Capitolo IV
Giangaleazzo Visconti (I Duca di Milano)
Imprese:
Sole raggiante
Colombina. Motto: “A bon droit”
Capitergium
Morso. Motto: “Ich vergies
nicht”
Sotto forma di sole raggiante, l’impresa di
Giangaleazzo troneggia nella vetrata absidale del nostro Duomo. Il Duca
è come il sole, fonte di vita per i suoi sudditi ed emblema di giustizia. Come
il sole separa la luce dalle tenebre, così il Signore di
Milano esercita la giustizia, separando il bene dal male. Ma c’è di più: legittimato il suo potere nel 1395 grazie ai
100.000 fiorini d’oro sborsati all’imperatore Venceslao (l’aquila imperiale
s’inquarterà d’ora in poi stabilmente con il biscione), divenuto un monarca a
tutti gli effetti, Giangaleazzo ha trasceso la condizione umana per assumere
quella divina, propria dei sovrani e dell’imperatore stesso. La sua immagine
ora può fondersi con quella del Cristo-Re, sole di giustizia
che, al suo sorgere, illumina il Duomo. L’impresa sottolinea
lo splendore raggiunto da questo Visconti, che ha trasformato la signoria in un
vero e proprio regno con tanto di diritto ereditario.
Tavola 7 - L’impresa del sole raggiante (“razza”) troneggia nella vetrata absidale del duomo. Qui la vediamo sia dall’interno che dall’esterno.
Questo grande successo è ricordato anche dal
“capitergium”: un velo avviluppato intorno a un cercine, annodato oppure a
cocche pendenti. Il termine mediolatino, derivato da “caput
tergere”, indicava forse, in origine, una fascia usata per proteggere il volto
dal sudore. In milanese è comunemente chiamato “gassa”. Si tratta del serto o
infula degli antichi dominatori; conferito nelle investiture regali ed
episcopali, è una conferma dei poteri sovrani, della loro valenza sacerdotale e
della loro universalità. Nel giorno
dell’incoronazione, il luogotenente imperiale pose sul braccio di Giangaleazzo,
che già aveva indossato il mantello di vajo e calzata la berretta ducale, un
capitergium cosparso di gemme del valore di 200.000 fiorini d’oro.
Tavola 8 - Capitergium
Capitergium decorato a “onde montanti”. Rotella sforzesca conservata a Lucerna
Capitergium arricchito dai “piumai”. Cortile della Rocchetta
L’impresa del sole raggiante appare spesso
ingentilita da una colombina bianca recante nel becco un cartiglio con il motto
“A bon droit”. Bona di Savoja, la moglie di Galeazzo Maria Sforza, volle per sé
decorata con questa bella immagine un’intera stanza,
ancor oggi visibile nel Castello Sforzesco. La colombina col sole raggiante
orna il messale miniato da Annovello da Imbonate che Giangaleazzo aveva donato alla basilica ambrosiana a ricordo della
propria incoronazione; fra i gioielli portati in dote da Valentina Visconti,
figlia del primo duca di Milano, a Luigi d’Orléans, secondo il racconto del
Corio, spiccava per preziosità una collana “fatta a brievi con lettere a Bon
Droyt con tortorelle diciotto d’oro e una bianca in un raggio con rubino al
petto”: l’impresa del padre.
Tavola 9 - Colombina nel sole raggiante col motto “A bon droyt”. A sinistra, clipeo di S. Maria delle Grazie, a destra, capitello del cortile della Rocchetta.
L’origine di questa impresa, già appartenente
a Isabella di Valois, e del motto che la anima ci viene spiegata dal poeta di
corte Francesco di Vannozzo e dal Decembrio, precettore di Filippo Maria
Visconti. Entrambi li attribuiscono all’ingegno del
Petrarca. In una Canzone appositamente composta per Giangaleazzo, Francesco di
Vannozzo narra di aver avuto una visione durante la quale il Petrarca gli era apparso e gli aveva confidato di essere l’autore
dell’impresa:
Il sole e l’azur fino
che tengon in sua brancha
quella uccelletta bianca
qual “A bon droyt” in dolce becco tene
che la sentenza mia tutta contiene.
