Il Broletto dell’arcivescovo
Il significato di "broletto"
Il complesso episcopale per motivi difensivi era circondato da un muro
di cinta; questa recinzione non ha un nome particolare nei documenti, tanto che
se ne era persa la memoria fino ai recenti scavi in piazza del Duomo.
La domus episcopi a sua volta aveva una recinzione che includeva degli
orti verso l'attuale via Larga. Questo terreno prese il nome di "brolo
minore" o "broletto" per distinguerlo dal "brolo
grande", un vasto appezzamento di terreno anche coltivato e con case
che si estendeva dal Verziere all'attuale Porta Romana.
Il termine "brolo" deriva da un etimo celtico, brògilos,
passato al latino tardo brogilum col significato di “frutteto recintato”.
Per una ragione che ci sfugge, solo i poderi con orti e vigne appartenenti a
monasteri o alla Chiesa presero il nome di "broli". La parola col tempo assunse
in area lombarda il significato generico di “area del potere ecclesiastico"
e infine di "area del potere politico".
Nel broletto arcivescovile avevano luogo le riunioni dei rappresentanti laici
della città, sovrintese dall'arcivescovo in qualità di vicario imperiale. Uno
dei più famosi arcivescovi di questo periodo è senza dubbio Ariberto
d'Intimiano.
Ariberto
d'Antimiano (o Intimiano)
Ariberto d'Antimiano, suddiacono
della Chiesa milanese, venne eletto arcivescovo nel 1018, dimostrandosi
immediatamente un orgoglioso sostenitore della supremazia della Chiesa
ambrosiana e arrivando persino a divulgare come credibile l’errore di
trascrizione in un Catalogo dei 72
discepoli, che in età longobarda aveva assegnato all’apostolo Barnaba la
fondazione della Chiesa di Milano.
Per difendere gli interessi della Chiesa ambrosiana a Genova promosse anche il culto
del vescovo Giovanni Buono in S.
Michele subtus domum, con una solenne traslazione da Genova, perché secondo la
tradizione era stato lui a riportare il clero cardinale a Milano dopo
l'auto-esilio a Genova in età longobarda e a lasciare in eredità i suoi beni
in territorio genovese alla Chiesa ambrosiana.
Sebbene esistesse un conte di Milano, Ugo d’Este, che nel 1021 tenne un placito alla presenza
dell’arcivescovo nel broletto
“in caminata maiore, prope balneum quod dicitur stua”, Ariberto
si comportò come se tutto il potere politico e amministrativo della città
fosse nelle sue mani: era vicario
imperiale per Enrico II, esercitava se non de
iure almeno di fatto i poteri di conte ed era coadiuvato dai suoi funzionari
laici - la sua mano armata -, il cui capo prese il titolo di vice-comes
(visconte).
Favorevole alla vita canonicale, nel testamento del 1034 redatto prima della sua
partenza per la Borgogna concesse ampie donazioni al clero cardinale perché si
disponesse "ad reficiendum in canonica ipsius sancte Marie sicut illorum
ordo et consuetudo esse debet". Questo significa che il clero cardinale
viveva tranquillamente a casa propria, ignorando la canonica degli ordinari presso
S. Stefano che doveva quindi essere rifatta.
Il
monastero del Lentasio
In un periodo di tempo imprecisato venne fondato un monastero
femminile intitolato a S.
Maria in Lentasio di fronte al portico di S. Tecla. Ne conosciamo l’ubicazione sull’area orientale
dell'odierna piazza dei Mercanti a causa delle proteste del monastero per
l’esproprio subito in previsione della costruzione del Broletto Nuovo nel
1230 ca. La data dell’edificazione del monastero dovrebbe aggirarsi intorno
al X secolo, perché compare nell’elenco dei monasteri femminili beneficiati
dal testamento dell’arcivescovo Ariberto nel 1034.
