Matteo Bandello e il ritratto della contessa di Challant (1)
di Valentino Scrima
La chiesa di San Maurizio a Milano
cela da secoli un mistero irrisolto: sulle sue pareti, tra gli affreschi
dipinti da Bernardino Luini, si nasconderebbe il ritratto di Bianca Maria
contessa di Challant, femme fatale
del Rinascimento milanese. Ne è testimone Matteo Bandello, che conclude una sua
celebre novella con parole inequivocabili: «chi bramasse di veder il volto suo ritratto dal vivo, vada ne la chiesa del Monistero
maggiore, e là dentro la vedrà
dipinta». L’avvincente ricerca del volto della contessa criminale è lo spunto
per rivivere l’atmosfera culturale della Milano di primo ’500, vivacemente
raccontata dalla penna del frate cortigiano.
Milano nelle Novelle di Bandello
Il «nostro fertile e ricco Milano, patria d’ogni buona cosa
abondevole»: così compare sempre la città nelle pagine di Bandello. Milano è un
centro vivace e industrioso, lo sfondo ideale per ambientare una storia coinvolgente.
Ma è anche la cornice più adatta in cui sentirsela raccontare, visto che i suoi
abitanti hanno il gusto della conversazione. Nella bella stagione ci si ritrova
in brigata nei giardini più ombrosi e ventilati, dopo un convito sontuoso nelle
case degli Atellani nel borgo delle Grazie o dei Bentivoglio fuori Porta Comasina.
A volte nel racconto si calca la mano sulle tinte orrorose e fosche, sui
dettagli lacrimevoli di amori infelici (celebre tra tutti l’episodio di Romeo e
Giulietta), ma più spesso si punta sui toni briosi e umoristici, se non
scollacciati.
Il mese di Dicembre
(particolare degli Arazzi Trivulzio, 1505 ca., Milano, Castello Sforzesco)
In città i cocchi eleganti e i carriaggi sciamano come api.
Le belle donne si sporgono ai balconi, agghindate come Madonne in trionfo. I
nobili «si danno buon tempo», cavalcando a diporto. Grande è l’attività degli
avvocati, per dirimere le frequenti controversie giudiziarie. I più scaltri si
fanno beffe degli ambrosiani bonaccioni, amanti del quieto vivere, classici «mangiatori
di zafferano» o tontoloni patentati, «nati in parrocchia di san Simpliciano».
In un’epoca in cui è di regola il matrimonio combinato, le malmaritate mandano
tranquillamente il consorte in Cornovaglia, cioè lo fanno becco, consolandosi
con i bei giovani adescati alla finestra o in qualche ritrovo pubblico, nella
folla del carnevale o alla festa del Perdono dell’Ospedale. Il tempo è scandito
dai rintocchi dei mille campanili e dalla Martinella comunale. Le porte urbiche
si aprono di buonora e si chiudono sul far della notte. Ma c’è un trucco: «la Porta
Ticinese da ogn’ora s’apre donando un soldo al portinaio».
Matteo Bandello, frate cortigiano (1485-1561)
Nei suoi scritti Bandello si protesta sempre «lombardo»,
estraneo al puro eloquio toscano. Nato a Castelnuovo Scrivia, alla periferia
del ducato sforzesco, approda nella capitale a dodici anni, avviato alla
carriera ecclesiastica dallo zio Vincenzo, consigliere del Moro e priore del
convento delle Grazie. È il 1497 e la città assiste alla nascita del suo
capolavoro artistico più noto, il Cenacolo
vinciano. Bandello arriva giusto in tempo per trovare Leonardo che apporta
gli ultimi tocchi. Ne riterrà un’impressione duratura, che tradurrà in parole
in una nota dedicatoria delle Novelle.
A parte questo caso precoce, i ricordi milanesi di Bandello sono tutti legati
ai cenacoli neosforzeschi formatisi a partire del 1512: è l’epoca fastosa e
brillante dei salotti, l’idoleggiata età dei trattenimenti in brigata, in cui
le dame si fanno avanti per condurre il gioco della mondanità.
Il giardino di Casa Atellani, inquadrato dalla Sala
Sforzesca (corso Magenta, 65)
Fin dal 1507 lo scrittore prende alloggio in una cella di
Santa Maria delle Grazie. Suoi vicini di casa sono gli Atellani, tramite i
quali è introdotto alla corte dei Bentivoglio. Il fermento della città,
nonostante il dominio intermittente di francesi e spagnoli, non viene mai meno.
Ma nel 1526 Bandello è costretto a fuggire, aiutato dall’amico Lucio Scipione
Atellani, forse per scampare alle ritorsioni dopo la congiura antispagnola di
Girolamo Morone. La soldataglia compie un’ispezione nella sua cella,
saccheggiandone i libri e le carte personali. Lo scrittore rimetterà insieme le
Novelle soltanto in età senile, dalla
fine degli anni ’40, in Francia. Decide allora di porre la raccolta sotto il
patronato femminile di Ippolita Bentivoglio, per renderla benaccetta ai
nostalgici ambienti cortigiani. Adotta uno schema libero, slegato da cornice,
«non servando altrimenti ordine alcuno di tempo – spiega –, ma secondo che a le
mani mi venivano esse novelle disporre, ed a ciascuna di quelle dar un padrone
o padrona dei miei signori ed amici». Introduce i racconti con lettere
dedicatorie, che gli permettono di rievocare i momenti più lieti e burrascosi
della propria vita. Ecco come si difende (nella dedicatoria alla novella II, XI)
dalle critiche dei sapientoni:
"Dicono per la prima che non avendo io stile non mi deveva
metter a far questa fatica […]. Ma al mio proposito dico che ogni istoria,
ancor che scritta fosse ne la più rozza e zotica lingua che si sia, sempre
diletterà il suo lettore. E queste mie novelle, s’ingannato non sono da chi le
recita, non sono favole ma vere istorie. Dicono poi che non sono oneste […].
