A parte la necessità di non
disperdere un patrimonio di leggende così importante, è bene rammentare a
questo punto che gli Insubri non arrivarono in una terra deserta, come afferma
lo stesso racconto liviano.
I miserrimi reperti archeologici
risalenti addirittura al XVII sec. a.C. ci segnalano il passaggio di persone
distratte che in piazza Missori hanno dimenticato le loro selci, di un altro
visitatore che si è separato dall’ascia di bronzo in piazza S. Stefano,
presumibilmente per motivi più drammatici, dato il costo dell’attrezzo.
Ricordiamo che si tratta di aree prossime al laghetto, dove nei mesi più afosi
si poteva prendere un bagno. Più intriganti i reperti del XVI-XV sec. a.C. alla
Cascina Ranza fuori Porta Ticinese (via Filippo da Liscate): era un ripostiglio
di armi costituito da due spade, due asce e una lancia, importate dalla
Svizzera. Siccome non si tratta di un corredo funerario, dobbiamo pensare che
si trattasse di un arsenale segreto da utilizzare durante le spedizioni. Vista
la provenienza elvetica, perché non pensare a due spie in territorio ligure?
Scherzi a parte, questi
reperti non dimostrano che vi fossero nuclei abitati stabili o organizzati in
qualche modo, neppure quando dal VI secolo si istituì il medhelan. Solo col
passare del tempo e non prima della fine del V secolo a. C. gli insediamenti si
organizzarono progressivamente fino ad assumere la configurazione di una città,
per gli Insubri il loro capoluogo amministrativo.
Allo stesso modo, quando si
parla di romanizzazione s’intende un lento processo che dalla fine del III
sec. vide una presenza marginale di commercianti, per passare al dominio
culturale del II secolo a.C. e finire con la sottomissione politica della città
nel I sec. a.C., conclusa con l’oscuramento della cultura celtica nel I sec.
d.C.
Un
isolato gallo-romano e il pomerio
Il primo passo per sancire
l’ingresso di una città nel mondo religioso romano era quello di darle un
perimetro simbolico, il pomerio.
Per stabilire dove passasse
l’irrinunciabile pomerio della città gallo-romana, operazione quasi impossibile
a Porta Comasina, disponiamo qui di un indizio interessante. Le indagini svolte dalla
Soprintendenza Archeologica della Lombardia negli anni 1982-1990 durante gli
scavi in piazza Missori per la stazione della M3 hanno fornito nuovi dati per
la Forma Urbis Mediolani.
Tra le novità di maggior
rilievo c’era la constatazione che via Unione e non il corso di Porta Romana
dettava l’allineamento delle abitazioni dell’attuale piazza. Per la prima volta,
grazie alle più sofisticate tecniche di indagine, si è potuto studiare un
quartiere gallo-romano. Le case erano costruite prevalentemente in legno, con
pareti divisorie interne di graticcio appoggiate sopra travi disposte
orizzontalmente, con pavimenti di terra battuta e resti di focolari, non molto
diverse dalle antiche case di montagna.
In un periodo successivo alla
presenza di questi quartieri, ci furono demolizioni per favorire la costruzione
della nuova strada verso Laus Pompeia (Lodi) e perciò detta Laudense.
Qui le novità furono duplici: 1° la via Laudense era posteriore all’impianto
urbanistico gallo-romano, 2° aveva un orientamento diverso dal resto della
maglia stradale.
Via Unione e corso di Porta
Romana si congiungono infatti, con diversa angolatura, all’altezza di via
Zebedia, che si trova nel mezzo di una linea retta che congiunge il Bottonuto
alla porzione finale di via Torino, per intenderci quella che va da S. Giorgio
al palazzo al Carrobio. Se si osserva la pianta di via Torino, si nota subito
che questo tratto di via Torino che va alla Porta Ticinese è anch’essa
visibilmente fuori asse rispetto al tratto che proviene da piazza del Duomo.
La Porta del pomerio doveva
quindi aprirsi alla congiunzione di via Zebedia e via Unione, lasciando fuori
la via Laudense, tracciata in contemporanea.
La
strada Laudense o Romana
Visto che è un elemento
importante per la comprensione dell’evoluzione urbanistica di Milano,
occupiamoci della nuova strada per Lodi… e per Roma, ovviamente. Politicamente
il tracciato di questa strada sta a indicare il cambio di indirizzo
socio-politico milanese: non più la Vigentina interna al paludoso mondo
insubrico, ma una strada che porta al Lambro, all’Oriente padano e a Roma.
