Una liturgia della monarchia era assente presso i
Longobardi. Forse Pavia aveva vissuto maggiormente il cerimoniale regio
longobardo in S. Michele, ma non risulta che vi fossero particolari cerimonie
per la sepoltura e per la consacrazione dei re, che non avveniva in chiesa, ma
nei circhi o di fronte all'esercito. I Franchi inaugurano la liturgia
della monarchia ispirandosi all'età costantiniana e all'impero bizantino. Gli spazi liturgici
ricevono una nuova sistemazione, funzionale al rigido cerimoniale che si viene
instaurando e la gerarchia ecclesiastica viene disciplinata come un
esercito. Vescovi e abati sono di nomina reale, scelti fra i fedeli alla
dinastia o fra i parenti e godono del privilegio dell'immunità. I vescovi nel
ricevere il pastolare, invece della spada, giurano fedeltà al re come
qualunque altro vassallo.
Con Carlomagno Milano torna ad essere la metropoli della
provincia ecclesiastica nord-occidentale,
togliendo la sede alla capitale longobarda Pavia. A partire da questo momento
il vescovo a capo di una provincia è detto
arcivescovo e il primo a fregiarsi
di questo titolo a Milano è Tommaso, che il 2 giugno 781, vigilia di
Pentecoste, ha l’onore di battezzare Gisela, figlia di Carlomagno.
La Chiesa ambrosiana vedeva poi un ordo maior o cardinale, preposto
all'officiatura con l'arcivescovo della cattedrale e delle chiese matrici
nelle grandi feste, e un ordo minor o decumano, che dipendeva da un primicerio
e si occupava della liturgia quotidiana e di quella funebre.
Della
gestione dell'ingente patrimonio della provincia e della metropoli si occupavano
i procuratori detti “avvocati”,
che garantivano la riscossione delle imposte e la gestione dei
tribunali, costituendo una sorta di gabinetto dei ministri.
Mentre queste pratiche temporali erano gestite in case private, le faccende
ecclesiastiche, incluso il tribunale che doveva giudicare l’operato dei
religiosi, si sbrigavano nella cattedrale, attorno cioè alla cattedra
dell’arcivescovo nel presbiterio.
Il luogo privilegiato di tutta questa imponente e gravosa amministrazione
divenne l'area intorno alla cattedrale, circondata sin dall'età romana da un
alto muro, in modo da formare una cittadella ecclesiastica.
Le reliquie di S. Tecla
L’impatto di Carlomagno col clero milanese non fu dei
più felici. Desideroso di eliminare ogni minima differenza all’interno
della liturgia, onde poter collocare vescovi di sua nomina in qualsiasi parte
dell’impero senza ricorrere alle elezioni locali, Carlo suscitò
prevedibilmente la
resistenza del clero milanese. Seguendo i buoni consigli offerti al nuovo re dai suoi validi
ministri, non solo l'organizzazione della Chiesa milanese divisa in clero
decumano e cardinale non venne toccata, ma la nuova metropoli ricevette fondi
per l'adeguamento delle sue strutture ai nuovi compiti.
Nell’anno 811 Carlomagno assegnò alla Chiesa milanese una
dotazione suntuaria, forse anche un avorio tardo-antico, noto come Dittico
delle cinque parti, di fattura ravennate, conservato nel Tesoro del Duomo.
Si tratta di due grandi copertine di avorio,
suddivise ciascuna in cinque parti finemente intagliate. Sul frontespizio si
vede l'Agnello realizzato in granati incastonati in argento e inserito in una
ghirlanda; nella tavola di chiusura al centro vi è una croce.
Ma il dono più prezioso venuto dalla Francia fu la
testa di S. Tecla,
per sistemare la quale si diede avvio al lavoro di ripristino della basilica del S.
Salvatore.
Il rifacimento carolingio della cattedrale
Sfortunatamente la storia tace circa il periodo di arrivo della reliquia di S.
Tecla a
Milano e sul conseguente rifacimento della basilica, ma è probabile che
l'episodio riguardi il governo di Ludovico il Pio, successo al padre nell'814 .