E' curiosa la titolazione "in Lentasio" che sembrerebbe riferirsi a un
toponimo, ma siccome non possediamo documenti di questo monastero anteriori alla
citazione fattane da Ariberto, non possiamo affermare che "Lentasio"
fosse il nome del luogo davanti a S. Tecla o che si riferisse a un'altra area
dalla quale il monastero era traslocato. Successivamente il monastero verrà
detto tout court "del Lentasio".
Il monastero verrà successivamente spostato a Porta Romana, nella via che
mantiene il nome dell'ormai scomparso monastero.
Il monastero di S. Radegonda
Sul complesso cattedrale prospettava il
monastero di S.
Maria di Wigelinda, detto anche del S. Salvatore. Era una grande recinzione che
si estendeva fino alla chiesetta di S.
Raffaele. Nel 1006 la badessa Elena dava
a livello per 29 anni al vescovo di Brescia Landolfo un appezzamento di terra
con sala e casina vicina a S. Raffaele per 68 tavole (ca. 1854 mq) e nel 1013 la
stessa badessa affittava a livello per 29 anni 3 tavole (80 mq) al negoziante
Rimperto. Negli atti è detto ancora “monasterio domini Salvatoris qui dicitur Vuigelinde ad locus qui
nominatur Computo”. Negli altri documenti del 1081 e del 1097 è detto
solo monastero di S. Salvatore.
Intorno al 1130 l'antico monastero viene intitolato a Radegonda, una
regina merovingia d'origine turingia, con una storia analoga a quella di Wigelinda.
Ma allora perché cambiare la titolazione? E' un caso di esterofilia? La
motivazione va piuttosto ricercata nella complicata situazione politica del
momento e nelle alleanze che, molto fluidamente, si creavano e si disfavano di
continuo.
Nel 1130 erano stati eletti contemporaneamente due papi, Innocenzo II e Anacleto
II; in parallelo esistevano due imperatori che si contendevano il potere:
Lotario III e Corrado di Svevia. L'arcivescovo di Milano Anselmo della
Pusterla aveva aderito al partito di Corrado di Svevia, da lui incoronato in
S. Ambrogio nel 1128, sostenitore di Anacleto II. Nello stesso
"partito" militava l'arcivescovo di Tours Ildeberto di Lavardin,
che pensò di omaggiare il collega milanese con un frammento di reliquia della
Croce, conservato a Poitiers nel monastero di S. Croce fondato dalla regina
Radegonda. Ildeberto ne aveva appena riscritto l'agiografia, sulla falsariga di
quella composta nel VI secolo da Venanzio Fortunato, a sua volta vescovo di Tours
e amico di Radegonda.
Si creavano quindi facili parallelismi nella continuità delle alleanze fra la
Chiesa milanese e Tours: S. Ambrogio e S. Martino di Tours erano già stati
affiancati dalla propaganda carolingia e immortalati nel mosaico absidale della
basilica ambrosiana; Anselmo della Pusterla e Ildeberto di Tours sancivano
questa antica alleanza sul frammento della Croce.
Fu certamente il nostro arcivescovo a scegliere il monastero di Wigelinda come
sede appropriata per la custodia della reliquia della Croce: Radegonda e
Wigelinda avevano avuto una storia analoga, solo che la prima aveva ricevuto già
da viva l'aureola della santità, invece Wigelinda era caduta nell'oblio. Si
poteva quindi procedere alla nuova dedicazione del monastero senza timore di
offendere il culto di nessuno.
Mentre Anselmo si schierava a sostegno di papa Anacleto II, intorno a lui nella
sua diocesi gli altri vescovi scavavano la terra sotto i suoi piedi aderendo al
partito opposto di Innocenzo II. Nel 1133 i consoli di Milano, sfiancati dalle
guerre e preoccupati per le interruzioni dei traffici commerciali, abbandonarono
al suo destino Anselmo, che venne cacciato con un'insurrezione popolare. Nel
1135 Milano era ormai passata a sostenere l'imperatore Lotario III e papa
Innocenzo II, ma a ricordare quel periodo di scisma era rimasta la titolazione a
S. Radegonda.
Dal canto suo anche Ildeberto di Lavardin, prima di morire nel 1133, era
rientrato in seno alla chiesa francese, che appoggiava Innocenzo II. Quindi gli
anni in cui Ildeberto regalò la reliquia preziosa al sua amico e alleato
Anselmo sono ristretti tra il 1130 e il 1133.