Milano era diventata la Mediolanum dei Romani, intesa come in mezzo alla
pianura. Lodi era a guardia del commercio con l’Italia orientale grazie alla
sua posizione strategica sul Lambro e sul Sillaro. La conquista dei guadi del
Lambro e il diritto di navigazione diventeranno l’assillo milanese, fino alla
soluzione finale del 1158 contro la scomoda Lodi.
La strada per Lodi era una
glareata di 5,80 m (20 piedi) con ai lati due canali di scolo e le crepidines
o marciapiedi. A confermare che la strada è stata concepita contemporaneamente
al pomerio e quindi con l’ingresso ufficiale di Milano nel mondo romano, ci fu
nel 1954 la scoperta di un edificio del I sec. a.C. di fronte a S. Nazaro.
Dagli scavi emerse un pavimento del I sec. a.C. appartenente a un edificio
importante, con esedra, ma l’aspetto più sconcertante per gli archeologi che
interpretavano i reperti era che i pavimenti non erano orientati secondo il
piano stradale di corso di Porta Romana e ne invadevano per metà la
carreggiata. Solo recentemente Donatella Caporusso, l’archeologa della
Soprintendenza che ha potuto dare sistematicità ai reperti degli scavi della
MM3, ha avanzato l’ipotesi che l’edificio fosse una caserma di gladiatori
preesistente alla via Laudense.
Il nostro cronista medievale Galvano
Fiamma ci spiega che nel Brolo c’era un edificio noto come
Ergasterium,
interpretato come “fabbrica” ma di lavori forzati, cioè un
Ergastulum,
che poi era un luogo privato dove i padroni rinchiudevano schiavi o condannati
per i lavori più faticosi.
Lo descrive con la solita
enfasi:
“Fuit hedifitium altissimis muris circumspectum, diversis cameris et
stabulis distinctum, in quibus erant tauri indomiti, ursi et tygrides. Ubi
certis diebus aspitiente niverso populo iuvenes sive tyrones nostre urbis adveniebant
et cum bestiis pugnabant, gratia furoris sed non criminis. In isto loco nunc este ecclesia Sancti Nazarii in
brolio“
La caserma di gladiatori o ludus
si presentava infatti come un carcere. I gladiatori erano una classe sociale
senza diritti: schiavi, prigionieri di guerra, criminali condannati. Per
evitare fughe, la caserma si trovava vicina al luogo dei combattimenti. Oltre
alle camerate per i gladiatori, nella caserma c’era lo spoliarum
(obitorio), il sanarium (infermeria), l’armamentarium, il summum
choragium per i macchinari, ovvero la rimessa di tutti gli effetti scenici
adatti alla caccia.
La caserma fu sfrattata o
ridimensionata per la costruzione della via Laudense, mentre l’arena continuò a
sussistere nel Brolo anche dopo la costruzione di un nuovo anfiteatro in pietra
a Porta Ticinese.
Anfiteatro
del Brolo
L’esistenza di un anfiteatro
romano nel Brolo venne rilanciata nel XIV secolo da Galvano Fiamma e ripresa dal più serioso Paolo Morigia nel 1592.
Non sappiamo da quali fonti
il Fiamma avesse attinto le sue informazioni, ma è davvero incredibile come si
sia avvicinato alla descrizione dei riti celtici sopra citati. Ci spiega
infatti che, quando scoppiavano delle liti, invece di risolverle in tribunale
davanti a un giudice, si scendeva in campo a combattere. Si riferisce
ovviamente a un tempo in cui non era in vigore la giurisprudenza romana.
Poi
descrive genericamente l’edificio:
“amphiteatrum fuit
haedifitium rotundum altissimo muro circumspectum, in quo erant due porte. Una
versus oriens, altera versus occidens”, ma nel Flos florum chiarisce che l’edificio
si trovava nel Brolo. Quella verso oriente era la porta che dava su S. Barnaba
dov’era la necropoli. I gladiatori morti venivano portati via da due
inservienti vestiti uno da Ermes, recante un caduceo arroventato da applicare
al corpo del morto per saggiarne le reazioni, l’altro da Caronte, con una
maschera di rapace, che colpiva con una mazza la testa del morto. Il cadavere
usciva trascinato da inservienti sulla sabbia dalla porta Libitania. Questa
sorte toccò al gladiatore Urbicus, la cui lapide venne rinvenuta in questa
necropoli.
Il ricordo dell’arena celtica
viene perpetuato dal Besta, che sostiene con vero spirito “antiquario” che
l’edificio descritto dal Fiamma risaliva a un periodo anteriore l’arrivo dei
Romani, “quando Milano era senza leggi, senza tribunali di giustizia, senza
dottori e senza causidici”
Morigia amplia la narrazione,
aggiungendo che nei pressi si trovava l’Ergasto, che lui interpreta come
un serraglio dove si tenevano gli animali feroci per le venationes, non
allontanandosi troppo dalla realtà, visto che nella caserma dei gladiatori
c’erano anche le stalle e le gabbie degli animali da usare per i giochi.
