La scoperta dei martiri
Il vocabolo reliquiae significa “resti”, inclusi
anche quelli corporei di un defunto. In Estremo Oriente il culto di reliquie corporee era una
consuetudine riservata alla venerazione dei capi religiosi, in Grecia lo si
concepiva per gli eroi. Scopo della reliquia era comunque quello di creare e
cementare le fondamenta delle istituzioni sulla base dei miti delle origini.
Il mondo culturale romano si dimostrò restio a usare resti
corporei, per l’orrore che aveva nei confronti di tutto ciò che era morto. Fu
il cristianesimo, religione orientale avulsa dalla tradizione romana, a rompere
questo tabù. Più che di cristianesimo, dovremmo parlare di cattolicesimo
e di vescovi di Roma provenienti in prevalenza dall’Oriente greco, perché la
fazione ariana rimase pervicacemente ostile al culto di reliquie, soprattutto
se di provenienza umana.
C’era un uso soft della reliquia, ossia oggetti venuti a
contatto con l’eroe cristiano, martire, apostolo o beato che fosse: strumenti
di tortura, stoffe, pietre, schegge di legno di oggetti che gli erano
appartenuti, emanazioni corporee (sangue e lacrime) raccolte su fazzoletti o
mischiati a gesso, ecc.
L’aspetto più hard era costituito dall’asportazione di ossa
da un cadavere (come nel caso degli apostoli) o, caso estremo, l’esumazione di
un cadavere ritenuto appartenere a un eroe della fede.
Il vescovo Ambrogio si avvalse di questa ultima modalità,
anche grazie al sostegno della corporazione dei becchini che nel cattolicesimo
aveva trovato una sua riabilitazione sociale. Una prima volta, nel giugno 386,
Ambrogio rinvenne nel cimitero dei Martiri di Porta Vercellina i resti di
Gervasio e Protasio. Il vescovo aveva manifestato l’intenzione di farsi seppellire
sotto l’altare della basilica da lui fondata accanto al sacello di S. Vittore,
scatenando uno sciame di polemiche per l’arroganza e l’orgoglio che così
dimostrava. Ambrogio per ispirazione divina riuscì a trovare due martiri da
seppellire sotto l’altare, accanto ai quali gli sarebbe allora stato lecito
venir sepolto. Geniale!
La seconda volta, per distrarre la popolazione dal pericolo
del ritorno al paganesimo, ebbe l’ispirazione di trovare altri due martiri nel
cimitero grande del Quadronno, due anonimi che prenderanno successivamente il
nome di Nazaro e Celso; traslò il primo nella basilica Apostolorum,
lasciò il secondo nel cimitero, in una cappella che diventerà la basilica di S.
Celso.
In questo modo il vescovo Ambrogio gettò le fondamenta per
la costruzione della chiesa cattolica milanese, che meritatamente prese il nome
di ambrosiana. I quattro martiri inventati divennero i pilastri non solo della
chiesa cittadina, ma il loro culto si diffuse in tutta l’ampia diocesi e
nell’Europa cattolica.
La capsella argentea
Nell’altare della
basilica Apostolorum venne riposta una capsella argentea, che oggi
rappresenta uno dei più interessanti oggetti del IV secolo in deposito presso
il Tesoro del Duomo. La storia, l’epigrafia e l’iconografia della cassettina ne
fanno un unicum nei reperti paleocristiani del territorio milanese.
Ipotesi e precisazioni storiche
Il primo a entrare in contatto con la preziosa cassetta fu
il vescovo Carlo Borromeo nel 1578, in occasione della ricognizione delle
reliquie contenute nell’altare maggiore. Nel 1894 il reliquiario fu
definitivamente tolto dall’altare e gli studiosi iniziarono a interessarsi a
questo splendido ed enigmatico oggetto. Ci fu chi lo definì opera di oreficeria
cinquecentesca, chi era pronto a giurare che era un falso ottocentesco, chi lo
collocò in età ambrosiana, aprendo allora un’altra serie di ipotesi, dubbi,
ricerche: da dove proveniva? La bottega orafa che aveva prodotto la capsella
era milanese, romana, tessalonicese, costantinopolitana?
