Il colpo di stato di Gian Galeazzo
Il 6 maggio 1385 Gian Galeazzo Visconti arriva a Milano diretto al Sacro Monte
di Varese. E’ un uomo di 34 anni, già sposato due volte, noto per la sua
ostentata devozione, la sua timidezza e una ridicola paura di tutto che lo
costringe a viaggiare sempre accompagnato da una forte scorta armata.
Proveniente dal suo castello di Pavia, raggiunge Milano a Porta Ticinese e da
qui percorre la “circonvallazione” - l’attuale via De Amicis - fino alla
pusterla di S. Ambrogio ch’era allora, com’è ancora oggi, all’imbocco
di via S. Vittore, diretto al suo castello di Porta Giovia. Qui incontra lo
zio Bernabò Visconti, il terribile signore di Milano che faceva tremare
chiunque avesse la ventura di incontrarlo e che amava sbeffeggiare papi e
imperatori perché, come amava dire, “io sono papa e imperatore a me stesso”.
Era da un po’ che lo zio non vedeva questo nipote così diverso da lui e
così ridicolo con il suo codazzo di guardie. Quel giorno Bernabò deve aver
pensato: “Vado a farmi due risate” e, presa la sua mula, si era diretto
verso S. Ambrogio per vedere lo spettacolo, accompagnato dai suoi due figli e
da poco seguito. Invece Gian Galeazzo, appena lo vede, lo dichiara suo
prigioniero e lo fa rinchiudere nel vicino castello sotto lo sguardo
sbalordito e incredulo di tutta Milano e, si può dire, di tutta Europa.
L'"impresa del Duomo"
Da qui iniziano le grandi imprese di Gian Galeazzo
Visconti e da qui “inizia l’impresa del Duomo”. Da questo momento gli
avvenimenti si sviluppano con una velocità impressionante: la popolazione
assalta le case di Bernabò a S. Giovanni in Conca mettendole a sacco e molti
tirano un sospiro di sollievo per essersi liberati del feroce “tiranno”
che scherzava con le loro vite. Gian Galeazzo si presenta come un signore mite
e devoto, che ha dovuto liberarsi dello zio prima che questi mettesse in
pericolo la sua stessa vita. Contro Bernabò ci sono anche sospetti di eresia
e stregoneria: avrebbe impedito con arti magiche alla moglie di Gian Galeazzo
di restare incinta. La strategia di Gian Galeazzo è abbastanza chiara: i
poveri vanno tranquillizzati con un saccheggio; i ricchi con il diritto. Per
quelli che oggi chiameremmo “ceti medi” - mercanti, artigiani e
commercianti - ci vuole un’idea che porti lustro alla città e lavoro per
tutti. Ed ecco l’annuncio: il 23 maggio, due settimane dopo l’arresto di
Bernabò, vengono demoliti l’antico arcivescovado, il palazzo degli Ordinari
e il battistero di S. Stefano alle Fonti, che si trovavano dietro la
cattedrale di S. Maria Maggiore, per edificare una nuova cattedrale di immense
proporzioni, che avrebbe superato in lunghezza e in altezza ogni altra chiesa
esistente allora nel mondo.