Cos’era successo? Ai tempi della sua
adolescenza, quando aveva dovuto subire le intemperanze dello zio Barnabò,
Giangaleazzo aveva mostrato una mitezza che gli eventi storici di cui fu
protagonista in seguito ci fanno pensare sia stata
simulata. Comunque sia, aveva espresso al Petrarca, a
lui familiare perché ospite della corte viscontea e dell’Università di Pavia,
il sogno di un paese unito, in pace e non devastato dalle milizie mercenarie.
La mitezza d’animo e le buone intenzioni espresse dal giovane
Visconti gli accattivarono le simpatie e la fiducia del poeta, ben
sensibile, come sappiamo, al problema delle “peregrine spade”. Col cuore aperto
alla speranza di una pace duratura, il poeta si era accomiatato dal Visconti donandogli questo emblema augurale, che
attraverso il motto sanciva la legalità delle azioni del futuro duca. Nel 1385
Giangaleazzo strinse un’alleanza con Pisani, Lucchesi, Senesi e Perugini per
eliminare dall’Italia le milizie mercenarie. “Pax”
garrivano i vessilli della confederazione! Ma il sogno
di pace del Petrarca non si avverò e il buon diritto attribuito al duca si
realizzò in una politica tirannica.
La capacità di simulazione del primo duca di
Milano è confermata dall’impresa del “Morso” accompagnata dal motto “Ich
vergies nicht”, io non dimentico. Questa impresa decora una lettiera e un carro
che Luigi d’Orléans fece costruire per la moglie Valentina Visconti. Il morso è
un invito a frenare l’impulsività del carattere e richiama alla riflessione e
alla necessità d’adattamento. Alla morte di suo padre, Giangaleazzo per
sopravvivere aveva dovuto adattarsi al clima di corte dominato dalla prepotenza
di Bernabò e dall’arroganza di tutta la sua cerchia: si era fatto
piccolo piccolo, si era finto inetto al governo, timido ed
irresoluto; aveva sopportato senza batter ciglio lo zio che lo svillaneggiava
pubblicamente e ne derideva la capacità di beneficare e perdonare. Vedovo
di Isabella, aveva accettato il matrimonio con una figlia di
Bernabò, Caterina, rinunciando a quello ben più prestigioso con Maria regina di
Sicilia. Ricorderà tutto al momento opportuno.
Tavola 10 - Il Morso col motto “Ich vergies nicht”. Clipeo di S. Maria delle Grazie. |
L’atto di accusa compilato da Giangaleazzo nei
confronti dello zio è assai duro: “Ipse dominus Barnabos diebus suis
scientificos, laicos, chiericos e prelatos ac quoslibet virtuosos viros odio
habuit et idiotas, crudeles et abiectos viros, infames (…) sempre sublimavit”.
Fu ordita una congiura il 5 maggio 1385: catturato a tradimento, Bernabò fu
rinchiuso nelle segrete del castello di Trezzo; vi morì non molto tempo dopo,
non si sa se di veleno o per orgoglio ferito.
L’eco di una congiura fatta ai danni di un parente stretto suscitò
grande emozione e scalpore. Come succede davanti a una vittima, ci si ricordò delle sue buone qualità: aveva
senso della giustizia, magari ferino (la novellistica in proposito è copiosa);
si circondava a corte di buffoni e poeti di non eccelsa levatura, ma aveva
dimostrato sensibilità artistica, facendo edificare, con l’aiuto della moglie
Regina della Scala, la chiesa omonima e disseminando di costruzioni il
territorio lombardo. In suo ricordo ci restano la chiesa di Santa Maria Rossa
in Monzoro e il castello di Pandino.
Tavola 11 - A sinistra, ciò che rimane oggi della chiesa di San Giovanni in Conca. A destra, la facciata reimpiegata per la chiesa valdese di via F. Sforza.
Tavola 12 - Bonino da Campione: monumento funebre di Bernabò Visconti proveniente dalla distrutta chiesa di S. Giovanni in Conca, ora nei Musei del Castello Sforzesco di Milano. Scene sacre (sono visibili gli evangelisti e una Pietà) decorano il sepolcro, mentre Sapienza e Fortezza affiancano (anche in funzione statica) la cavalcatura dell’eroe.