Nel Seicento un altro storico
locale, il canonico di S. Nazaro Carlo Torre, delizia la fame di “mistero”
accennando nel suo Ritratto di Milano (p. 26) a un drago ritrovato sotto il
Mausoleo Trivulzio davanti a S. Nazaro:
“Trassi da una istoria
manuscritta datami dal Principe Cardinale Teodoro Trivulzi, adoprandomi io
construere l’arbore di sua antica famiglia (…) come nell’iscavare i fondamenti
di questo Mausoleo, fù trovato il carcame d’un orribile e mostruoso drago; ciò
non vi rasembri fuori di credito, poiché questo sito dianzi d’essere
ecclesiastico, aitava à formare quel vasto Serraglio chiamato Ergasto, dove
solevansi racchiudere ferocissime belve, con le quali veggevansi ogni giorno
accozzar ardite persone armigere, mutassi poscia tal serraglio in selva, detto
Broglio…”.
Quello che abbiamo ricordato
fin qui è un corpo di leggende straordinarie, che fanno intendere quante
stratificazioni di verità, narrazioni, fantasie, racconti si siano sedimentate
in ogni angolo della nostra antica città. Non è sempre necessario cercare il
vero, se non per rinfocolare un po’ le leggende che si spengono. Noi ci
spingiamo un po’ oltre e mettiamo altra legna sul fuoco: forse lo scheletro
dell’enorme drago apparteneva a un alligatore, visto che i draghi dei dipinti
non erano altro che lucertoloni, e forse un alligatore partecipò insieme a
ippopotami e bufali alle naumachie, che si potevano svolgere sul laghetto,
trasformato per l’occasione in una grande arena…
La
centuriazione dell’agro
Contemporanea al tracciato
del pomerio e della via Laudense ci fu la centuriazione dell’agro. Si potrebbe
rintracciare la centuriazione nelle immediate vicinanze della città nella zona
poi nota come “Brera guasta”, estesa tra via Orti, via Lamarmora, via Commenda.
Brera in latino medievale risulta da una forma corrotta di “praedia”, poderi,
e potrebbe riferirsi agli appezzamenti della centuriazione.
Gli agrimensori romani
procedettero alla misurazione di 23 x 23 actus (748 m quadrati),
ulteriormente frazionati in lotti di iugeri (200 per ogni centuria). Su questi
poderi si aprirono nel corso dei secoli dei viottoli, il cui tracciato si è
conservato nella maglia di strade sopra citate, mentre a occidente del corso di
Porta Vigentina, per intenderci nella zona del Quadronno, non abbiamo segni di
centuriazione.
Necropoli
e usi funerari romani
I terreni centuriati
attraversati dalla via Laudense dal I secolo a tutto il II vennero usati per
sepolture, costituendo una delle maggiori necropoli milanesi, estesa su una
superficie di 540 m x 320 m, che includeva anche la porzione verso corso di Porta
Vigentina e il Quadronno verso S. Celso.
Le sepolture di questa
necropoli sono modeste, per cui si può supporre che quello di Porta Romana
fosse un cimitero popolare. Nonostante la grande estensione, abbiamo pochi
resti di tombe, perché le lapidi, i cippi e tutto ciò che sporgeva è stato
utilizzato nel III secolo per rinforzare fossati e torri, riconsegnando l’area – la Brera guasta – all’uso agricolo.
Vi sono alcune eccezioni che
riguardano la monumentalità:
- un grande monumento funebre
di età augusteo-tiberiana, i cui frammenti sono riemersi nel 1938 in via delle
Ore, dove erano stati utilizzati nel III secolo per rinforzare il fossato
difensivo. Si tratta di due monumentali braccioli a forma di zampa d’aquila,
appartenenti a un’imponente tomba abbastanza insolita per l’ambiente milanese;
- un edificio a pianta
circolare degli inizi del I sec. d.C., di notevole impegno architettonico, al
quale appartiene un concio di calcare, scolpito col ratto di Ganimede da parte
di Giove, riemerso sempre dagli scavi di via delle Ore;
- un basamento di età augustea,
demolito per la costruzione dell’Arco trionfale nell’ultimo quarto del IV
secolo.