Ludovico era particolarmente devoto a S. Batilde, la regina vissuta nel VII
secolo che aveva promosso la fondazione di monasteri, tra cui anche quello di
Chamalières con le reliquie di S. Tecla.
Il presbiterio
venne rialzato a formare una grande tribuna alla quale si accedeva con una
scalinata centrale, sul modello della basilica Ambrosiana. L'abside venne
arretrata per dar maggior ampiezza al presbiterio, ma fu ridotta in
profondità e rimpicciolita. Per l'occasione ricevette una nuova decorazione a
mosaico, sfortunatamente a noi ignota.
La cripta, posta a - 1 m dal piano di calpestio della chiesa, era dotata di
sedici colonnine che sostenevano il pavimento del presbiterio. Vi si trovavano
le reliquie di S. Pelagia, l'altra nuova titolare della basilica
insieme a S. Tecla. Inizia da questo momento la depositio ad sanctos
nella basilica; la gestione delle inumazioni e i proventi derivati dalle
cerimonie funerarie spettavano ai decumani.
La basilica maior venne così a essere intitolata al S. Salvatore e S.
Tecla, ma col tempo rimase solo il titolo di S. Tecla.
Il nuovo polo religioso carolingio
Il modello simbolico della basilica doppia
Tutte le sedi episcopali vennero dotate, come citazione d'età
costantiniana ma
con diversa funzione, di due basiliche. Tra gli esempi a noi noti in area lombarda
ebbero due
cattedrali gli episcopati di Pavia, Cremona, Bergamo, Brescia, Como e
Vercelli.
Secondo la tradizione medievale, la basilica aperta all'assemblea dei fedeli era
dedicata a un martire, spesso S. Stefano o a un vescovo locale o a un santo di
culto particolarmente vivo, mentre la cattedrale portava il titolo di S. Maria,
quale simbolo dell’Ecclesia. Il
modello che più si avvicina alla nostra sistemazione del complesso cattedrale
è quello di Gerasa.
La costruzione di S. Maria Maggiore
Spetta all'arcivescovo Angilberto
I (822-824) la fondazione della nuova basilica di S. Maria. E’ un franco inviato da Ludovico
il Pio, l’imperatore che nell’816 aveva promosso la riforma
canonicale, imponendo la vita in comune del clero. Angilberto I non visse abbastanza da vedere la
realizzazione del suo progetto, che venne ultimato dal suo successore
Angilberto II, con la consacrazione nell’836. Per la cerimonia l'imperatore
donò una croce gemmata e l'arcivescovo un altare d'oro, simile a quello
realizzato da Volvinio in S. Ambrogio.
La basilica misurava m 65 x 30 m e aveva tre navate, coperte a capriata, con un deambulatorio che girava intorno
all’altare; era
dotata di un atrio, forse un quadriportico,
citato da Landolfo sr, e da un altro
atrio posto “a latere portae
respicientis ad aquilonem” in cui erano ospitate le
scuole del clero.
Presso lo spigolo nord della basilica si ergeva un imponente campanile
ottagono, del diametro di m 18.
S.
Maria maggiore divenne la cattredrale vera e propria, come un tempo lo era
stata la basilica vetus. Funzionava
per l’istruzione dei catecumeni, le cresime, i sacramenti, l'amministrazione
giuridica vescovile. Essendo di dimensioni più ridotte rispetto alla basilica
di S. Tecla, divenne la cattedrale jemale o invernale, mentre la basilica di
S. Tecla era considerata estiva. Il passaggio da una basilica all'altra - transmigratio
- avveniva con grandi cerimoniali in periodi prefissati.
In S. Maria Maggiore si riuniva il Capitolo della cattedrale per
eleggere l'arcivescovo. Il Capitolo era un'istituzione autonoma rispetto
all'arcivescovo, possedeva beni propri e spesso esercitò un potere
concorrenziale nei confronti dell'arcivescovo.
