Le mura
Con Augusto, Milano entra a
far parte della XI Regio Transpadana (Lombardia Occidentale e Piemonte
Settentrionale) e riceve un nuovo e più razionale circuito di mura, che adotta
l’orientamento obliquo consono all’impronta lasciata dal santuario celtico e
all’orografia tracciata soprattutto dal Seveso. Il pomerio gallo-romano di 23 actus
si trova incluso in un altro quadrato di 25 actus (813 m), con un
perimetro approssimativo di circa 3,5 km.
Nella zona che stiamo
esaminando – il Sestiere di Porta Romana – le mura furono rintracciate in
diverse parti e in tempi diversi. Nel 1924, in occasione della costruzione
degli uffici comunali, ne apparve un lungo tratto in via Pecorari, seguito nel
1937 da un altro tratto in via delle Ore. Nel 1779 il Piermarini aveva trovato
i resti di una torre sotto quello che oggi è il teatro Lirico in via Larga, che
faceva il paio con un’altra rinvenuta a S. Clemente nel 1870: cominciava a
delinearsi il profilo delle mura!
La Pusterla del Bottonuto,
tra il vicolo delle Quaglie e il Cantoncello, non c’era bisogno di scavarla,
perché era rimasta lì fino alle demolizioni fasciste. Le mura che sono state
documentate in via Paolo da Cannobio, dove si apriva la Porta Romana, proseguivano
quindi tra via Maddalena – dov’era il fossato - e via S. Vittorello fino a
congiungersi con via Cornaggia, appartenente al sestiere di Porta Ticinese.
La glareata Laudense venne
lastricata con basoli e ampliata da 6 m a 8 m, perché nel nuovo impianto
urbanistico assumeva il ruolo di arteria principale.
Tra le mura e il fossato
difensivo c’era una distanza maggiore di quella riscontrata nelle altre
porzioni di perimetro. L’eccezione dipendeva dal letto del Seveso, che in via Larga formava il laghetto naturale.
Da scavi effettuati una prima
volta negli anni 1935-1936 per l’apertura di piazza Diaz e una seconda volta
nel dopoguerra (1951 e 1954) era emersa una banchina di porto tra il
Bottonuto e via S. Clemente, con un andamento parallelo alle mura romane,
dalle quali distava ben 14 m. La banchina era larga ca. 2,50 m, pavimentata con
lastre di serizzo posate su palificazioni di rovere alte 2,50 m.
In via Larga e in via S. Clemente si alzavano due torri, adibite forse alla
sorveglianza delle barche o a magazzini di derrate statali.
La datazione della banchina
era contemporanea alle mura augustee, per cui gli archeologi si trovarono di
fronte a una darsena tangente le mura, come ad Aquileia, e poterono dedurre che
il fossato di Milano fosse navigabile.
Il Seveso si “immetteva” nel
laghetto in via S. Clemente e ne usciva incanalato nel fossato difensivo in via
Maddalena.
La zona commerciale
Approfittando di questa
favorevole situazione idrica, nell’area tra il fossato di via Maddalena e via
Rugabella-piazza Erculea si installarono manifatture e depositi, rinvenuti
sempre in occasione dello scavo della MM3. La prossimità della Darsena e il
decorso del Seveso spiegano la presenza di un grande magazzino per il deposito
e la vendita di ceramiche in vernice nera e terra sigillata, inizialmente
importate da Arezzo, poi prodotte localmente (ma non in questa zona).
Sempre in via Rugabella c’era
un’officina per la fusione del ferro, molto pericolosa per gli incendi e quindi
opportunamente collocata fuori mura e vicino all’acqua.
C’era anche un macelleria
bovina, che gettava gli scarti nel canale di scolo che correva parallelo alla
via Laudense, sfruttando la pendenza naturale.
Queste attività produttive
smisero di funzionare alla metà del I secolo d.C., quando tutta la città subì
una catastrofe ambientale: sono qui documentati episodi di scorrimento
torrentizio, dovuti al Seveso, confrontabili con quelli verificati negli scavi
nell’area dell’Università Cattolica: Milano andò sott’acqua!
Nella zona di Rugabella si
costruirono dopo i drenaggi delle abitazioni,
che furono nuovamente abbandonate nel III secolo perché fuori mura e facili
prede delle incursioni barbariche.
