San Maurizio al Monastero Maggiore
Per secoli, il Monastero mauriziano fu la principale
comunità di clausura femminile di Milano. Sorto sulle rovine del Circo romano,
ne ingloba le strutture: la torre dei Carceres diventa campanile; la torre
poligonale delle mura – allora creduta prigione di gloriosi martiri ambrosiani
– è riutilizzata come oratorio; tutta l’area a sud – coincidente con la vasta
arena circense – fa parte della proprietà del ricco cenobio, che vi costruisce
chiesette, sfrutta gli spalti come cava di materiali da costruzione o da
fornace, e coltiva il terreno a orti e giardini. Famosi fino a tempi recenti i
frutteti (albicocchi, peschi e pruni con spalliere di lamponi), nonché il
florido vigneto, all’origine del toponimo via Vigna. Le monache – prima
dell’avvento regolatore di Carlo Borromeo – usano allietare i conviti con coppe
di buon vino e squisiti dessert a base di frutta fresca e confettura, in
un’atmosfera spensierata da novella bandelliana.
Il periodo di maggior fioritura del Maggiore è il
turbolento primo ’500, quando tra le mura claustrali si rifugiano le
discendenze femminili delle più distinte famiglie milanesi, venendo a formare
una sorta di circolo femminile d’élite, che coltiva il canto polifonico
tipicamente mauriziano e la meditazione sentimentale sulla passione di Cristo.
Un tema che viene illustrato da Luini con accenni teneri e strappacuore negli
affreschi del tramezzo interno. Non è un caso che il ciclo della Passione si
concluda proprio con la scena del Noli me
tangere, dove ogni monaca (sponsa Christi) era chiamata a identificarsi con
la Maddalena, tra lacrime di commozione.
Nulla sappiamo dei primi committenti degli affreschi
cinquecenteschi, precedenti all’intervento luinesco. Si trattava forse di
casati filofrancesi, i cui stemmi furono rimossi con il rientro sforzesco, nel
1522. Da quel momento la chiesa rientra sotto il patronato dei Bentivoglio, e
il tramezzo è affrescato in omaggio alla famiglia che vi vuole stabilire il
proprio mausoleo dinastico. Lo stesso Bandello è un protetto di Alessandro
Bentivoglio, e dedica il suo novelliere alla memoria della di lui consorte
Ippolita Sforza (da poco scomparsa). Nel racconto della vita della contessa di
Challant – già dama di corte di Ippolita – accenna alla presenza di un ritratto
nella chiesa di San Maurizio. Nelle fattezze di qualche santa si celerebbe la
bellissima Bianca Maria di Challant.
La badessa Bianca Bentivoglio, committente di Luini
Secondo i più recenti studi (Pietro
Marani), Luini inizia a lavorare in San Maurizio dai primi anni ’20 nei due
registri inferiori della parete divisoria. Il ciclo celebra la famiglia
Bentivoglio: lo stemma del casato – una sega rossa «di sette denti» in campo
d’oro – si ritrova in vari punti della chiesa, inquartata con l’aquila imperiale
o la vipera sforzesca. Le figlie di Alessandro e Ippolita approdano tutte nel
convento: Alessandra e Ippolita come suor Bianca e suor Francesca, Violante e
Ginevra una volta rimaste vedove. A partire dagli anni ’30, una serie di
famiglie imparentate o legate ai Bentivoglio, il cui ramo maschile diretto si è
da poco estinto, prenderà via via possesso delle cappelle laterali.