Le transmigrationes
I manoscritti liturgici testimoniano due transmigrationes
annuali da una basilica all'altra: dalla terza domenica di ottobre fino alla
vigilia di Pasqua si stava nella cattedrale jemale, poi il clero si spostava in
S. Tecla. La transmigratio, anche
nel nome, ricordava l’esodo pasquale ebraico attraverso il Mar Rosso,
simboleggiato anche dal rito del battesimo alla vigilia. Nella processione
veniva usata un’arca del Vecchio e
Nuovo Testamento, custodita nella sacrestia di S. Maria Maggiore.
I doppi battisteri
Con la costruzione di S. Maria Maggiore, il complesso episcopale tornò
ad avere due battisteri distinti,
come del resto era anche a Pavia, specializzati nei battesimi per uomini e
donne, anche se ormai si diffondeva l’obbligo del battesimo ai fanciulli.
Il battistero di S. Giovanni alle Fonti era più prestigioso rispetto al
battistero di S. Stefano alle Fonti, ma entrambi ricevettero adeguati restauri.
Alla mattina e alla sera, dopo le Lodi e i Vespri, alcuni ordinari si recavano
in processione cantando da un battistero all’altro, rito documentato almeno
a partire dalla fine del secolo XI, ma senz’altro precedente.
La canonica degli ordinari
Nell’825 Lotario, figlio
di Ludovico il Pio e re d’Italia, col Capitolare
di Corte Olona, dovette ribadire ai vescovi l'ordine di preparare delle abitazioni accanto a
ogni cattedrale perché il Capitolo della cattedrale potesse vivere “canonice”,
ossia in vita comune secondo i canoni. La disposizione verrà reiterata da papa
Eugenio II l’anno successivo e ancora nel febbraio 876 in una dieta a Pavia
presieduta dall'arcivescovo Ansperto. A Milano la canonica degli ordinari
si trovava quasi a
fianco di S. Stefano, quindi sull’area della basilica vetus,
fra l’abside e la sacrestia aquilonare del nostro Duomo e fu demolita solo nel 1386 per la costruzione
del Duomo.
La Schola dei Vecchioni o di S. Ambrogio
Con questo nome erano indicati i membri della Scuola di S. Ambrogio operanti
nella cattedrale milanese. La Scuola era composta da venti membri,
dieci uomini e dieci donne, che durante le messe solenni all'offertorio presentavano al celebrante il
pane e il vino per il sacrificio eucaristico.
La prima menzione documentaria risale al testamento dell'arcivescovo Ansperto
del 10.9.879 "pauperes qui dicuntur Schola sancti Ambrosii".
La Scuola dipendeva dal cimiliarca ed era presieduta da un priore (membro più
anziano di nomina). All'atto dell'investitura i vecchioni ricevevano in capo
il berretto rotondo nero, le vecchione l'anello; ambo i sessi indossavano una
talare nera con cotta, che per le donne era fermata ai fianchi da una cintura
in cuoio; i due vecchioni che portavano le offerte si servivano del fanone,
un'ampia sopraveste bianca con cappuccio nero con la quale tenevano in mano le
ostie e il vaso del vino.
Nelle processioni la Scuola precedeva il clero ed era introdotta dalla propria
croce astile d'argento, mentre un vecchione portava il flagello di S.
Ambrogio.
Dai documenti e dalla tradizione locale conosciamo l’esistenza di quattro
cappelle dedicate al culto degli arcangeli che dovevano disporsi a
protezione della cattedrale di S. Maria: S. Uriele, S. Michele, S. Gabriele,
S. Raffaele. Quello che alcuni studiosi hanno cercato di fare è stato di
trovare a quale sistema ideologico queste dediche potevano far riferimento per
poter arrivare a un significativo modello interpretativo, ma le diverse date
di fondazione (dal V al X secolo) sembrano escludere che esistesse un progetto unitario iniziale.
Ci soccorre nella ricostruzione dell’ubicazione delle quattro cappelle il
Besta con la sua descrizione:
- "(S. Maria Maggiore) era in mezzo a quattro chiese dedicate a
quattr’Arcangeli. Quella verso l’Oriente a S.