Appoggiandosi sulla donazione di reliquie apostoliche e
incrociando le varie tradizioni, gli studiosi finirono per accettare l’idea che
la capsella fosse di provenienza romana, ma l’analisi stilistica recente sembra
aver invece stabilito la derivazione da botteghe orafe di Salonicco o di
Costantinopoli e collocato la produzione all’epoca di Valentiniano II.
L’equivoco ingenerò dal fatto che la basilica di S. Nazaro ricevette due
diverse reliquie di apostoli in due date distanti e da provenienze differenti:
nel 386 la dedica avvenne con le reliquie di Pietro e Paolo da Roma; nel 395 si
deposero le reliquie di Tomaso, Andrea e Giovanni Battista prelevate da
Costantinopoli, alle quali vennero unite le precedenti (brandea) di Pietro
e Paolo.
La cassettina ha le dimensioni di un cubo di circa 20 cm di
lato, con scene istoriate sui quattro lati e sul coperchio, incorniciate da un
motivo a treccia sbalzata.
E’ realizzata con una spessa lamina di argento lavorata a
sbalzo, con rifiniture a cesello e a bulino, con dorature a fuoco su capelli e
vesti per dare un effetto, molto elegante, di bicromatismo. Per far risaltare
la luminosità del rilievo, lo sfondo delle immagini è stato sottoposto a una
fitta martellinatura. All’interno del coperchio si trova, fissata con un perno,
una croce d’oro, che ne indica l’uso religioso.
L’iconografia è prelevata in buona parte dai repertori
imperiali e ci mostra un ritratto di giovane imperatore, che per motivi storici
e per la somiglianza con i ritratti dell’epoca, noi identifichiamo col piccolo imperatore Onorio, figlio di
Teodosio.
La cassettina d’argento sbalzato e dorato doveva essere
stata regalata a Onorio nel 391, in occasione della sua cooptazione
nell’impero, Valentiniano II ancora vivente. Quando nel gennaio 395 morì suo
padre Teodosio, Onorio – che aveva solo 11 anni – assunse il comando della
parte occidentale dell’impero sotto la tutela di Serena, nipote (poi figlia
adottiva di Teodosio) e moglie del generale Silicone.
Quale omaggio alla sua capitale, Onorio depositò il 9 maggio
395 nell’altare della basilica trionfale la sua cassettina, già molto usurata
(segno che ci aveva giocato?), impreziosita dalle reliquie degli apostoli
Giovanni, Andrea e Tommaso, prelevate dall’Apostoleion di
Costantinopoli.
Iconografia
La capsella si presenta come un dado di 20 cm di lato, con
cinque facce istoriate che si collegano alla simbologia imperiale e devono
riferirsi al piccolo imperatore:
Cristo annuncia la nuova dottrina agli Apostoli, sul
coperchio (senza immagine in questo testo). I cesti di pane e le anfore di vino
hanno simbologia eucaristica.
Giudizio
di Salomone. E’ un’iconografia che si presta a diverse letture simboliche.
Salomone è il committente del Tempio e fa trasportare l’arca dell’alleanza
dall’antica città di Davide. Salomone non veste panni orientali, ma è il
ritratto di un giovane imperatore romano, con le insegne del suo imperium,
tunica, clamide e scettro. Si tratta probabilmente dello stesso Onorio,
riconoscibile dalla faccia paffutella, come in un ritratto di Detroit o come
nella base dell’obelisco di Costantinopoli scolpita tra la fine del 391 e
l’inizio del 392.
Salomone, come Giuseppe che compare nel riquadro successivo,
ha il dono della Sophia, che consiste nell’onorare Dio.
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Giudizio di Giuseppe. Si tratta parimenti di una
simbologia legata alla Sophia, come prefigurazione del Cristo giudice
(Gen. 42-47). Giuseppe veste panni orientali.
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Tre ebrei nella fornace salvati da un angelo, vestito
da speculator con la corta tunica e la clamide (la mantellina), come la
divisa militare. Notare l’urbiculum sulla spalla, il clavio
verticale e la ferula. Notiamo che l’angelo (messaggero- speculator) è
ancora senza ali.
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Madonna con Bambino in trono tra schiere angeliche.