La Fabbrica del Duomo
L’idea all’inizio deve aver suscitato qualche
perplessità. Bisogna arrivare all’anno successivo perché si inizi
seriamente a immaginare la costruzione di questo edificio. Anzitutto bisogna
istituire un organismo cittadino responsabile dei lavori: la Veneranda
Fabbrica del Duomo. I primi documenti della fabbrica, purtroppo perduti,
risalgono alla primavera del 1386, quando sono già in corso i lavori delle
fondazioni, iniziate dalla sacrestia settentrionale o, come dice la Fabbrica,
“aquilonare” dov’era l’antichissimo battistero di S. Stefano alle
Fonti. In quest’anno Gian Galeazzo e il cugino arcivescovo Antonio da
Saluzzo, iniziano una campagna di mobilitazione delle forze economiche della
città perché concorrano all’impresa con offerte generose. La risposta
supera, come si dice, le più rosee aspettative. In pochi mesi non solo i
paratici di Milano, ma l’intera popolazione, si mobilita per portare ogni
genere di offerte alla Fabbrica del Duomo: soldi, beni personali, lavoro. La
Fabbrica non riesce a far fronte a questa valanga e, il 7 maggio 1387, deve
essere rifondata con un grande organico, che comprende ben 300 deputati, 50
per ogni porta della città. Ormai la cosa è diventata seria e bisogna che l’idea
si trasformi in un progetto visibile e condiviso da tutti. L’1 marzo 1387
viene nominato ingegnere capo Simone da Orsenigo, che resterà per molti anni
il responsabile dell’andamento dei lavori. Al suo fianco iniziano a
comparire altri nomi di architetti e scultori che producono disegni e modelli
da sottoporre all’approvazione della Fabbrica. Tra i primi nomi troviamo un
misterioso Anechino (Giovannino) di Alemagna che viene pagato per un modello
in piombo, e lo “scalpellino” Hans Fernach. Sappiamo oggi, dopo gli
assaggi effettuati nella sagrestia aquilonare, che all’inizio si pensava ad
una costruzione in mattoni decorata con un paramento in cotto, simile
probabilmente alle coeve chiese del Carmine di Milano e di Pavia. Nell’ottobre
del 1387, avviene la grande svolta: Gian Galeazzo, che in due anni aveva già
conquistato quasi tutta l’Italia settentrionale e aveva sposato la figlia
Valentina con il fratello del re di Francia, decide di trasformare l’espediente
pubblicitario in un simbolo regale. A questo punto il Duomo non doveva essere
soltanto la chiesa più grande d’Europa, doveva diventare soprattutto lo
splendido tempio del futuro re d’Italia.
Per realizzare questo sogno grandioso viene formulato un
minuto regolamento della Fabbrica che prevede sia la stretta sorveglianza
della gestione pratica dei lavori, sia un attento e rigoroso rendicontamento
delle entrate e delle spese. Da parte sua Gian Galeazzo concede alla Fabbrica
l’uso gratuito delle cave di Candoglia per estrarre i marmi necessari alla
nuova impresa. L’idea nuova che viene arditamente lanciata è infatti quella
di abbandonare lo stile ancora “romanico” avviato nei primi mesi per
abbracciare decisamente le forme gotiche d’oltralpe, mai prima d’ora
accettate completamente in Italia. Le murature e i piloni saranno dunque
realizzati “a cassone”: pareti esterne portanti in marmo di Candoglia
riempite internamente di pietre, prevalentemente serizzo tratto dalle cave
viscontee di Locarno, Intra e Pallanza. I materiali arriveranno a Milano lungo
il Naviglio Grande e tutte le merci che esibiranno il marchio AUF (Ad Usum
Fabricae) non pagheranno dazi.
Dal mattone al marmo
La nuova tecnica costruttiva adottata impone anche una
nuova mentalità e migliori capacità tecniche. Il primo ingegnere Simone da
Orsenigo è in difficoltà e forse anche ostile a questa svolta. Il 20 marzo
1388 si svolge una importante riunione durante la quale Marco da Campione (o
da Frixono, come dicono alcuni documenti) critica duramente i lavori fatti in
precedenza da Simone da Orsenigo durante lo scavo delle fondazioni che
dovevano aver interessato tutta la tribuna e le due sagrestie. Le critiche
sono accolte e, dopo aver risistemate le fondazioni, “si incominciò a
edificare con solido marmo” come dice un documento del 4 settembre 1388. Dal
1389 fino alla morte di Gian Galeazzo nel 1402, in soli 14 anni di lavoro
frenetico, si costruisce quasi metà dell’opera. Anche se ci vorranno altri
400 anni per finirla, questi 14 anni sono decisivi per il Duomo perché è in
questo periodo che vengono fatte tutte le scelte più importanti per il suo
destino futuro.