Danneggiato dalle distruzioni delle truppe imperiali del Barbarossa
nel 1162, come risarcimento il monastero ricevette la casa e un terreno
appartenente al vescovo Galdino della
Sala (1166-1176). Il complesso risultò veramente grandioso, con quattro
chiostri che includevano S. Raffaele e S. Simplicianino. La chiesa era doppia,
secondo l’uso monastico, e custodiva numerose reliquie: la scheggia della
Croce, una Spina, un frammento del Velo di Maria e della Maddalena.
Non disponiamo di molte
notizie sulla cattedrale di S. Maria Maggiore, tranne che bruciò fino
alle fondamenta nell’incendio nel 1075. Andarono persi l’altare d’oro -
simile a quello di Wolvinio in S. Ambrogio -, la Biblioteca capitolare e tutti i
documenti custoditi in sacrestia.
Per la ricostruzione arrivarono forse
maestranze prestate dal cantiere della cattedrale di Fidenza intorno al 1098 da
Matilde di Canossa, come attesterebbe la presenza di una scultura coi Magi
ritrovata in un pilone del Duomo.
Si può dire che non fossero ancora ultimati i restauri dopo l'incendio
del 1075, che la cattedrale invernale rimase coinvolta nelle distruzioni degli imperiali al seguito del Barbarossa.
I danni non dovettero essere imponenti e i lavori di restauro iniziarono nel
1169, secondo la tradizione con il fattivo supporto economico delle matrone
di Milano.
L'arcivescovo Algisio da Pirovano nel 1180 dotò la cattedrale nuovamente di
libri per ricostituire la perduta Biblioteca. Alcuni di questi grandi codici
miniati si trovano oggi divisi tra l'Ambrosiana e la Biblioteca Capitolare.
Il ciborio venne rifatto intorno al
1256, quando si trasferì dalla basilica dei SS. Nabore e Felice - allora in
demolizione - il capo del vescovo Materno, custodito all’interno del sarcofago
in marmo di Candoglia, datato 295-305, che ancora oggi figura come altare in
Duomo. Due delle colonne del ciborio rifatto, scolpite con personaggi sotto
nicchie sul modello del ciborio in alabastro di S. Marco a Venezia, sono state
rimontate nella chiesa dei SS. Andrea e Rocco in via Crema .
Accanto a S. Maria Maggiore era il campanile ottagonale smantellato nel
1162 dal Barbarossa. I blocchi rimasero fino al Trecento nella piazza dell’arengo, usati come
sedili. Nel 1333 verrà fatto ricostruire da Azzone Visconti, ma
crollerà poco dopo.
Il carroccio
Secondo quanto afferma il Beroldo, nella cattedrale jemale di S. Maria Maggiore si conservava il carroccio
(non più quello di Ariberto, probabilmente bruciato), difeso da una cancellata
e sormontato da un cerchio a forma di scudo munito di lampade che venivano
accese la domenica di Avvento, a Natale, all'Epifania e per tutta la Quaresima.
A mantenere accese tali lampade dovevano contribuire il prevosto e il capitolo
di S. Giorgio al Pozzo Bianco.
L’uscita del carroccio dalla cattedrale significava
che il comune entrava in guerra. Ricomposto secondo un preciso cerimoniale, il
carroccio veniva collocato nell’arengo al suono della campana bellica. Tutti i
cives avevano un ruolo preciso in
questa coreografia: alcuni portavano a spalla il pennone, altri lo fissavano
alla base, altri ancora issavano il gonfalone; vi erano gli addetti all’altare
e coloro che addobbavano il carroccio coi simboli della vittoria, la palma e
l’ulivo.
