non è stato del tutto chiarito. Alcuni vi vedono un'aureola quadrata, e allora sarebbe corretta la sua interpretazione co­me segno di santità ancora imperfetta. Ma in troppi casi essa si presenta come una vera “ta­vo­letta”, con tanto di spessore prospetticamente re­so. E allora la si può associare a un dipinto fu­nebre, come se il personaggio fosse già degno di un tale imperituro ricordo. Forse queste inter­pretazioni (o altre simili) convivevano già in an­tico, come dimostra la differenza tra i due esem­plari qui esposti.

“Il segno rotondo invece che si vede circondare la testa di molti, e si chiama dia­dema [modernamente “aureola” o “nimbo”], forse voleva significare la corona di gloria o la perfezione spirituale che l'anima loro aveva raggiunta. (…) Più esattamente forse pensarono coloro che la ritennero essere la forma dello scudo che si usava per incoro­nare i soldati. Consta che anche a figure pagane fu posta quella corona (…), onde na­sce l'ipotesi che forse quell'uso fu derivato dal rito dei Gentili. Non mai però quel se­gno si ritrova intorno al capo di persona oscura, ed è probabile che ciò si solesse fare ad imitazione dello stemma regale. Invece del disco o diadema talora si trova un nim­bo di raggi, col qual segno qualcuno credette si volesse distinguere la gloria dei Beati dalla gloria di coloro che la Chiesa aveva posto nel numero dei Santi. Ma siccome ne­gli antichi monumenti sacri quella raggiera non si riscontra, è lecito pensare che sia stata introdotta di recente.

 

Velasquez
1. Apollo con nimbo raggiato in Velasquez
Buddha
2. Buddha nimbato
Pantocrator
3. Cristo con nimbo crociato in un mosaico del sec.XII
Apollo
4. Apollo con nimbo raggia­to in un mosaico romano
Giotto
5. Maddalena nimbata in Giotto
giudizio di Paride
6. Dee nimbate al gi­udizio di Paride (mosaico sec. V)
Cristo
7. Cristo con nimbo raggia­to del Greco
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Anche sull'origine pagana dell'aureola il cardinale ha ragione. E pare che dal mondo ellenistico questo segno sia emigrato in India. D'origine pagana è anche l'aureola raggiata, che però è stata ripresa nell'arte cristiana solo nel tardo '500 (Tintoretto, Greco): altra giusta intuizione del Borromeo. Dell'aureola crociata di Cristo parla S. Carlo nel cap. XVII, lib. I.

Minosse“Mentre lodiamo e raccomandiamo l'usanza premurosa di ritrarre le fisionomie dei vivi, non possiamo poi non rimproverare quegli artisti che scelgono persone di fa­ma perduta per appioppare i volti e gli aspetti loro alle immagini dei Santi, e lo fanno con tale destrezza da renderli immediatamente riconoscibili (…) E non mancheranno neppure quelli che vorranno sfogare le proprie ire e rancori prendendo occasione dalle cose sacre: è nota la malignità di un celebre artista che, dipingendo Giuda il traditore, lo rappresentò simile a un suo nemico. Un altro ancora rappresentò un demonio col volto e con l'aspetto di uno che gli era molesto. [E' il famoso episodio di Michelangelo, che nel “Giudizio” diede a Minosse il volto del ceri­mo­niere vaticano Biagio da Cesena, dopo che costui, intervenuto durante i la­vori, ave­va espresso il suo disappunto per la nudità dei personaggi.] Io esorto quindi caldamente gli artisti a non effigiare nessuno al vivo, se non di fama costumata e onesta, e a fare in modo che non siano maledetti per il loro pennello, non tocchino cioè loro i biasimi e i danni che so­gliono guadagnarsi le penne velenose degli scrittori” (pp. 97-101)           <<<

Questa raccomandazione riprende e chiarisce quella fatta da S. Carlo nel suo capitolo sulle pitture sacre (l. I, cap. XVII). Lo scopo quindi è di evitare che l'arte diventi strumento di futili polemiche, come avveniva troppo spesso nell'ambiente letterario.   <<<

Cap. IX: Le immagini di San Gregorio e di Carlo Magno

“Ai nostri tempi, con qualche amore pur tardivo verso le antichità sacre, si è pre­so alfine a conservare le scarse reliquie che sfuggirono alla distruzione dei secoli, e quando la cosa non è altrimenti possibile si è ricorso al ritrovato, senza dubbio ottimo, della carta e del papiro. E' questo infatti l'estremo rimedio e quasi l'ancora di salvezza contro i naufragi e le tempeste che travolgono le umane cose. Io stesso, or sono alcuni anni, mi presi a cuore la faccenda e molte immagini antiche, raccolte in libri, depositai nella Biblioteca Ambrosiana, il che fu veramente provvidenziale poiché, o per igno­ran­za o per negligenza di non pochi, in breve la rovina distrusse anche i simulacri dai qua­li erano state ricavate.