Tavola 13 - Il Castello di Pandino.
Tavola 14 - In alto, esterno e interno della chiesa di S. Maria Rossa in Monzoro. Nel cornicione dipinto sotto il tetto si alternano il Biscione e la scala degli Scaligeri, a ricordo del matrimonio di Bernabò con Regina della Scala.
Memore dei benefici ricevuti, il poeta di corte Braccio Bracci trovò il
modo di ricordare le doti del suo protettore:
Bernabò … Non perde mai tempo
visita sue castella e sua città
giusti decreti fa …
Egli è signor
prudente oltre misura
e ante vede con occhi mortali …
C’è poi chi, come Marchionne Arrighi, altro poeta cortigiano, dà voce
al lamento del tradito:
O figliol mio da me tanto amato
più che la luce mia certamente
perché ha’ così mal consiglio pigliato?
Conte di Virtù, nievo e parente,
marito di mia figlia incoronato
intrinseco in un corpo veramente
ricierche la tua mente
ch’abbia misericordia di me in tal forma
che il nostro sangue indietro non ritorna.
Esequie degne del rango
(Per Lombardia fecie risuonare
città e castella e tutta chiericìa
quando alla sepoltura il fe’ portare
da cavalier e nobil baronia
e le bandiere in terra fe’ tirare)
con campane “a mortorio” non dovettero certo
ripagare Bernabò del danno e della vergogna di aver subito un simile affronto
da uno che gli pareva un inetto. Alla memoria dei posteri lo affidò Bonino da
Campione con un monumento progettato quando il
Visconti era ancora potente: rispecchia la descrizione fattane da Braccio Bracci
in un sonetto di garbo cortigiano:
Elli ha le membra ben
proporzionate
e sua statura è dritta come un strale
e d’un leon pare il suo largo petto.
Elli è sì bello in ogni uman cospetto
ch’ogni altro bello presso a lui par nulla.
Trasferito dalla cappella di famiglia di San Giovanni in Conca al museo
del Castello, dall’alto della sua cavalcatura Bernabò ricorda ancor oggi a
visitatori ignari il suo dramma.
Rimasto solo al potere, Giangaleazzo non ha più bisogno di simulare.
Riprende la politica espansionistica dei Visconti col preciso progetto di un
regno d’Italia. Dal Piemonte al Veneto, dall’Emilia alla Toscana, il Biscione
inghiotte una miriade di città opulente, strategicamente importanti, attirandosi
rinnovate invettive come quella famosissima che il Sacchetti
[3]
aveva coniato per le mire espansionistiche di Bernabò:
Biscia, nemica di ogni ragione umana
ch’el verno, quando l’altre stan sotterra,
tu vai mordendo e facendo guerra (…)
Credi tu sempre, maledetto serpe,
regnar vivendo pur dell’altrui sangue
essendo a tutti velenoso tarlo?
Nel 1387, rispettivamente l’8 e il 22 ottobre,
erano cadute in mano viscontea Verona e Vicenza. E’
un’occasione d’oro per i poeti cortigiani di celebrare l’uomo mandato da Dio
“per pace dare all’italica gente”: così Francesco di Vannozzo definisce
il conte di Virtù in una “Cantilena” a lui dedicata. Il Biscione è divenuto
Una bissa vertudiosa
che tuttora se ingegna
de non donar veneno a chi nol brama
(buoni infatti sono i rapporti tra i Signori
spodestati e il Visconti: Guido Novello continua a risiedere a Padova e a
tenervi corte fastosa nonostante si sia arreso a Giovanni Dal Verme, capitano
delle truppe viscontee). Sempre nella suddetta Cantilena il fantasma del
Petrarca sollecita l’autore perché ricordi al suo Signore la responsabilità che
gli viene data dal grande destino prescrittogli da
Dio:
Il bel destin
che dal cielo t’è dato
re nostro sacrosanto illustre prince
a questo punto tutta Italia vince
facendo ciascun popol consolato.