Qui i personaggi sono vestiti in parte col pallio, indumento preferito
dai cristiani al posto della toga, in parte come militari. Le figure che
affiancano la Madonna col Bambino esibiscono forme maschili, muscolose;
ricevono dal Re dei Re i missoria secondo il rigoroso cerimoniale della
corte di Costantinopoli, tanto che sono stati scambiati per dignitari (ma
allora l’iconografia sarebbe stata diversa). I missoria erano i piatti
d’argento che l’imperatore, a partire dal IV secolo, donava ai capi militari e
ai dignitari di alto rango in occasione della sua proclamazione, di anniversari
o di altre ricorrenze solenni. I due personaggi che ricevono i piatti sono
vestiti con il pallio, indumento che i cristiani hanno adottato dai
filosofi classici: sono due apostoli o santi, mentre gli altri personaggi
vestiti con la clamide militare sono gli angeli.
Maria non porta ancora il nimbo, come sarà solo dopo il Concilio di Efeso che
la definirà Theotokos, Madre di Dio. Ciò che nell’iconografia aveva destato
inizialmente stupore era l’assenza di ali degli angeli.
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(Foto della capsella
da O. Zastrow, L'oreficeria in Lombardia)
Lo stile della capsella è decisamente classico, collegato ai
bassorilievi greci, anche per il tipo di vestiario. Come dono a un bambino di
circa sette anni cooptato al trono imperiale ha un significato augurale e
contemporaneamente di alto contenuto teologico, come ci si potrebbe attendere
dal cattolicissimo Teodosio.
Analisi epigrafica
Le sorprese della capsella non finiscono qui. Sul fondo del
cubo si è scoperta una scritta, che venne ritenuta autografa di S. Ambrogio:
Il testo recita: “Alleluia. Domine Christe, faustum factum,
beate felix Christi. Amen. Domine misericordia”. L’esperto di epigrafia
Alfio Rosario Natale ha stabilito che l’elegante incisione sul metallo non è
tanto opera di un calligrafo di professione, che avrebbe usato una scrittura
libraria, quanto di “un uomo colto che usa lo stilo sul metallo come è abituato
a scrivere sul fondo cerato della tavoletta”.
L’encolpion di Manlia Daedalia
Sempre nel 1894, nella capsella argentea si trovò un encolpion
di argento con motivi e scritte incise. Il prevosto don Giuseppe Pozzi pensò di
tenere l’oggetto per sé e lo lasciò agli eredi, che lo cedettero ai Borromeo, i
quali ritennero di restituirlo alla basilica. Dal 1964 passò in deposito
perpetuo al Tesoro del Duomo.
Encolpion di
Manlia Daedalia, Tesoro del Duomo
L’encolpion era di Manlia Daedalia, con le scritte a
nastro DEDALIA VIVAS sul coperchio e IN CRISTO sulla base. Quello che ha
colpito gli studiosi è che la grafia è illetterata, è scritta come si
pronunciava, ossia Dedalia invece di Daedalia e Cristo invece di Christo,
errori incomprensibili per il colto ambiente dal quale Daedalia proveniva.
Il fratello Teodoro, sulla cui identità gli storici non
hanno ancora le idee chiare, le scrisse un epitaffio (oggi nella basilica
Ambrosiana) che la definisce “illustre per stirpe, ragguardevole di censo e
madre dei bisognosi… vergine a Dio consacrata… Arrivò a toccare il traguardo dei
sessant’anni…” Essendo qualificata come vergine velata, si è ritenuto che
Daedalia era fosse amica di Marcellina, sorella di Ambrogio e vergine velata,
che però morì nel 382. Fu allora che il fratello Teodoro fece dono al vescovo
di questo encolpion eucaristico, da deporre nel 395 sul corpo di Nazaro?
I frammenti ossei che si trovarono all’interno appartenevano allora all’amata e
santa sorella, che così poteva riposare fra le braccia di Nazaro? Se così
fosse, Teodoro aveva ottenuto il sommo privilegio e poteva veramente
appartenere all’aristocrazia di corte milanese.
La pratica
della depositio ad sanctos
La sepoltura nei pressi delle reliquie della basilica Apostolorum
et Sancti Nazari divenne infatti ambitissima: più si era vicini all’altare e
più si era sicuri della grazia per contatto.