“Lode e riconoscenza grande si deve a quei sacerdoti che delinearono la basilica di San Pietro ed oggi ancora diligentemente lavorano a che la posterità possa da qual­che disegno ricostruito riconoscere quale sia stata la forma antica di quel tempio. E per quanto nulla di più maestoso si sarebbe potuto fare della celebre mole del tempio Vati­cano, tuttavia attorno a quella stessa mole accade a persone pie ciò che si dice essere accaduto al popolo ebreo quando fu ricostituito l'augusto tempio di Gerusalemme. [I Esdra, III, 12] (…) Una parte del popolo, ricordando l'antica forma del tempio, e non pochi dei magistrati stessi, affezionati all'antico tempio, lacrimavano perchè vedevano che il danno era irreparabile e che quelle rovine non si sarebbero mai più potute restau­rare. I giovani invece, che non potevano ricordarsi l'antica costruzione, si rallegravano sommamente della nuova e non desideravano nulla più. Riguardo ai ritratti al naturale si dovrebbero dunque fare e conservare con somma diligenza, dal momento che [i loro modelli] svaniscono e per sempre scompaiono. (pagg. 101-102)

A documentare la sua sollecitudine per la conservazione di ritratti illustri, il cardinale al­lega alla sua opera le riproduzioni a disegno, da lui stesso ordinate, di tre immagini da lui vi­ste a Roma e ormai seriamente compromesse dal tempo. La prima [sotto, a sinistra] proviene dalla chiesa dedicata a san Gregorio Magno e ritrae quel santo ancora in vita, come dimostra la ta­voletta dietro il suo capo. La seconda [al centro], collocata nel palazzo lateranense, mostra san Pietro nell'atto di donare il pallio cerimoniale a papa Leone III e uno stendardo a Carlo Magno, e ri­corda evidentemente l'incoronazione del sovrano da parte del papa; anche in questo caso le ta­volette attestano la contemporaneità dell'opera rispetto ai personaggi. La terza [a destra] è un altro ritratto di Carlo Magno che figurava, sempre colla sua brava tavoletta, insieme a quello di Le­one III nella chiesa di Santa Susanna. L'autore ci assicura che i connotati dell'imperatore in queste immagini corrispondono a quelli riscontrabili in un suo sigillo e in un antico codice, che sono, insomma, ritratti dal vivo.

Gregorio MagnoSan PietroCarlo Magno

Questo capitolo è un'altra dimostrazione dell'alto e moderno concetto che il Borromeo aveva di “bene culturale” (si ricordi anche la chiusa del I libro). Gli esempi figurativi da lui portati sono tanto più importanti in quanto si tratta di opere oggi del tutto perdute e che, nel caso di quelle ove figura Carlo Magno, costituiscono l'unica documentazione iconografica contemporanea di un avvenimento epocale.                              <<<

Cap. X: Soluzione di alcune difficoltà circa l'immagine dei Santi

De Roberti
Ercole De Roberti: Santa Lucia
che mostra gli occhi come fiori
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“(...) Alcuni dubitarono se nel dipingere la santa martire Lucia mentre sostiene e presenta essa stessa sulla mano gli oc­chi, la si debba effigia­re con le palpebre abbassate o coperte e le occhiaie vuotate dalla fe­ro­cia dei carnefici. Io penso che così non la si debba mai effigiare, anche se si dipingesse tutta la vi­cenda del martirio. E non si dovrà neppure di­pingere il modo tenuto dai carnefici per cavare gli occhi alla Vergi­ne, poiché ciò sarebbe contrario alla verità e alla storia. A torto quindi le si pongono in mano gli occhi quasi segno del genere del martirio, allo stesso modo che a San Lorenzo si pone in mano la grati­cola e a San Sebastiano le frecce. (pagg. 103-104)