Confesso io adunque molte de le mie novelle contener di questi e simili enormi
e vituperosi peccati, secondo che gli uomini e le donne gli commettono; ma non
confesso già che io meriti d’esser biasimato. Biasimar si deveno e mostrar col
dito infame coloro che fanno questi errori, non chi gli scrive."
Bandello residente a Milano
Nei primi tre decenni del ’500 Milano subisce la quasi
ciclica alternanza tra l’occupazione francese e gli effimeri ritorni sforzeschi
(sotto l’auspicio ispano-imperiale). È insomma l’epoca turbolenta del «Francia
o Spagna, pur che se magna»! Bandello si professa ghibellino, filoimperiale e
più ancora filosforzesco, e vive sulla sua pelle l’incertezza dei tempi.
Vediamo in breve le fasi della sua permanenza milanese.
1507-1512: la città è
amministrata saggiamente da Charles d’Amboise, committente di Leonardo e
suddito di re Luigi XII. Giovan Francesco Bandello, padre di Matteo, e lo zio
Vincenzo sono legati agli Sforza in esilio (il padre, fuoriuscito a Roma, è
protetto da Prospero Colonna, futuro promotore del rientro a Milano dei figli
del Moro: Massimilano nel 1512 e Francesco nel 1522). Per cui è da credere che
anche frate Matteo confidi nell’imminente restaurazione ducale. Ma nel convento
delle Grazie si respira nei primi tempi un’atmosfera decisamente francofila.
1512-1515: Milano è
riconquistata dalla Lega Santa. Ercole Massimiliano Sforza rientra in Castello,
ma non ha le possibilità materiali e personali per rilanciare i fasti della
corte del padre, Ludovico il Moro. Se ne occupano, al posto suo, le famiglie
più in vista, i Bentivoglio e gli Atellani, che animano vivaci e frequentati cenacoli
culturali. Gran signora del savoir-faire salottiero, regina della conversazione
è Ippolita Sforza Bentivoglio, spesso nominata nelle dediche bandelliane. Cfr.
novella I, II:
"Non m’è uscito di
mente, valoroso, splendidissimo signor mio [Prospero Colonna], quanto vi
degnaste comandarmi, quando eravate a diporto ne l’amenissimo giardino del
signor Lucio Scipione Attellano. Quivi intendeste che alcuni giorni avanti,
ritrovandovisi la degnissima eroina la signora Ippolita Sforza e Bentivoglia,
il generoso signor Silvio Savello narrò una bellissima novella, che sommamente
a tutti gli ascoltanti piacque. Onde dicendovi l’Attellano che io l’aveva
scritta, m’imponeste che io ve la facessi vedere."
1515-1518: Bandello si rifugia a Mantova ospite dei
Gonzaga, con brevi soggiorni a Milano. È un periodo oscuro per la capitale
lombarda, angariata dal governo di Odet de Foix visconte di Lautrec. Di notte
gli sbirri francesi aggrediscono i privati cittadini. Nel 1519 viene decapitato
il filosforzesco Ermes Visconti, marito di Bianca Maria (la giovane futura
contessa di Challant). Nel ’21 la torre del Filarete crolla in un’esplosione di
polveri. Ma lo spirito mondano non viene meno: 27 dame milanesi, tra cui Ippolita
Bentivoglio e Bianca Maria Visconti, si fanno ritrarre da Giovanni Ambrogio
Noceto in un sontuoso Album miniato, offerto al re galante Francesco I (Biblioteca
Trivulziana). I volti delle belle sono celati da un dischetto di cartoncino
apribile e accompagnati da una dedica in latino. Di Bianca Maria Visconti si
rileva la felice omonimia con la duchessa sposa di Francesco Sforza.
1518-1526: frate Matteo torna
a Milano per ordine del Capitolo domenicano. Il 27 aprile 1522 Prospero Colonna
vince i francesi alla Bicocca. Alessandro Bentivoglio, da poco vedovo, è creato
senatore di Milano e sua figlia badessa di San Maurizio. Sono gli anni in cui
Bernardino Luini è chiamato ad affrescare il tramezzo della chiesa benedettina.
La sconfitta definitiva dei francesi avverrà nel 1525, nel parco del Castello
di Pavia.
Come già detto, all’inizio del 1526 Bandello è costretto
alla fuga, travestito e aiutato da Lucio Scipione Atellani. Non risulta che da
allora il novelliere sia più tornato, se non forse per brevi soggiorni, in
città.
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Ultima modifica: martedì 1 novembre 2011
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