L’antemurale
Non è documentata da scavi archeologici
l’esistenza di un antemurale a Milano, ma sappiamo che un vallo difensivo
veniva costruito persino intorno agli accampamenti provvisori, per fermare
comprensibilmente – come i frangiflutti in un porto – l’onda di invasori e,
nello stesso tempo, proteggere gli edifici che per motivi di sicurezza pubblica
si trovavano fuori dalle mura cittadine.
Questo primo sbarramento
difensivo venne ripreso in buona parte in età comunale con lo scavo di un
fossato e la cerchia di mura, riassettate dai Visconti nel Trecento. La
porzione coincidente è quella di via Francesco Sforza dall’altezza di via S.
Barnaba fino a Porta Ticinese, mentre nella parte superiore è difficile
riconoscere il possibile andamento dell’antemurale a causa della successiva
“addizione erculea” della fine del III secolo d.C.
La presenza di sepolture
potrebbe essere un indizio attendibile per stabilire dove si trovasse questo
avamposto difensivo, perché i cimiteri si sarebbero comunque posti – fino
all’età ambrosiana – al suo esterno, data la presenza nella fascia tra mura e
antemurale di officine, arena, abitazioni periferiche.
I porti di Milano sono
destinati a breve vita, perché pochi decenni dopo la costruzione delle mura
augustee, come accennato prima, la città subì una “storica” alluvione… non
riportata dagli storici.
Per motivi di sicurezza alla
metà del I secolo d.C. si dovette prosciugare il laghetto che occupava tutta la
carreggiata di via Larga.
Si crearono maestose opere
idrauliche di convogliamento delle acque, documentate in piazza Diaz e al
Bottonuto; l’area prima occupata dal laghetto ricevette un intenso drenaggio
con anfore capovolte e fu destinata ad area verde, costituendo quello che in
futuro sarà il “Brolo”, che include le attuali vie S. Antonio, Chiaravalle e
Pantano. Rimase a indicare l’esistenza del lago la via Poslaghetto, scomparsa
per la costruzione della Torre Velasca.
Tutte queste opere
idrauliche, secondo la nostra tradizione, furono eseguite durante il governo
del famigerato Nerone, tanto che il Sevesetto prese il nome di Nirone. Nerone
aveva una spiccata passione per i modelli urbanistici greci, che volle imitare
negli aspetti di ampiezza e solidità dei materiali, dando il via alle fornaci
di mattoni per diminuire il rischio di incendi. Il malgoverno che caratterizzò
gli ultimi anni del suo principato si fece sentire in misura talmente modesta
fuori Roma, da far sì che il principe fosse tra i pochi ricordati positivamente
a Milano.
Oltre ad essere state
analizzate dagli archeologi, delle opere di canalizzazione del Seveso era
rimasta traccia nel toponimo “Bottonuto”. Già Belloni nel 1952 aveva avanzato
l’ipotesi che il nome si riferisse a un’opera idraulica: Butin-ucum
farebbe pensare al vocabolo italiano “bottino”, che in idraulica si riferisce a
una galleria sotto l’alveo di corsi d’acqua per scolare le acque dei terreni
più bassi.
Per accedere a questa
fognatura si dovette costruire una sorta di torretta, che prese il nome di aumatium,
ricordata ancora nel Trecento da Galvano Fiamma:
“Aumatium fuit hedifitium
rotundum in centro civitas fundatum, occultis et transversis cameris
distinctum, purgationi ventris deputatum, quod est in magnis civitatibus
perutile nimis, aliter omnis locus stabulator”.
Le
bonifiche
Anche se l’alluvione della
metà del I secolo d.C. fu eccezionale, era frequente l’impaludamento della
porzione meridionale della città, per cui già in età augustea, volendo
espandere le insulae, si procedette alla bonifica. Augusto aveva
sollecitato i maggiorenti locali a investire nell’edilizia cittadina e quindi a
reperire i fondi per affrontare opere costosissime di drenaggio.