Non sono chiare in questo caso le motivazioni dell'autore, né per quanto riguarda la ve­rità storica né per quanto riguarda l'iconografia. La verità storica esi­gerebbe (o almeno con­sentirebbe) di rappresentare la tortura in atto, come avviene appunto con San Lorenzo e San Sebastiano, mentre l'icono­grafia richiede che il martire venga raf­figurato col corpo integro, in quanto è risorto, ma cor­redato dagli strumenti del mar­tirio. Sì dunque agli occhi aperti quando la santa è raffigurata in quanto tale, ma perchè non metterle in mano gli occhi morta­li come si fa con la pelle dello scorticato Bartolomeo? Quanto al “modo tenuto dai carnefici” in questo caso è così ripugnante da rendere com­prensibile che si eviti di raffigurarlo, ma il farlo non sarebbe certo contrario alla verità.

“Si è pure discusso se l'immagine di San Giovanni Battista debba sostenere con la mano la propria testa. Per nulla affatto deve sostenerla con la mano: benchè di altri santi si racconti che abbiano portato con le proprie mani la testa troncata, ciò in nessun luogo leggiamo a proposito di Giovanni Battista. Ma i pittori pare che con una certa leggerezza vogliano profanare la gloriosa decollazione del Precursore. Infatti usano tutta l'arte loro nel dipingere la madre o la scellerata donzella che richiese la nobile e veneranda testa di Giovanni. Oltre a ciò non vedi che carnefici, satelliti e corpi seminudi di donne. E non sarebbe man­cata occasione più onesta ed oppor­tuna per l'arte se quegli artisti a­vessero voluto ritrarre o il tetro e orrido carcere nel quale il santo giac­que, o l'annuncio della sua sen­ten­za, o la scena della decollazione o la cura dei disce­poli per il cada­ve­re, o la sua sepoltura.

Ferraù Franzoni
Ferraù Franzoni: Decollazione del Battista
San Dionigi
Arte francese sec. XV: San Dionigi regge la sua testa
Michelino da Besozzo
Michelino da Besozzo:
San Giovanni regge la sua testa
Bonnaud
P. Bonnaud: Salomè

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Quasi tutte le richieste del car­dinale sembrano essere state soddi­sfatte (e con anticipo) dal Caravag­gio nella “Decollazione del Battista” da lui dipinta nel 1608 per i Cavalieri di Malta. C'è il carcere, c'è la scena del sup­plizio, c'è l'orrore dei disce­poli e c'è un bacile per accogliere la testa. <<<

Caravaggio

 

Antonello da Messina
L'"Annunciata"
di Antonello da Messina
ben esemplifica l'ideale
dell'autore su questo tema
iconografico      
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“Bisogna ancora astenersi dal dipingere alcunchè di in­decoroso, come farebbe chi per esempio dipingesse la Vergine Santissima gongolante di gioia per la celeste ambasciata rice­vuta. Ella apparirà piuttosto tutta compresa e quasi trepidante, in modo che la pittura corrisponda alle parole che in quella cir­costanza le uscirono di bocca. Si deve rispettare la verità storica perchè gli artisti, dipin­gendo, non abbiano a dire cose vane e false. La pittura infatti è un linguaggio col quale i pittori parlano non alle orecchie degli uomini ma ai loro animi. Il detto ormai vieto che a pittori e poeti tutto è lecito risale a quel poeta che non solo dettò precetti finissi­mi sull'arte sua, ma li osservò lui stesso con la massima accortezza [Orazio]. Questa libertà dei pittori deve quindi moderarsi con regole fisse e severe, così che non esca da quei precetti dei quali ci pare comunque di aver trattato a sufficienza fino a qui.

Altri precetti iconografici. Nella scena della Deposizione il corpo del Salvatore non sarà retto dagli angeli, ma dai personaggi umani lì convenuti, e dovrà portare i segni delle percosse ricevute. Gaudenzio Ferrari ha sbagliato nel mettere, fra i santi che circondano la Madonna col Bambino, San Cristoforo con lo stesso Bambino in spalla! Non sarà invece un errore rap­presentare i martiri con le armi che li uccisero o in mano (le frecce di Sebastiano) o anche confitte in corpo (la mannaia di Pietro da Verona).