Ippolita Sforza Bentivoglio dall’Album di Ambrogio
Noceto (Milano, Trivulziana)
L’intervento di Luini è anche un
omaggio post-mortem a Ippolita Sforza
Bentivoglio, la dedicataria postuma delle Novelle
di Bandello. Ippolita è nipote di Ludovico il Moro (è figlia di Carlo di
Galeazzo Maria Sforza), e vive all’incirca tra 1481 e 1521. Si sposa nel 1497
con Alessandro Bentivoglio, figlio del signore di Bologna. Nel 1512 si
trasferisce a Milano, in un bel palazzo dotato di vasto giardino, nel «popoloso
borgo» di Porta Comasina. Da quanto si deduce da Bandello, il giardino affaccia
sul Castello Sforzesco, mentre la fronte della casa prospetta sulla basilica di
San Simpliciano. Racconta il novelliere che il salotto Bentivoglio è
frequentato da poeti e letterati, come Lancino Curzio e Girolamo Cittadini, e
soprattutto dalle dame più in vista: le poetesse Camilla Scarampi, Cecilia Gallerani
Bergamini (l’ex amante del Moro, ritratta da Leonardo come Dama con l’ermellino) e l’esuberante Bianca Maria Visconti, giovane
casalese protetta da Ippolita (futura contessa di Challant). Sono gli anni in
cui nasce e si consolida a Milano la civiltà della conversazione, patrocinata
dalla nuova figura della gentildonna, colta ed emancipata.
In quegli anni, Alessandro
Bentivoglio passa al servizio degli Sforza e allaccia rapporti d’amicizia con i
nobili fedeli agli eredi del Moro, come gli Atellani e i Visconti. Anche dopo
la rotta di Melegnano (1515), resta a Milano, aspettando il momento propizio
per tornare alla ribalta. Al rientro sforzesco (1522), è nominato senatore di
Milano e di lì a qualche anno viceduca di Francesco II Sforza (1529). Nell’età
oscura della restaurazione francese (1515-22), la famiglia ha destinato la
figlia primogenita Alessandra alla pace e all’opulenza del Monastero Maggiore.
Il 21 maggio 1521, poco prima della morte prematura, Ippolita Bentivoglio fa
testamento: esprime il desiderio di essere seppellita nella sua chiesa
parrocchiale, la modesta Santa Maria degli Angioli (a Milano regnano i
francesi, e il momento non è opportuno per puntare sulla prestigiosa San
Maurizio). Nelle sue disposizioni, lascia una somma cospicua alla figlia da
poco monacata. Non può prevedere che di lì a breve le cose volgeranno al
meglio; e forse non farà in tempo a condividerne le gioie. Nel 1522 si insedia
a Milano Francesco II Sforza, e – sull’onda dei successi paterni – Alessandra
diventa badessa (lo sarà per altre cinque volte).
Chi commissiona gli affreschi del
tramezzo? In realtà non c’è una risposta sicura, ma solo una serie di ipotesi.
Si è addirittura dubitato che i due donatori inginocchiati fossero Alessandro e
Ippolita, propendendo per la figlia Violante Bentivoglio e il marito Giampaolo
Sforza (Maria Teresa Binaghi Olivari). Una tesi affascinante che credo sia da
escludere, perché, a sentire Bandello, questi ultimi si sarebbero sposati a
Ferrara intorno al 1528 e non ci sono documenti che li leghino al monastero.
Come si è fatto fin qui, formuliamo un’ipotesi in grado di dirimere i problemi,
senza purtroppo l’avallo di dati incontestabili. Ebbene, mettiamo che la
committente principale sia la badessa Bianca.
Alessandra/Bianca cresce all’ombra della madre, venendo in
contatto da adolescente con un circolo culturale di forte presenza femminile. È
più o meno coetanea di Bianca Maria Visconti, la futura contessa di Challant,
che magari invidia un po’: accolta da Ippolita come una figlia, sposata con un
gentiluomo in vista e smaniosa di divertirsi. I genitori cercano anche per lei
un degno consorte. Incaricano Bandello di prendere accordi con Roberto
Sanseverino, conte di Caiazzo, forse per conciliarsi la fazione filofrancese,
ma il giovane è già impegnato (un decennio più avanti – ritiratasi in clausura
la brava Alessandra – Roberto si butta tra le braccia della spregiudicata
Bianca Maria!). Nella casa di Porta Comasina hanno accesso poeti, cantori e
artisti. Bernardino Luini è allora il pittore prediletto di aristocratici e religiosi:
nel salotto di Ippolita, traccia uno splendido ritratto a disegno della padrona
di casa (all’Albertina di Vienna) e forse prende nota anche delle fattezze di
altre belle signore, tra cui la più appariscente è senz’altro la vezzosa Bianca
Maria Visconti.