Sorge comunque spontanea la
domanda: ma dei defunti in tutta la città dalla seconda metà del III secolo alla
seconda metà del IV che ne è stato? Anche ammessa la contrazione della
popolazione per epidemie, invasioni, devastazioni, i pochi rimasti dove
venivano sepolti? E’ possibile che bastassero le necropoli fuori Porta Giovia
(Parco Sempione) e Porta Vercellina (S. Ambrogio), dove le sepolture sono
continuate ininterrotte fino al IV secolo?
L’analisi delle sepolture ci
indica molto sul costume della popolazione locale appartenente alla classe
medio-bassa. Il rito prevalente è a cremazione. A S. Caterina troviamo un raro
esempio di bustum, con la pira sulla fossa, risalente alla seconda metà
del I secolo o agli inizi del successivo. Si sono trovati i chiodi della
barella e gli oggetti fusi nel rogo; questo era un procedimento riservato ai
ricchi.
Via Commenda presenta strati
di terra di rogo, era cioè una zona dove venivano accese le pire (ustrina).
In questo caso le ceneri venivano raccolte in tre modi:
- in anfore segate, come in
alcune tombe di S. Antonino, di via Commenda, via Lamarmora, Quadronno o intere
o in olle con coperchio
- in cassette fatte coi
tegoloni (modalità che scompare dopo il I secolo)
- direttamente sulla terra,
senza raccolta di ceneri, col corredo, come a S. Antonino.
L’atrio d’ingresso
dell’abitazione del defunto veniva addobbato con rami di cipresso e di pino
tinti di rosso. La salma, adagiata sul letto funebre, rimaneva esposta per tre
giorni, durante i quali il fuoco domestico doveva rimanere spento, quindi
veniva trasportata in corteo con le fiaccole accese (tradizione rimasta da
quando i funerali si potevano svolgere solo di notte) fino all’ustrina.
Prima di deporre la barella sul rogo, si chiamava il defunto, gli si aprivano
gli occhi e gli si augurava buon viaggio. I suoi oggetti più cari bruciavano
con lui sul rogo dopo essere stati frantumati.
Dopo la combustione della
salma, si spegneva il rogo con acqua e vino e si raccoglievano le ceneri nelle
modalità sopra elencate; nella fossa che era stata acquistata si ponevano gli
oggetti della veglia: una lucerna (ma un lume acceso stava anche sopra la
tomba, come ai nostri giorni), i balsamari usati nei tre giorni di esposizione
e un servizio da tavola composto da bicchiere, tazza, piatto, olle per la
conservazione e la cottura dei cibi, come il costoso vaso in pietra ollare
ritrovato in S. Antonino.
In alcuni casi si sono
trovate anche statuette in terracotta, come l’auriga di via degli Orti del I
sec. d.C.
Nella fossa venivano infine
messi i resti del banchetto funebre, con l’aggiunta di una zampa integra e non
cotta dell’animale, dalla quale sarebbe cresciuto un nuovo e integro animale.
Sono state riesumate zampe di palmipede (perché le oche erano anche psicopompe)
e denti non combusti di cane e di cavallo.
La fossa veniva richiusa
lasciando un foro ricoperto da un’anfora senza fondo per le profusiones (libagioni),
rito esecrato da S. Ambrogio nel IV secolo e quindi ancora largamente
praticato.
La cerimonia si concludeva
col rito di purificazione, aspergendo d’acqua i partecipanti con un ramo di
alloro dopo averlo fatto passare sul fuoco. La famiglia portava il lutto per
nove giorni (novendiale), che si concludevano con un banchetto e coi ludi
novendiali, da tenersi nel vicino anfiteatro.
A questo punto il defunto era
stato trasformato in Mane dai suoi parenti al cospetto di testimoni, che sorvegliavano
la correttezza del rito. Nel caso si fosse verificata qualche negligenza, il
defunto poteva trasformarsi in un terribile lemure, col danno di tutta la
collettività, finché non avesse ricevuto i dovuti onori.
Le imprese di pompe funebri (libitinarii)
erano lucrose ma soggette alla perdita di diritti pubblici per i lavoratori,
che furono tra i primi ad aderire alla tollerante religione cristiana. Visto
l’impegno del rito funebre, si intuisce che l’impresa doveva contare su diverse
figure professionali: i pollinctores (imbalsamatori), i vespillones
(trasportatori), i designatores (cerimonieri), gli ustores (addetti
al rogo), i fossores (fossori).
L’industria del caro estinto
includeva anche lapicidi e scultori, grazie ai quali disponiamo di un consistente
repertorio di lapidi. Molte stele funerarie portano la sigla D-M e LDDD, che
significano “agli Dèi Mani” e “luogo dato con decreto dei decurioni”.
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