“Ma se queste cose son permesse ai pittori, si dovranno però evitare gli assurdi e le molte incongruenze che essi imbastiscono contro la verità della storia e del mi­stero, nel dipingere il Paradiso, il Purgatorio, il Limbo e l'Inferno. Dipingono infatti nel Para­diso i corpi completamente nudi, della qual cosa lo stesso Michelangelo, aven­dola commessa, fu castigato, poiché si dovette col pennello d'altri velare quella nudità uni­tamente all'errore dell'artista [anche san Carlo, a suo tempo, era stato contrario a quei nu­di]. Né si deve ammettere la scusa di quelli che dicono che Adamo ed Eva, al tempo dell'innocenza, erano nudi e che per conseguenza i corpi in Paradiso son da effigiarsi nudi perchè ivi non v'è posto per il rossore. Infatti quelli che osservano quei corpi nudi non si trovano già ora in tale stato d'innocenza, per cui possono arrossirne e provare tentazioni. Siamo poi del parere che gli Angeli si debbano rappresentare ritti o seduti piuttosto che coricati o giacenti. Nel dipingerli poi l'artista non sottoporrà ai loro piedi un suolo erboso e nel suo lavoro avrà cura di tener fisso al cielo ogni suo pensiero, così che col pennello non rasenti la terra che calpesta coi piedi.

“Nel dipingere l'Orco e le sedi infernali, eviteranno tutto ciò che possa presentare qualche cosa di osceno. Sarebbe in verità una benemerenza presso tutta la razza dei demoni se si dipingessero incentivi alla lascivia. L'immagine del Purgatorio dev'esser tale che risalti il dolore unitamente alla gioia delle anime, che là soffrono ma sanno che ne usciranno. Tutti questi opposti sentimenti, egregiamente esposti in una tavoletta in cera, si vedono tra le statue e i quadri della nostra Biblioteca, uno dei quali dimostra in altrettante scene la disperazione dei dannati, il lutto del Purgatorio e il gaudio del Paradiso.

Paradiso

Inferno

Non ho trovato, tra le opere attualmente esposte all'Ambrosiana, qualcosa che rispon­desse esattamente alla descrizione dell'autore. Vi ho trovato solo queste due tavolette di Jan Bruegel e bottega intitolate rispettivamente “Scena infernale” e “Gloria angelica”      <<<

“Si potrà anche fra le pene del Purgatorio frammischiare qualche figura di Ange­lo che conforta le anime, le conduce a quei tormenti oppure le porta fuori; ma sarà ot­tima scelta escludere dal Purgatorio ogni figura di Demoni, essendovi già bastanti sup­plizi senza la ferocia e la crudeltà di quelli. E non sarà impresa da poco per un provetto artista dipingere bene le anime miserelle degli infanti nel Limbo. Esse non saranno sal­tellanti o giocose ma neppure supplici e in atto di percuotersi il petto, ma tacite e me­ste, e non senza qualche lacrimuccia stillante dagli occhi. (pagg. 103-106)      <<<

Cap. XI: L'abbigliamento e le insegne dei Santi

“Ma se non si possono avere i ritratti al naturale dei Santi, si devono almeno con­servare i distintivi che o dalle Sacre Lettere o dalla storia civile o dalle rispettive bio­grafie furon desunti o furono introdotti per autorità dalla Chiesa. Distintivo dei martiri sono le palme, come dichiara l'Apocalisse. Gli Apostoli portano i sandali, il cui uso è attestato da Clemente Alessandrino ed è credibile che molti pontefici lo abbiano con­servato; il che è attestato da antichissime immagini,e quel costume non era stato ancor del tutto dismesso al tempo in cui fu dipinta l'effigie di San Gregorio. Infatti le calza­ture di quel pontefice somigliano in parte alle calzature comuni del tempo nostro ma in parte anche ai sandali (…)

MartiriMartire con la palma

Corteo dei martiri in S. Apollinare Nuovo, Ravenna (a sinistra). Santa martire con foglia di palma. Milano, s. Mauri­zio (a destra).

I martiri che sfilano in corteo a S. Apollinare Nuovo (Ravenna) hanno molti dei caratteri attri­buiti ai santi dall'autore: i san­dali, le pa­lme, i segni grafici sul­le vesti. In più portano la coro­na, segno di ele­zione, che verrà loro imposta dal Redentore verso cui si dirigono. Più spesso però la palma è una sola fo­glia che viene portata in mano dal santo.  <<<

“Le vesti degli apostoli sull'orlo portano segni di questo tipo: L, H, Z, che alcuno potrebbe dire esser la marca dell'officina o del fondaco, se non fossero troppo simili tra loro (…). I vescovi poi e gli arcivescovi si distinguono per il pallio che scende fino ai piedi, come mostrano molte figure dei mosaici e specialmente l'immagine di San Gre­gorio, che è ritenuta la più veritiera perchè corrisponde alla descrizione di Giovanni Diacono (…). Nella chiesa superiore di Assisi si vede il pallio ornato con croci nere [segue una disquisizione sui vari modi di panneggiare intorno al corpo questo paramento rituale, che ha l'aspetto di una lunga sciarpa].