Bernardino Luini, Ippolita Sforza Bentivoglio (Vienna,
Albertina)
Quando, intorno al 1520, Alessandra si fa monaca, Luini è
convocato per raffigurarla in una tavoletta devozionale, già al Museo
Filangieri di Napoli (Dario Trento). La ragazza, poco più che ventenne, è di
profilo, vestita da benedettina e inginocchiata. È presentata al bambin Gesù
benedicente dalla Vergine, che la abbraccia con premura materna. Giuseppe vaga
sullo sfondo (un’allusione alle traversie politiche del padre?).
Bernardino Luini, Bianca
Bentivoglio raccomandata a Gesù Bambino (1520 ca., collocazione ignota)
Lo stesso volto, dal profilo netto e la piccola bocca
carminia e sorridente, compare in due riquadri degli affreschi luineschi nel
tramezzo di San Maurizio: nella Deposizione
di Cristo nel coro claustrale; e a fianco di Ippolita Bentivoglio nell’aula
dei fedeli (nonostante la divaricazione cronologica, il pittore fa uso della
stessa matrice).
Ritratti della badessa Bianca Bentivoglio, negli
affreschi di Bernardino Luini in San Maurizio
Nel registro centrale della parete dell’aula pubblica la
badessa Bianca è una sorta di eminenza grigia, è una presenza appartata ma
protagonista. Effigiata con gli attributi di santa Scolastica, sorella di san
Benedetto, introduce la madre – scomparsa da pochi mesi, quand’era ancora sulla
quarantina – e intercede per la sua anima. Ippolita Sforza Bentivoglio, invece,
è una presenza ‘fantasmatica’: vestita con un abito di broccato bianco ricamato
a groppi d’oro (nodi di memoria leonardesca), appare trasfigurata e
incredibilmente giovane, decisamente poco caratterizzata dal punto di vista
fisiognomico. Dall’altra parte Alessandro Bentivoglio è presentato da san
Benedetto: l’uomo è al culmine della carriera, abbigliato con eleganza
inappuntabile; eppure appare come provato, emaciato e in abito da lutto.
Alessandro Bentivoglio in tre presunti ritratti. I
primi due, opera di Luini, provengono: dal tramezzo dell’aula pubblica di San
Maurizio; e dalla scena del Trasporto di
Cristo, nel coro monastico. La terza immagine, dove il giovane rampollo dei
signori di Bologna veste i panni di poeta antico, è un particolare dall’Adorazione del Bambino di Lorenzo Costa
(1499 ca., Bologna, Pinacoteca Nazionale).
L’immagine retrospettiva di Ippolita richiama la dedica
delle Novelle di Bandello, che sa di
malinconica e personale rievocazione. Il ritratto postumo della «mirabile
eroina» è – al pari della figurazione di Luini – un esempio di somma e
rarefatta idealizzazione, tipica del mondo cortigiano:
"essendo voi, tra le rarissime donne del nostro secolo, la più,
di vertù, di costumi, di cortesia e d’onestà, rara, e di buone lettere latine e
volgari ornata, che a la vostra divina bellezza maggior grazia accrescono, io
nondimeno me ne tengo sempre da più, conoscendo l’acutezza del vostro ingegno,
la erudizione, la dottrina e tante altre vostre singolari ed eccellentissime
doti."
I due coniugi volgono lo sguardo verso il centro della
parete, dove c’era originariamente una terza arcata, aperta sul coro monastico
con una grata, forse decorata da un crocifisso. Nel registro inferiore Luini
inscena un corteggio gentile di sante martiri, bionde fanciulle dagli
atteggiamenti leggiadri. È un omaggio al cenobio di benedettine o forse – dato
il carattere memoriale e celebrativo del ciclo – alla presenza attiva delle
donne nel cenacolo culturale di madonna Ippolita.