Tutte le città del nord – dice il poeta al di
là di ogni credibilità – sono pronte ad accogliere il nuovo Signore. Venezia
offre il suo porto perché vi si radunino le truppe viscontee e partano per una crociata di liberazione del Santo Sepolcro;
Padova, pur riconoscendone la saggezza, ha già rinnegato la signoria dei
Carrara e attende l’uomo del destino:
Io son quella
città che fui fondata
per mano d’Antenor anticamente,
e ben che il mio rettor sagio e potente
m’abbia tra l’altre con onor trattata,
la desiata tua dolce sembianza
nel cor m’ha rifermato ardire e posa (…)
Non tardi al suo venir tua gran possanza
per medicare ogni tarmata scorza
che l’aer, il fuoco e la terra ti chiama
e l’ampio mar la tua venuta brama.
S’aggiunge al coro una città emiliana, Bologna, felice di essersi
liberata dalla schiavitù pontificia. La voce solenne di Roma riassume quelle di
tutte le altre città:
Io son la negra Roma che
l’aspetto
per farmi bella con pulita lena;
e non dubbiar che zò che a te lui mena
è il priego mio che al cielo ogni dì zetto (…)
Italia ride ed è zunto il Messia
Alla voce di Francesco di Vannozzo si unisce anche quella di un poeta
per noi rimasto anonimo:
Stan le città lombarde con le chiave
in man per darle a voi, sir di Virtute,
per risanar le loro aspre ferute,
che son tanto cocienti e così prave (…)
Roma vi chiama: Cieser mio novelo
i’son ignuda e l’anima pur vive,
or mi coprite col vostro mantelo
po’ francherem colei che Dante scrive
“non donna di provincie ma
bordelo”,
che piane troverem tutte sue rive.
Nel cerimoniale dell’incoronazione il luogotenente imperiale riconobbe tre volte beata la Lombardia in quanto, dopo tanto soffrire, aveva
finalmente trovato un figlio e un duca.
A coronamento del suo destino, Giangaleazzo volle una cattedrale degna
di un regno, la più grande d’Europa. Una statua di san Giorgio con le sue
fattezze avrebbe dovuto svettare sulla guglia maggiore a sottolinearne
la funzione d’intermediario fra cielo e terra. San Giorgio è un santo
sauroctono, di quelli che sconfiggono le forze del male a vantaggio della
comunità. Con questo simbolo Giangaleazzo intendeva continuare la tradizione
dei Visconti, che avevano sconfitto successivamente i
Saraceni, i Torriani e tutti coloro che si opponevano alla loro “giustizia”.
Destino volle che questa statua finisse invece su di una guglia minore, la
prima completata, quella detta Carelli dal nome del mercante veneziano di
schiave che, sentendo avvicinarsi la morte, pensò di alleggerirsi la coscienza
con un sostanzioso lascito alla Veneranda Fabbrica.
Tavola 15 - Giangaleazzo ritratto giovane dall’Amadeo (a destra) e trasfigurato (a sinistra) nell’effigie di S. Giorgio destinata a coronare la guglia maggiore ma poi trasferita alla guglia Carelli. Museo del Duomo.
Tavola 16 - Duomo di Milano, porta Minguzzi. L’arciverscovo Antonio da Saluzzo approva il modello del Duomo (sopra) e ne benedice la prima pietra (sotto).
Profuse la dote della moglie Caterina in un mausoleo degno di una
famiglia reale, la Certosa di Pavia. Morì all’improvviso nel 1402, colto da una febbre misteriosa a un soffio dalla realizzazione del suo sogno di conquista.
Firenze, pronta a sostenere l’assedio delle sue truppe, dovette trarre un sospiro di sollievo.
Tavola 17 - Immagini di Giangaleazzo nella certosa di Pavia.
Il duca offre il modello della chiesa alla Madonna, affresco del Bergognone. Nella veste appare l’impresa dalla colombina nella”razza”.
Sculture del portale: Corteo funebre del duca (a sinistra). Posa della prima pietra (a destra).
Tomba del duca e particolare.
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