“Contrassegno dei Sommi Pontefici è l'infula [= tiara, copricapo cerimoniale] che si chiama Regno [più spesso Triregno]. Esso deve essere circondato da tre corone per la suprema autorità, e questo ornamento nell'antica Legge era proprio del Sommo Sacerdote, e Giuseppe [Flavio] assicura che aveva la triplice corona.” Non mancano pe­rò casi in cui la corona è una sola. “Conviene con la forma di questo Regno pontificio quanto si vede nelle immagini degli Apostoli Pietro e Paolo (…). I capelli di quelle immagini simulano infatti una triplice corona, una più piccola dell'altra, il che dovette essere stato fatto per una tradizionale usanza apostolica o per indicare sommo potere e superiorità.

Giulio II
1. Giulio II colla tiara a tre corone (Raffaello, stanze vaticane)


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Innocenzo III
2. Innocenzo III colla tiara a una sola corona (Subiaco, Sacro Speco)
Sommo Sacerdite
3. Il Sommo Sacerdote nelle “Nozze della Vergine” di Raffaello
San Pietro
4. San Pietro colla capigliatura “a triregno” nella cappella Brancacci. Ma è uno dei pochi casi in cui il santo presenta questa caratteristica in quel ciclo, e l'unico in un contesto pienamente masaccesco.

S. Antonio Abate“I Santi si distinguono gli uni dagli altri per diversi contrasse­gni, come quando si aggiun­se all' immagine di Sant'Antonio Abate il campanello, il fuoco e il sozzo animale, dei quali di­stintivi non ab­biamo una spiegazione sicura da dare, se non forse il fatto che quel sozzo ani­male rappresenta i demoni, che furono molesti al santo a­bate, come dice Sant'Atanasio, e ac­corsero per spaventarlo con schiamazzi e fischi. La figura del porco infatti designa la bruttez­za dei Demoni.

Evidentemente il cardinale ignora (o intende screditare) quei culti e quelle leggende che associano il 'sozzo animale' al santo come operatore inconsapevole della più popolare ed invocata tra le sue virtù taumaturgiche: la cura di malattie cutanee come l''herpes zoster' (detto ancor oggi 'fuoco di sant'Antonio'), cura che si effettuava proprio col grasso di maiale. A tale cura si dedicava sin dal secolo XIII una comunità religiosa che aveva la facoltà di allevare maiali, e per renderli riconoscibili applicava loro una campanella. Naturalmente anche su questi dati le leggende popolari hanno lavorato non poco.

S. Bernardo
Immagine popolare di
S. Bernardo col diavolo
incatenato ai suoi piedi

“San Bernardo vien dipinto in atto di legare il demonio, e i pittori s'ingannano quando credono che questo sia l'abate di Chiaravalle. Vi fu infatti un altro San Bernardo, religioso dei Ca­nonici Regolari, che condusse vita quasi eremitica [si tratta infatti di Bernardo di Mentone, vissuto a cavallo dell'anno 1000] . Abitò sull'alto monte che da lui prende ancor oggi il nome e fondò lassù un celebre monastero. Raccontano di questo Bernardo anacoreta che rintuzzò l'audacia dei Demoni che infestavano col loro furore quelle regioni, e da ciò ebbe origine la credenza che i Demoni siano stati da lui incatenati.    <<<

  

“La famosa lotta sostenuta da San Giorgio contro il Demonio non è parimenti attestata da prove sicure, benchè non vo­gliamo punto negare che quel santo sia sta­to caro e accetto a Dio. Ma non si dovreb­be dipingere San Cristoforo per la sua smi­surata altezza alle porte delle chiese, come pure del medesimo si raccontano cose fri­vole e false.

Con l' “exemplum” del Giove olimpico di Fidia l'autore suggerisce, a scusa degli ar­ti­sti, che a volte la grandezza del­l'imma­gine è proporzionale alla grandezza morale da essi at­tribuita al soggetto.