Sono gli anni in cui Luini inventa, sulla scorta degli
studi fisionomici di Leonardo e dei suoi seguaci, un fascinoso tipo femminile,
velato d’ineffabile sorriso malinconico. Le sante seducenti e le eroine
maliarde (come la bella e crudele Salomè da
lui tante volte rappresentata), riflettono il nuovo ruolo culturale e sociale della
nobildonna milanese, che Bandello arriva a descrivere come insofferente della
prepotenza maschile. L’iconografia muliebre di Luini sarà destinata a grande e
prolungata fortuna, tanto da incarnare per Stendhal la bellezza lombarda tout
court (la sua Métilde ricorda le Erodiadi
di Leonardo, che non sono altro che le Salomè
di Luini). E tanto da suggestionare Vladimir Nabokov nel racconto La Veneziana (1924), dedicato a un’italiana
dagli «occhi luineschi». Chissà se anche Giuseppe Giacosa non pensasse alle
eroine criminali di Luini quando tratteggiava la protagonista del noto dramma La Signora di Challant (1891), portata
sulle scene da attrici fatali come Eleonora Duse e Sarah Bernardt.
Bernardino Luini, Salomè
(Parigi, Louvre)
Ed ecco alcuni esempi di quel filone femminista
avantilettera che percorre, come omaggio cortigiano, il novelliere di Bandello (novelle
III, XXIV e IV, XVIII):
"Ma se il mondo si cangiasse e che le donne potessero aver una
volta la bacchetta in mano e attendere agli studi così de l’arme come de le
lettere, nei quali senza dubio molte di loro si farebbero eccellentissime, guai
a noi. Io penso bene che ci renderebbero mille per uno e più, e che ci
farebbero star tutto il dì con la conocchia a lato e col naspo e l’arcolaio, e
ne cacciarebbero come guattari in cucina; e saremmo forse ben pagati, poi che
noi molte volte fuor di ragione e oltre ogni convenevolezza facciamo loro tanti
torti e le trattiamo molto domesticamente."
"E certamente se li padri volessero permettere alcune de le
figliuole darsi agli studi litterali e anco a l’armi, molte riusceriano
eccellentissime, come fu per lo passato. Ma per non discorrere per l’Europa,
non usciremo per ora fora di Milano, lasciando Pentesilea, Camilla, Tomiri,
Ippolita, Zenobia, Saffo, Temistoclea, Proba, Polla, Argentaria e molte altre
dotte e bellicose, e diremo solamente de la mirabile eroina la signora Ippolita
Sforza e Bentivoglia, che tutto il dì si vede di passi reconditi de la lingua
latina dottamente disputare. Ma come posso tacere la moderna Saffo, la signora
Cecilia Gallerana contessa Bergamina, che, oltra la lingua latina, così
leggiadramente versi in idioma italiano compone? Chi oramai non conosce la
signora Camilla Scalampa e Guidobuona, le cui colte rime sono in tanto prezzo?
Queste tre sono pure in Milano. Ci è ancora la nobile e valorosa signora Luzia
Stanga, che con la spada in mano fa paura a molti bravi. Ci è anco la figliuola
del giardinero de l’umanissimo signor Alessandro Bentivoglio, che questi dì nel
gran borgo de la Porta
Comasca contra dui sbirri, che volevano prendere il fratello
di lei che senza arme era, dato mano a una spada, uno di quelli sergenti
animosamente assalì e l’ammazzò, e l’altro di una stoccata ferì e fece fuggire."
L’ultima esemplificazione si riferisce a un episodio di
cronaca, raccontato con maggior dovizia di dettagli nella novella III, XXIV. Giovanni Antonio, figlio del
giardiniere di Palazzo Bentivoglio, bravo giovane ma fin troppo spavaldo, aveva
litigato con un sergente della polizia francese, «nel mezzo de la via che va
dritto a San Sempliciano, che sapete esser assai larga e patente». Trovandosi
in difficoltà, gli era venuta in aiuto la sorella Bianca, una ragazza
coraggiosa, spinta dall’amore fraterno e forse da una specie di animosità
patriottica. Il prepotente resterà ucciso, e i due fratelli saranno risparmiati
dalla legge grazie all’intervento di Alessandro Bentivoglio.
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