Rafaele, che era un poco più oltre al Camposanto dirimpetto al
Monastero di S. Radegonda; et che fosse in detto luogo si è visto per i
fondamenti che furno scoperti in tempo che si fece la scalinata di Marmo
che è da quella parte.. La seconda di dette quattro Chiese era dedicata a S. Michele
detta poi S. Michele sotto ‘l
Duomo; quale pochi anni sono per l’antichità sua minacciando rovina
fu profanata, e distrutta, et fabricatovi a spese della fabrica del Domo
una gran casa con botteghe che guarda dritto alla Torre del Verzaro verso
l’Occidente. Poco discosto dal Coperto delle bollette vi era la chiesa
di S. Gabriel de Decumani
et dall’altra banda che è hora in Domo dove s’insegna la
Disciplina Christiana a i putti, che è la parte che guarda verso la corte
dell’Arengo gli era la chiesa di S.
Uriele."
S. Uriele
L’ubicazione della piccola basilica di S.
Uriele è alquanto problematica, ma in base alla descrizione del Besta
potrebbe essere identificata con l’aula che affiancava il battistero
di S. Giovanni. Costruita tra la fine del IV secolo e l'inizio del V, secondo
il Besta servì da oratorio per la preparazione dei catecumeni e da consignatorium
fino al secolo XI.
Il culto di S. Uriele era diffuso nel medioevo fino alla condanna - per altro
disattesa - del concilio
lateranense del 745, che ritenne canonici solo i tre arcangeli Michele,
Raffaele e Gabriele. Uriele (in ebraico "fuoco di Dio") era
definito “quello dei tuoni e del tremore” ed era identificato con
l’arcangelo della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso, poiché era lo
spirito che stava al cancello dell'Eden impugnando la spada di fuoco. Nel Libro
di Enoch Uriele sarebbe stato inviato da Dio a Noè per avvisarlo del
diluvio; in altri scritti apocrifi era l'angelo seduto accanto alla tomba di
Gesù, che avverte le pie donne della resurrezione; secondo altri testi sarebbe l’angelo che
condusse Giovanni Battista fanciullo nel deserto per cui l'abbinamento al
battistero di S. Giovanni potrebbe essere supportato da questa lettura. Era
comunque un arcangelo venerato soprattutto nell'Oriente siriaco ed è
probabile che a introdurne il culto a Milano sia stato un vescovo proveniente
da quelle regioni.
S.
Michele subtus domum
La chiesa di S.
Michele subtus domum era, come
suggerisce il suo titolo, presso la domus archiepiscopi ossia
l’arcivescovado. Sorgeva all’angolo con via Pattari
ed era stata fondata dal vescovo Giovanni
Bono per il ritorno del clero cardinale a Milano nel 649 come chiesa
vescovile in sostituzione della scomparsa basilica vetus o di S.
Stefano. Il vescovo, nativo di Recco o Camogli, rimase comunque a Genova e
solo le sue spoglie furono traslate nella chiesa di S. Michele da Ariberto
d'Antimiano. E' da notare la nuova titolazione della basilica episcopale
che da S. Stefano, il protodiacono al quale erano quasi ovunque dedicata una
delle due cattedrali, passa al "longobardo" Michele, forse in onore
del re Rotari che aveva favorito il ritorno a Milano del clero.
La chiesetta era lunga ca. m 20 e larga m 12-13, con abside rettangolare, affiancata sul
lato nord da un campanile e da una cappella che intralciavano il traffico di
via Pattari. Era dotata di un pozzo e aveva locali soprastanti.
La chiesa di S. Michele sotto il duomo verrà parzialmente convertita nel 1593
ad uso commerciale e demolita tra il 1844 e il 1850 per costruire il palazzo
della Fabbrica del Duomo.
S. Gabriele
Meno si sa sulla chiesa di S.
Gabriele, se non che era posta tra le due cattedrali e che venne assegnata
alla scuola dei lettori, ossia a
coloro che leggevano dal pulpito e cantavano gli inni ambrosiani.