S. Giorgio
Nella leggenda di S. Giorgio il diavolo
ha l'aspetto di un drago
S. Cristoforo
San Cristoforo accanto alla porta del battistero
di Castiglione Olona

“Santa Lucia viene dipinta con qualche segno che di­mostri com'ella provvede alla sanità degli occhi (…) Può darsi che que­sta usanza sia nata dal fatto che bisognava al­lontanare i cristiani dalle superstizioni dei Gentili:
S. Gerolamo
       Albrecht Dürer: San Gerolamo        <<<
siccome l'antichità credeva che la dea Lucina fosse il Nume tutelare per gli occhi, così fu sostituito al Nume vano il nome della martire Lucia (…).

“Sappiamo con certezza che il santo padre Francesco porta­va un cappuccio a punta, e così lo ritrasse Cimabue in Firenze nel 1240 (…). Si è discusso se accanto a San Gero­lamo convenga porre il cappello rosso o galero, poiché di­cono che tale distintivo della cardinalizia dignità sia stato introdotto da Innocenzo IV, che è di molto posteriore a Ge­rolamo (…) Ma io non do gran peso a questa difficoltà, per­chè il cappello rosso vicino all'immagine del santo Dottore non significa che l'abbia portato, ma soltanto che fu insi­gni­to della dignità cardinalizia (...). Si è anche discusso se al­lo stesso santo Dottore si deve aggiungere la figura del leone a ri­cordare il celebre e mirabile evento [l'amicizia nata fra il santo e l'animale dopo che egli gli ebbe tolto una spina dalla zampa: fatto at­tribuito anche ad altri santi e risalente alla leggenda di Androclo]. <<<

Cap. XII: Diverso uso delle immagini presso i cristiani

“(...) L'antichità [cristiana] usò le immagini per vari scopi, e anzitutto per ride­stare quel sentimento di dolore che ognuno deve provare nell'animo per le proprie colpe, e ciò lo attesta san Gregorio [Magno, Epist. 9, 9]. Inoltre pen­savano di poter ammaestrare con questo mezzo la moltitudi­ne ignorante nei sacri misteri, come scrisse lo stesso papa Gregorio. Intendevano ancora tributare alle immagini quel culto che le scuole e i dottori consentono; al qual proposito San Basilio dice che non solo in privato ma anche in pub­blico egli venerava le immagini, e che ciò era di istituzione e tradi­zione apostolica. Infine stimavano essere un dovere di riconoscenza tenere in onore quegli uomini che avevano fat­to dei benefici, ed Eusebio dice che forse, delle usanze cristiane, quella delle immagini derivò dagli stessi Gentili, i quali usavano tenere in onore coloro da cui avevano ricevuto aiuto e salvezza. (…) San Basilio invece arreca un'altra ragione, e l'esprime in questi termini, parlando non tanto dei dotti quanto degli ignoranti: - Quella storia che il discorso presenta per mezzo dell'udito, la muta pittura la mostra con la rappresen­tazione - .

“Per quanto riguarda il luogo e il sito delle immagini, San Crisostomo dice che ai primi tempi della Chiesa i fedeli solevano far le agapi [= pranzi comunitari] negli stessi templi e quivi, apparecchiate in ordine le tavole, sedersi. (…) E' sostenibile dun­que la supposizione che nella navata di mezzo del tempio fossero dipinte le storie sacre affinchè quelli che, secondo l'antico costume, si cibavano nel tempio, mentre si ristora­vano potessero in quelle fissare gli occhi. Ma altre ancora furono le sedi delle sacre immagini. Si collocavano sullo stesso ingresso dei templi, come afferma Anastasio bi­bliotecario, ed Eusebio dice che era stata posta sulla porta di un tempio la statua della donna che il Salvatore guarì dall'emorragia, perchè fosse un ricordo del miracolo. Su­gli stessi soffitti, nei recinti e nelle parti superiori delle navate erano dipinte delle im­magini (…).

“Davanti a quelle immagini si sospendevano anche lampade accese (…). Soleva­no anche onorarle con incenso e altri profumi (…) ed Eusebio ci assicura che questo fu già un costume dei Gentili (…) . Infine, si davano anche baci alle immagini, e che que­sto fosse costume degli antichi cristiani la provò Giovanni, monaco e sacerdote, quan­do espose il suo parere al Concilio Niceno [probabilmente il secondo, che si occupò del culto delle immagini]. (pagg. 110-112)   <<<

Cap. XIII: L'antica forma dei templi

“Essendoci noi proposti con questo studio di correggere i difetti in cui cadono spesso gli artisti del pennello e dello scalpello, ci pare opportuno aggiungere qualcosa intorno agli errori che gli architetti commettono nella costruzione dei templi. Quest'ul­tima nostra cura si concilierà con la cura e con le regole secondo le quali noi abbiamo istituito la scuola o accademia di queste tre arti affinchè a maggior gloria di Dio noi le abbiamo a coltivare più correttamente e con miglior gusto.