Quando nel 1217 i Milanesi persero il loro carroccio a Cortenuova, Federico II
li umiliò facendolo sfilare come il più importante bottino di guerra
attraverso le strade di Cremona, per poi inviarlo a Roma perché venisse esposto
in Campidoglio. Perdere il carroccio equivaleva a perdere la libertà, per cui pene gravissime
erano previste per chi lo avesse abbandonato in battaglia. Se il “traditore”
salvava la pelle, scompariva ugualmente dal consorzio civile perché era
considerato “infame”, ossia interdetto in perpetuo dai pubblici incarichi e
la sua effige era raffigurata impiccata a testa in giù nel palazzo comunale.
Alla metà del Duecento l’incarico di custodire il carroccio, ormai in S.
Tecla, era rimesso nelle
mani di una sola famiglia con diritto ereditario, ma già nel 1285 Ottone
Visconti, iniziatore della Signoria, ritenne opportuno di abolirlo. Il povero
carroccio finì dimenticato in deposito a S. Anna (in corso Garibaldi).
La basilica estiva, essendo anche chiesa parrocchiale, fu teatro di
episodi molto cruenti che vedevano fazioni cittadine in guerra contro
l’arcivescovo. Il 4 giugno 1066, Pentecoste, nella cattedrale avvenne uno
scontro tra i patarini, guidati da Arialdo
ed Erlembaldo, e il vescovo Guido da
Velate, di scelta imperiale e quindi accusato già nel 1050 di simonia,
ossia di aver comprato la carica, e di proteggere i preti concubinari.
Guido dal pulpito accusò da parte sua i patarini di voler assoggettare la
Chiesa ambrosiana a quella romana e si scagliò contro Arialdo, che rimase
gravemente ferito. I patarini assalirono l’arcivescovado e catturarono Guido,
che ne uscì piuttosto malconcio, ma abbastanza in forze da lanciare un
interdetto sulla città finché Arialdo girava a piede libero. Il capo patarino
verrà ucciso nel giugno dello stesso anno in un’isola sul lago Maggiore e
Guido, impaurito e malconcio, si ritirerà a vita privata a Bergoglio, dove
morirà nel 1071.
Danni ben peggiori vennero all’antica basilica dagli incendi del 1071 e
del 1075, evento scatenante - come un tempo lo fu quello neroniano - per
l’aggiornamento architettonico e urbanistico di tutta la città. Dovendo
rifare il tetto della basilica, si ricorse alla copertura in muratura: si
sostituirono le colonne con pilastri cilindrici che sostenevano il soffitto a
volte e dividevano la navata in sei campate. Venne forato con una porta lo
pseudo-transetto e incamiciata l’abside medievale per rinforzarla. Nelle
fondazioni dei pilastri finirono materiali d’età romana (una base per statua,
blocchi di cornice, lapidi del I sec.d.C., epigrafi, rocchi di colonne), ma a
cosa vennero destinate le
bellissime colonne di breccia rossa africana e di marmo verde antico?
La cattedrale visse il suo primo momento di gloria dopo i rifacimenti quando
ricevette la visita di papa Urbano II, che dal suo pulpito invocò alla fine di
settembre 1096 la partecipazione dei Milanesi alla crociata.
L'offesa
che la basilica ricevette dalle
truppe imperiali fedeli al Barbarossa fu veramente ingente e il restauro fu l’occasione per
aggiungere nuovi elementi alla basilica, come il pontile
in marmo rosso di Verona con gli Apostoli,
opera dei Maestri Campionesi datata normalmente 1185-1187 (ma per la scrivente
più tarda), oggi rimontati nella navata settentrionale del Duomo. La presenza di un pontile nell’Italia
settentrionale è quanto mai rara e sussiste solo a Modena e al S. Zeno di
Verona.