Gabriel in ebraico significa “Dio
è la mia forza”; è il nuntius
per eccellenza e quindi l’assegnazione ai lettori della cattedrale era
appropriata. La sua festa cadeva il 24 marzo.
Era un piccolo edificio con locali soprastanti, probabilmente costruito
insieme a S. Maria Maggiore e al campanile ottagono. Il piccolo cimitero
annesso era forse riservato in origine agli stessi lettori.
Nel 1157 i lettori affittarono S. Gabriele ai decumani, che avevano la
canonica a fianco, per celebrare la messa di notte. I decumani non si fecero
scrupoli di subaffittare tutti gli spazi liberi, persino il cimitero, ai
venditori con le loro bancarelle, suscitando la riprovazione dei lettori per
l’uso improprio che veniva fatto della loro cappella. Infine, dopo
innumerevoli questioni, S. Gabriele venne ceduta ai decumani con una permuta,
ricordata in un documento del 1192, rimanendo in loro possesso fino al
crollo del campanile di Azzone alla metà del Trecento, che la
travolse.
S. Raffaele
E’ l’ultima e l’unica superstite delle quattro cappelle, anche se
rifatta a partire dal 1579 nella via omonima su progetto di Pellegrino Tibaldi
o di Galeazzo Alessi.
Mentre le altre tre chiesette si trovano sulla piazza e formano una sorta di corona intorno alle cattedrali, S. Raffaele è defilata.
Nel 903 l’arcivescovo Andrea
(m. 906) fondava uno xenodochium
presso la sua abitazione per l’assistenza a poveri e infermi. Il complesso, “non
multum longe ab ecclesia, quae dicitur aestiva” presso il monastero “quod
vocatur Vigelinde”, comprendeva bagni detti “balnea
antiqua”¸ forse ciò che
restava di terme, una corte con un
orto che aveva ricevuto per permuta da Gaidolfo, abate di S. Ambrogio e
una piccola cappella dedicata
all’arcangelo Raffaele, collegato ai luoghi di cura.
Andrea lasciò la gestione dello xenodochium
e della chiesa a suo nipote Varimperto¸ con la condizione che
nell’anniversario della sua morte desse un pranzo per dodici cardinali,
distribuendo loro i ceri dell’oblazione, e tre denari più un pasto per cento
poveri costituito da pane, lardo, cacio e vino. Dopo la morte di Varimperto,
che aveva ricoperto a sua volta la cattedra episcopale dal 918 al 921,
xenodochium e chiesa sarebbero passati al monastero di Wigelinda. Il
Giulini dice che lo xenodochium
scomparve, ma le monache di S. Radegonda conservarono il diritto di eleggere
il parroco della chiesa di S. Raffaele fino al tempo di Carlo Borromeo. Nel
921, alla sua morte, Varimperto venne sepolto in S. Raffaele.
Il piccolo sacello subì forse dei danni col terremoto del 1117 e venne
riconsacrato solennemente l’11 ottobre 1119 dall’arcivescovo Giordano da
Clivio; alla metà del XIII secolo divenne sede degli Umiliati, del secondo o
terzo ordine, che aggiunsero la titolazione a S. Zerborio.
La presenza di balnea antiqua nella
casa dell’arcivescovo Andrea e la destinazione dell’area a ospedale fanno
ritenere che la dedica del sacello a S. Raffaele fosse parte integrante del
progetto. Anche la celebrazione liturgica di questo arcangelo (festa 24
ottobre), al contrario
degli altri due, non compare nei sacramentari che in questi anni. Il nome
ebraico Rephael
significa “Dio ha guarito” e l’arcangelo è una manifestazione del
potere taumaturgico della fede. Secondo il Libro
di Tobia Raffaele fu inviato per guarire Tobia dalla malattia agli occhi e
per liberare Sara dal diavolo Asmodeo che faceva morire i suoi sposi prima
della notte nuziale. Raffaele era quindi medico ed esorcista, prestandosi come
figura archetipica ad assimilare le antiche divinità guaritrici e a divenire
lo spirito guida dei medici. Gli Ebrei usavano
scrivere il nome di Rephael nelle
formule di guarigione e sugli amuleti contro le malattie, mentre il mondo
cristiano orientale sostituì col suo culto quello ad Esculapio,
rappresentando anche l’arcangelo sotto forma di serpente.