“Affermiamo pertanto che nella costruzione dei templi bisogna tener presente soprattutto ciò che si tien presente in ogni altra impresa, cioè che si badi al fine e al motivo per cui si costruiscono i templi: questo motivo e questo fine imporranno la nor­ma e la misura a tutte le spese, le leggi e gli artifici dell'architettura. Questo principio e questo canone fondamentale noi potremmo confermare con diverse prove e testimo­nianze, ma ci limitiamo ad una sola osservazione: gli antichi Romani sceglievano luo­ghi ampi e spaziosi per collocarvi le statue, affinchè la luce, la forma e la proporzione dell'ambiente concorressero al piacere non meno che alla comodità degli ammiratori di quelle statue. Orbene, nella costruzione dei templi si deve aver di mira di procurare ai fedeli, quasi popolo di statue viventi, un luogo opportuno per pregare e adorare la Di­vinità. Ogni qualvolta gli architetti non osservarono questa norma, siamo costretti a di­re che essi non costruirono templi, ma cappelle ed oratori, come dicono i cristiani, o sacelli, edicole e delubri, come dicevano gli antichi pagani.

“Gli antichi templi dei cristiani avevano parti ben distinte, e d'ambo i lati portici, esedre, cappelle, oltre al sacrario, al coro e al presbiterio. Avevano una navata centrale lunga, i cui bracci si stendevano dall'una e dell'altra parte [formavano il transetto? Ma questo elemento non è proprio delle basiliche più antiche], e questo piano della costruzione sacra è diffusamente spiegato da Eusebio e da Gregorio Nazianzeno. E non fu per ca­priccio se i nostri antenati così stabilirono, perchè non si sarebbe altrimenti potuto se­parare con sedi proprie la gerarchia ecclesiastica e il popolo cristiano. Infatti non sol­tanto collocavano separatamente un sesso dall'altro, ma anche le vergini, le maritate, gli ossessi, i neofiti, i poveri e i colpiti da qualche punizione avevano un posto distinto: tutte queste separazioni non si potrebbero certamente ottenere nella forma dei templi che oggi si edificano.

“Si deve inoltre procurare, ad imitazione dei templi antichi, di riprodurre, per quanto i nostri riti consentono, il disegno dello stesso tempio di Salomone. Questo tempio infatti constava delle parti che ho ricordate, e in esso ogni categoria di persone aveva il proprio posto. La forma descritta da Clemente Romano è opportunissima agli usi ecclesiastici: sarà a similitudine di una nave, che è lunga e diversamente divisa, così che i ministri della casa sacra siano ripartiti secondo le proprie mansioni, come avviene nel servizio navale. Qualora queste disposizioni, o per ignoranza o per incom­petenza degli architetti, fossero tralasciate, ne conseguiranno molti inconvenienti e so­prattutto questo, che né i sacerdoti dalla massa del popolo, né le parti più sacre del tempio si potranno distinguere per maestà e dignità dalle altre.

“So che è costumanza introdotta di recente che gli ecclesiastici prendano posto dietro l'altar maggiore, mentre il popolo si distende di fronte e soprattutto ai lati del­l'altare stesso. Non facevano così i nostri antenati, i quali erano del parere di sottrarre quanto più era possibile i sacri misteri dagli sguardi della moltitudine. Però al coro, al presbiterio e a quella parte che è detta Sancta Sanctorum destinavano la parte centrale del tempio, come la più nobile e splendida [per la spiegazione di questi termini si posso­no consultare le “Instructiones” di San Carlo. Il “Sancta Sanctorum” (termine mutuato dal tempio di Gerusalemme) è la zona del tabernacolo]. Intorno a quella parte poi si dispone­vano in giro, davanti gli ecclesiastici e dietro di loro il popolo secondo i vari ordini e secondo le varie disposizioni di esso. Quest'antica disposizione io credo sia stata scon­volta dall'arbitrio degli architetti, i quali fecero l'entrata e il prospetto del tempio ampi e magnifici, e così facendo non si accorsero d'aver relegato per così dire il Signore del­la casa e i suoi principali ministri nella parte più angusta, per lasciare invece la parte migliore all'infima plebe.