All’esterno della basilica, tutto intorno all’abside e ai
bracci del transetto, si appoggiarono ai muri piccoli mausolei privati e tombe,
quasi a voler cercare la protezione dei santi apostoli e del martire milanese.
Le tombe rinvenute negli scavi sono risultate tutte prive di corredo, con casse
funebri in sarizzo.
Le tombe paleocristiane affrescate
A un metro di distanza dal muro di fondazione della canonica
verso piazza S. Nazaro e a due metri sotto il piano attuale di calpestio
vennero ritrovate alla metà dell’Ottocento alcune tombe dipinte risalenti al IV
secolo, che ci sono note solo attraverso disegni.
Una di queste riveste particolare interesse per la comprensione del clima
culturale dell’epoca. Vediamone l’iconografia:
- lato
corto di testa: una pernice in mezzo ad alberelli e 7 stelle; un pavone
con due piccoli nel nido e 7 stelle.
- Fiancate:
chrismon con alfa e omega e 7 stelle; gallo con arbusto e 7 stelle;
piante fruttifere e fronde
- Lato
corto di piedi: busto di Cristo (?) con il mano il bastone ricurvo degli
auguri e ai lati il sole e la luna; Lazzaro avvolto nelle bende.
Accenniamo brevemente a un’interpretazione che vuole essere
più suggestione che spiegazione. Uno dei cardini della religione tardo-antica
era la credenza che un’imperfezione avesse sfigurato il volto dell’universo: da
una parte era coagulata la terra opaca, materiale, dominata dal male,
dall’altra era filtrata la cristallina volta stellata. La morte poteva
significare il superamento di questa imperfezione se la persona era stata
virtuosa, perché allora l’anima poteva passare in cielo, dopo la morte
corporea, come un lampo di luce. Le stelle presenti in questa tomba collocano
l’anima del defunto, sotto forma di uccelli simbolici (pernici e pavoni), in un
paradiso (giardino), accennato da fronde ed alberelli, lassù nel cielo.
Il chrismon indica chiaramente che il mezzo della
salvezza è il Cristo, che compare fra sole e luna, a garantire la resurrezione
del defunto come già fece con Lazzaro.
Le stelle sono sempre in numero di sette: ciò starebbe a
indicare che ci si trova in presenza di una forma di cristianesimo sincretista,
che ha inglobato in sé principi dello gnosticismo e del culto di Mitra. Sette
erano le sfere o i pianeti o le Pleiadi o le porte che l’anima doveva
attraversare per risalire al punto della creazione e nella sua ascesa, ad ogni
stazione, l’anima si spogliava dell’imperfezione assorbita durante la sua vita
terrena. Sette stelle potevano semplicemente simboleggiare l’intero universo,
come del resto il sole e la luna.
Questa tomba resta comunque fra le più interessanti dal
punto di vista dell’iconografia paleocristiana fra quelle rinvenute a Milano.
Il “famedio” all’interno
Se il cimitero all’esterno della basilica si riempì di
personaggi in grado di conquistarsi, per merito e per censo, questa santa
protezione, all’interno della basilica trovarono posto i personaggi legati alla
corte imperiale e alla sede metropolitica milanese.
Ci fu nel tempo una dislocazione delle tombe:
Nel IV e V secolo le sepolture si disposero intorno
all’altare maggiore e quindi alle reliquie degli apostoli. Quattro vescovi
della prima metà del V secolo, Venerio, Marolo, Glicerio e Lazzaro, che vennero collocati in
sarcofagi accanto all’altare, confermando così per la basilica il ruolo di
seconda per importanza dopo la cattedrale, una vera basilica del trionfo
cristiano e un famedio cittadino.
Tra i personaggi laici illustri sepolti in S. Nazaro c’è il
medico egiziano Dioscoro,
probabilmente al servizio della corte imperiale. Dall’analisi dei caratteri
epigrafici si è arrivati a datare la lapide tra la fine del IV e l’inizio del V
secolo.Venne tumulato nell’emiciclo occidentale del braccio destro (oggi
cappella Tondani), che conserva ancora un tratto di pavimentazione originaria a
piastrelle di marmo bianco e nero. La lapide, visibile nel braccio destro di
croce, è scritta in greco con un breve riassunto in latino.