In età carolingia ci fu il rilancio delle biblioteche e
degli scriptoria. Insieme alla
biblioteca di S. Ambrogio, anche la cattedrale possedeva la sua. Nell’812
Carlomagno rivolse all’arcivescovo Odelperto alcuni quesiti sul battesimo;
il presule milanese gli rispose con un trattato, il Liber
de baptismo, che era un sunto delle posizioni di S. Ambrogio, i cui testi
erano disponibili nella biblioteca.
Il recupero di S. Ambrogio divenne un preciso programma pastorale e politico
dei Carolingi. Angilberto II fece il massimo per rilanciare una scuola
della cattedrale sui livelli del nord Europa, importando libri e maestri,
come Ildemaro e Leutgario, che diffusero lo studio dei classici commentati. La
scuola aveva sede nel portico sul lato nord di S. Maria Maggiore. Durante il
suo lungo episcopato arrivò a Milano la grandissima enciclopedia carolingia,
il Liber glossarum, composto in
Francia.
A Milano, da quest’epoca a quella di Tadone (860-880), erano al lavoro copisti irlandesi, allievi di Sedulio Scoto.
La provincia
ecclesiastica è divisa in diocesi,
con a capo i vescovi; la diocesi
è a sua volta divisa in arcidiaconati
retti da arcidiaconi; gli arcidiaconati sono suddivisi in decanati, diretti da arcipreti. L’Italia carolingia ha cinque province ecclesiastiche: Roma, Ravenna,
Milano, Cividale, Grado (al posto di Aquileia).
La navata ritornò ad avere un pavimento in cocciopesto, ritrovato a quota
m - 1,45. S. Lusuardi Siena ed altri, La
città e la sua memoria, Electa, Milano 1997, p. 40.
Non nella stessa posizione dell’odierna, spostata più ad oriente dalla
mole degli edifici che la fiancheggiano.
Gli inni non videro forma scritta prima del XII secolo, per cui era
importante la trasmissione continua orale.
Cesa Bianchi terminò la facciata nel 1892 con pezzi donati dalla Fabbrica
del Duomo e con un’erma trovata nei sotterranei di Palazzo Marino.
Bibliografia
Fiorio Maria Teresa, S. Raffaele, pp. 226-229; S.
Tecla, pp. 235-236, in Le chiese di Milano, Electa, Milano 1985
L'organizzazione dell'eterno. Struttura e dinamica del campo religioso,
Milano 1979
Milano e i Milanesi prima del Mille, Atti del X Congresso Intrernazionale
di Studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 1986
Piva Paolo, La cattedrale doppia. Una tipologia architettonica e liturgica
del Medioevo, Pàtron Editore, Bologna 1990
Pracchi Attilio, La cattedrale antica di Milano, Laterza, Bari-Roma 1996
Riché Pierre, I Carolingi. Una famiglia che ha fatto l'Europa, Sansoni,
Firenze 1988
Rotta Paolo, La coscienza religiosa medievale. Angelogia, Bocca, Torino
1908
Sui Carolingi:
http://www.medio-evo.org/carlo.htm
http://spfm.unipv.it/zanella/Programmi/Manuale/CentriCulturaCarolingi.html
Sulle basiliche doppie:
http://www.aph.cnrs.fr/AnTardWEB/Numero4.html
: è il Sommario del n. 4 (1996) della Rivista Antiquité tardive dedicata
alla tavola rotonda svoltasi a Grenoble nel 1994 sul tema "Les
eglises doubles et les familles d'eglises"
Ultimo aggiornamento: lunedì 29 luglio 2002
mariagrazia.tolfo@rcm.inet.it