“Un altro inconveniente è anche questo, che i sacerdoti, sedendo dietro l'altare, guardano verso Occidente, non già verso Levante, cosa contraria agli antichi precetti della disciplina ecclesiastica. Per di più dal popolo non è più visto il clero, il quale, in quel luogo piuttosto oscuro e nascosto, si atteggia con gesti e parole assai più libera­mente di quanto non farebbe in vista dell'assemblea, che invece dovrebbe temere come testimone e censore della propria licenza, così che l'amore della virtù e il timore del biasimo sarebbero di stimolo alla compostezza.

“Si violano inoltre le leggi ecclesiastiche nella costruzione dei templi quando i Pastori di anime e i sacerdoti che hanno un po' di potere e di senno permettono ai co­struttori e agli architetti di disporre ed edificare tutto a loro arbitrio. Non così avvenne nella fabbrica del maggior tempio di questa nostra Milano: San Carlo volle bensì che fosse di convenevole ampiezza e che fosse di architettura curata ed elegante, ma in modo che l'arte stessa si adattasse agli usi ecclesiastici e vi fosse finalizzata. Ne era ar­chitetto il famoso Pellegrino, nato in oscuro villaggio di Valsolda, regione che è per in­tero soggetta alla Chiesa milanese. In quel paesello si vede ancora l'umile casetta di questo architetto, che con gusto fine, dopo che si fu arricchito, non volle demolire per erigere allo stesso posto un palazzo, come forse avrebbe fatto qualcun altro. Vi aggiun­se soltanto alcuni semplici ornamenti quasi di arte nascente, come volesse ivi mostrare gli inizi dell'arte sua. (pagg. 112-114)

[Segue un breve profilo biografico del Pellegrini, di cui l'autore ricorda il tirocinio con Michelangelo e ribadisce le qualità artistiche. Sulla sua figura si concludono il capitolo e l'o­pera.]

Questo capitolo si sovrappone, quanto a contenuto, alle “Instructiones” di San Carlo, così come in quell'opera il capitolo sulle pitture sacre (lib. I, XVII) si sovrappone alla presen­te. Ma mentre le “Instructiones”, nella loro brevità, non dicono nulla che si differenzi dalla trattazione di Federico, qui qualcosa di diverso rispetto al più vecchio Borromeo lo trovia­mo. Non l'allusione alla spaziosità delle chiese, che anzi viene confermata sulla scorta dell'u­so antico col suggestivo paragone popolo-statue umane. E nemmeno l'opzione per la pianta longitudinale, riaffermata qui come spazio modulare adatto alle molte separazioni che il nuo­vo cardinale considera, se non obbliganti, certo opportune nello svolgimento dei riti.

Vi è invece quella nostalgia per la collocazione centrale del coro, che per Carlo è solo una delle scelte possibili. Tale collocazione rende il clero più visibile al popolo e il vantaggio è più per il primo che per il secondo, perchè l'essere visibile obbliga il clero a tenere un con­tegno corretto: il Borromeo conosceva i suoi polli! Questa aspirazione alla centralità del cle­ro porta Federico a smentire almeno in parte i precetti del cugino sul primato della facciata e delle porte nell'edificio ecclesiastico: se il coro è dietro l'altare, la facciata imponente non fa che accentuarne la distanza (fisica e psicologica) rispetto alla massa dei fedeli. Massa che in ogni caso non gode di un ruolo da protagonista; anche se non è sempre chiamata “infima plebe”, è sempre oggetto, mai soggetto dell'azione liturgica o pastorale; ma questo è un tema epocale, che va ben oltre quelli presenti negli scritti qui esaminati.

Resta da chiedersi quali difetti vedesse il Borromeo nelle chiese edificate “a loro arbi­trio” dai nuovi architetti. E' presto per pensare al barocco; forse alludeva agli ampi spazi a navata unica introdotti dai gesuiti o a qualche ritorno alla pianta centrale come nel San Giu­seppe richiniano. Ma è difficile parlare di “arbitrio” in questi casi. Forse gli spiaceva sem­plicemente constatare che non tutti i Pastori dotati “di potere e di senno” esercitassero su artisti e architetti quel controllo formale e dottrinale che egli, sulle tracce del grande prede­cessore, si proponeva di esercitare.    <<<

Veduta di Milano

 

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Ultima modifica: lunedì 21 giugno 2010

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