La facciata di S. Tecla aveva un ingresso principale e due laterali e contrafforti con
corrispondenti lesene all’interno, allineate coi filari dei pilastri. Davanti
alla facciata vi era un portico su due livelli, detto Paradiso,
che aveva una profondità irregolare di ca. m 5,50, con sette campate, sostenute
da pilastri di m 1 di lato ed era aperto sui fianchi. Al piano superiore si
accedeva con una scala posta sotto la prima campata sud del portico. Questo
piano superiore aveva una certa importanza e veniva detto “palatium”. Vi si trovavano sia le stanze dei canonici decumani di
S. Tecla, sia uffici mercantili.
Subirono gravi danni anche tutti gli altri tutti gli edifici rinchiusi nella recinzione, che venne
demolita e mai più rifatta. L'arcivescovato fu il primo a
essere ricostruito per accogliere l’arcivescovo Galdino della Sala
nell’agosto 1168.
Collegata
al piano superiore della basilica di S. Tecla (palatium) da un passaggio forse
sopraelevato vi era la canonica dei
decumani, una struttura articolata dotata di stalle, pozzo, spazi porticati
e loggiati, con locali per i dodici canonici. Si affacciava su quella che veniva
detta la stretta dei Decumani,
sull’area dell’attuale via Foscolo, una strada senza uscita che conduceva
alla Canonica. Pur trovandosi in un luogo molto protetto, al pari dello xenodochio
di S. Salvatore, del monastero di Wigelinda e dello xenodochio
di S. Raffaele, la canonica era fuori dalla recinzione del complesso episcopale,
esclusione forse non casuale. Nelle mappe della città la canonica è segnata
come “dazio grande”.
La canonica del Capitolo maggiore era già stata ricostruita nel 1110 dall'arciprete Olrico sul luogo della
precedente. Nel documento è detta "curte cardinalorum majoris Ecclesiae,
juxta tribunam S. Stephani qui dicitur ad Fontes". Lì
rimase fino al 1386, quando si gettarono le fondamenta per l’abside del Duomo.
La canonica del Capitolo
minore si
trovava invece nell’area meridionale del Broletto, verso via Larga. Nonostante
al clero minore fosse stata riservata una canonica per la vita in comune, la
storia della seconda metà dell’XI secolo vede come protagonisti i patarini,
sostenitori di una moralizzazione del clero, e i preti accusati di simonia e di
nicolaismo, termini che tradotti significano: compravendita delle cariche
religiose in base a un tariffario ben stabilito e vita coniugale più o meno
legalizzata e costumata, perché i preti sposati venivano spesso accusati
di adulterio. Si può quindi supporre che le canoniche ospitassero gli
uffici, ma che i religiosi disponessero di abitazioni private dove vivere con la
famiglia.
Il monastero rientrò nelle soppressioni giuseppine: le monache vennero
trasferite a S. Prassede (area odierno Palazzo di Giustizia) e nel 1781 si
aprì la strada che vediamo oggidì. Nel 1855 la chiesa serviva per gli
scalpellini della Fabbrica del Duomo. Quando nel 1883 la Società Edison
inaugurò la centrale elettrica, donò 23 frammenti del chiostro da lei
occupato al Museo del Castello Sforzesco, dove nel 1896 si ricostruì una
campata, scomparsa nella sistemazione moderna
Le colonne erano pervenute alla chiesa di S.
Rocco in corso di Porta Romana dopo la demolizione di S. Maria Maggiore e da qui
passate alla chiesa cimiteriale dei SS. Aquilino e Carlo, sempre a Porta Romana.
Questo nome, invece di “portico” o “esonartece” deriverebbe da S.
Pietro in Vaticano, che aveva una scena di Apocalisse nel mosaico che
ricopriva la facciata, sopra il portico, che prese il nome di “portico del
Paradiso”. Ciò avveniva alla fine del VII secolo con papa Sergio I
8687-701) e si diffuse come sinonimo nel sec. VIII, ma è probabile che
questo termine in S. Tecla si usasse a partire dai rifacimenti romanici.
Magistretti M., Beroldus sive Ecclesiae Ambrosiane Mediolanensis
Kalendarium et Ordines saeculi XII, Milano 1894
Ultimo aggiornamento: lunedì 29 luglio 2002
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