Per sfruttare l’area che
andava da via Torino a Porta Romana si scavavano trincee, che venivano riempite
con anfore capovolte intere o frammentate, poi si procedeva alla costruzione
degli edifici, che risultavano isolati dalle infiltrazioni d’acqua. Questa
tecnica edilizia definita “a strati” è molto insolita per l’edilizia romana ed
è stata studiata in occasione degli scavi della MM3 grazie ai moderni mezzi di
indagine archeologica. In seguito alla bonifica si resero abitabili ampie zone
per la costruzione di insulae e di edifici anche esterni alle mura.
Nuove insulae e abitazioni fuori porta
La maglia delle strade
romane, che definivano le insulae, è qui rimasta inalterata fino alla
metà del XIX secolo, quando si è stravolto (tanto per cambiare) l’orientamento
della rete urbana. Le insulae milanesi avevano una dimensione di 80 m x
115 m, simili a quelle di Torino.
Tra via Speronari, via Torino,
via Falcone, via Unione c’era un’insula abitativa, documentata dai
reperti di un pozzo venuto alla luce nell’area di S. Maria presso S. Satiro,
che conteneva oggetti, monete del III-IV secolo, utensili per la coltivazione
dei campi, in parte esposti nella stessa chiesa. Via Speronari è forse la via
che più di ogni altra mantiene l’orientamento e il tracciato della strada
romana, visibile nelle cantine dei negozi a lato della basilica di S. Satiro a
un livello di – 2,60 m dal piano stradale.
Utilizzato per il rinforzo
del fossato di via Maddalena, riaffiorò nel 1919 un bel ritratto di età
giulio-claudia, forse una scultura di Germanico, proveniente da un ambiente
molto colto
. Germanico,
destinato a succedere a Tiberio, morì invece assassinato nel 19 d.C. ad
Antiochia e fu subito divinizzato. Ovviamente non sappiamo a quale contesto
appartenesse la statua con la testa di Germanico.
Dalla prima metà del II sec.
d.C., l’età degli Antonimi, Milano ricevette un grande impulso socio-economico
e venne elevata al rango di colonia imperiale. La via Laudense divenne via
consolare romana e ricevette una radicale manutenzione: il piano stradale venne
rifatto e sopraelevato di 70 cm.
Anche le abitazioni civili
ostentarono il nuovo rango e un notevole benessere. Si fa largo uso di pietre
da costruzione importate dal Carso (Pietra di Aurisina) e dai Monti Berici
(Pietra di Vicenza).
In Piazza Missori, dove oggi
si ergono tristemente negletti i resti dell’abside della basilica di S.
Giovanni in Conca, è documentata la presenza di una casa romana di fine II-
inizi del III secolo. Gli scavi furono eseguiti nel 1880 da Castelfranco e
misero in luce tracce di un pavimento musivo policromo a – 1,70 m dal piano
stradale che ricopriva con un disegno unitario un vasto ambiente. Il mosaico,
conservato nel Museo archeologico di corso Magenta, è realizzato con motivi a
meandri derivanti da nastri alternati di triangoli neri e trecce color marrone
e arancione. All’interno della composizione si aprono dei riquadri contenenti
figure, delle quali si è conservata solo una leonessa in atto di spiccare il
balzo.
Nel 1949 sotto l’abside della
cripta di S. Giovanni in conca si è rinvenuta anche una vasca, interpretata o
come un serbatoio d’acqua per l’edificio o come una vasca termale dello stesso
.
In via Lamarmora, in zona
cimiteriale, è stato trovato un edificio di notevole livello, datato tra il II
e il III secolo d.C. L’edificio, attinente in qualche modo alla necropoli, non
ebbe lunga vita, perché andò distrutto a causa dell’incursione degli Alemanni,
come del resto tutto quello che si trovava fuori dall’antemurale e la zona non
venne più abitata.
In occasione degli scavi per
le fondamenta del palazzo INA in piazza Diaz venne alla luce un pozzo a – 5,10
m dal piano stradale, dal quale furono prelevati frammenti di lastrine di
marmo, lucerne, una piccola statua marmorea di Mercurio, monete delle fine del IV secolo (data che stabilisce il termine ultimo
dell’esistenza del pozzo) e una grande quantità di materiale termale. Possiamo
immaginare che dove in epoca goto-bizantina venne fondata la basilica dedicata
a S. Giovanni Itolano o in Laterano,
si trovasse in origine un edificio termale.
ritorna