“Qui fu la tomba de
chiarissimo Dioscoro, della cui bocca più dolce del miele era la voce. Sono il
sepolcro del medico Dioscoro che con la sua arte spesso salvò i malati anche da
morte. Questi giunto all’apice di ogni sapienza, lasciò qui il corpo e se ne
andò in paradiso. Qui giace un uomo valente nell’arte di Peone che tutti
sorpassò nell’arte del dire. Ebbe il nome di suo padre Dioscoro e sua patria fu
il santo Egitto e sua gloria la nostra città. Qui giace il famoso Diascoro.
Tacque la sua lingua, più dolce del miele era la sua voce. Sepolto il 20
novembre” (430).
Altro personaggio legato alla
corte era un comes sacrarum largitionum con la moglie Saura. La lapide,
parzialmente danneggiata e privata del nome del defunto, è così riassumibile:
“(qui riposa)…, illustre, già
comes sacrarum largitionum (ministro delle finanze imperiali), il quale fu
deposto il quarto giorno prima delle calende di ottobre, durante il consolato
dei Onorio per la dodicesima volta e Teodosio per l’ottava (28 settembre 418);
e la sua coniuge Saura, illustre, insieme riposa, la quale fu deposta la
vigilia delle calende di marzo, quando fu console Festo, chiarissimo, e chi
sarebbe stato proclamato dall’Oriente (28 febbraio 439).”
Nel VII-VIII secolo le tombe si disposero intorno alle
reliquie di S. Nazaro.
Nel X secolo si ebbero inumazioni presso la basilichetta di
S. Lino, appena costruita.
Come fece osservare Peter Brown, la pratica della depositio
ad sanctos evidenziava un privilegio sociale che definiva, sotto forma
della prossimità delle reliquie, il diagramma della distribuzione del potere
sociale all’interno della comunità cristiana.
Distribuzione delle tombe all'interno della basilica, da
Ambrosius '63 in Ambrogio e la cruciforme, p. 63
I difensori celesti delle mura
Nella trasformazione urbanistica segnata dal passaggio al
mondo cristiano, le mura sono il solo elemento che mantenne il suo significato
originario, di diaframma, di separazione fra organizzazione e caos, con
un’unica differenza: alle divinità pagane poste a difesa delle porte si
sostituirono gli angeli e dalla fine del IV-inizi V secolo si rinforzò la
difesa con la presenza delle reliquie di martiri e confessori nei santuari
lungo le principali vie d’accesso.
A Roma papa Damaso si era qualificato come grande scopritore
e valorizzatore di reliquie di martiri, facendo leva sulle persecuzioni
soprattutto neroniane. Aveva rilanciato la basilica Apostolorum, sorta
sulle catacombe (S. Sebastiano), dove erano stati temporaneamente trasportati
Pietro e Paolo.
Milano non aveva avuto persecuzioni, data la non significativa
presenza di giudei e la mancanza di diffusione del credo presso la popolazione
locale nei primi secoli.
Fino all’episcopato di Ambrogio, prevalendo la fazione ariana
più vicina alla mentalità romana, non si ebbero santuari extramurani, poi,
grazie alla grande capacità mediatica del vescovo, anche Milano ebbe la sua
potente difesa delle sue mura con otto santuari dislocati a formare un ottagono
protettivo:
· Porta
Vercellina la basilica dei Martiri o
Ambrosiana con le reliquie di Gervasio e Protasio;
· Porta
Giovia S. Martino ad Nemus;
· Porta
Comacina la basilica delle Vergini (un frammento della croce?);
· Porta
Nuova la basilica Sanctorum Veteris Testamenti (di incerta
collocazione);
· Porta
Orientale la basilica Concilia Sanctorum (poi diverrà SS. Romano e Babila);
· Porta
Tonsa la basilica ad Innocentes (poi S. Stefano);
· Porta
Romana la basilica Apostolorum e di S. Nazaro;
· Porta
Ticinese S. Eustorgio.
A parte l’Ambrosiana e la basilica Apostolorum di
committenza vescovile e quella detta delle Vergini di committenza imperiale, le
altre basiliche erano molto probabilmente cappelle sorte su aree cimiteriali in
vari periodi.