Simone da Orsenigo e Nicolas de Bonaventure
Nel 1389 Gian Galeazzo è all’apice della gloria. Con la capitolazione di
Padova ha concluso il suo piano di conquista nel Veneto. Inoltre ha avuto
finalmente il tanto atteso erede - Giovanni Maria - che sembrava non volesse
mai nascere. A questo punto può imporre il suo punto di vista alla Fabbrica e
sostituire il modesto e provinciale Simone da Orsenigo con un grande maestro d’oltralpe
capace di trasmettere alle maestranze la raffinata esperienza maturata in due
secoli di architettura gotica. La scelta cade da principio su un francese -
Nicolas de Bonaventure - che viene nominato ingegnere capo al posto di Simone
il 6 luglio 1389. La sua attività a Milano durerà un anno e lascerà una
indelebile traccia “francese” sul Duomo. In questo periodo, terminati i
muri delle sacrestie e dell’abside, si sta pensando ai piloni ed è qui,
nell’elegantissimo disegno dei piloni e delle loro basi, che si può
riconoscere il gusto francese di Nicolas. Più discusso è invece il suo
apporto ai tre grandi finestroni dell’abside. Sulle porte delle sagrestie
intanto si stanno affaticando gli scultori per completare le prime vere opere
decorative: Giacomo da Campione esegue il portale della sagrestia
settentrionale dedicato a Cristo e poco dopo è Hans Fernach ad eseguire
quello della sagrestia meridionale dedicato alla Vergine. Sempre nel 1389
compare per la prima volta tra le carte della Fabbrica il nome di Giovannino
de Grassi, un personaggio che avrà in seguito una grande influenza sul
destino dell’intero edificio.
Anche se nell’estate del 1390 Nicolas de Bonaventure
ritorna in Francia, i lavori proseguono alacremente. Terminati i muri del coro
e delle sagrestie, si prosegue con i transetti e i piloni secondo un disegno
che conosciamo in parte da una copia eseguita a Milano da Antonio di Vincenzo,
arrivato apposta da Bologna per studiare la nuova cattedrale in vista della
fondazione della basilica di S. Petronio. Questo disegno, e l’altro che lo
accompagna, dovevano necessariamente ricopiare un progetto esistente nella
Fabbrica o un modello ligneo: troppe sono infatti le discordanze rispetto all’edificio
poi realmente costruito per pensare che sia stato rilevato dal vero. Anzitutto
i transetti sporgono di due campate dalla navata anziché di una. La guglia
Carelli viene rappresentata molto diversa da come sarà realizzata e certo nel
1390 non esisteva ancora. Le navate sono già iniziate per due campate mentre
sappiamo che per molto tempo ce n’era una sola. Infine, è riportato un
modello vago di capitello che tuttavia prefigura quelli decisi in seguito,
segno che comparivano già nel primo progetto o almeno in quello “francese”.
Hans von Freiburg e Heinrich Parler
Il disegno, e i suoi errori, ci dicono però che nel 1390
i transetti non erano ancora stati completati, ma soltanto la tribuna e le
sagrestie e forse qualche muro laterale. Inoltre sappiamo che tutto il lavoro
eseguito finora aveva soltanto “abbracciato” la vecchia basilica di S.
Maria Maggiore senza demolire alcunché, ma che si pensava di coprire con “assi
e coppi” la parte appena costruita non appena terminati i piloni del
transetto. Per poter terminare i piloni e collocarvi i capitelli bisognava
però ancora decidere quanto dovevano essere alti. A questo problema viene
dedicato tutto il 1391 che sarà l’anno cruciale per la stesura del modello
definitivo. A questo dibattito, che chiama in causa sia importanti problemi di
statica, sia problemi non meno importanti legati alla simbologia dei numeri e
delle figure geometriche, intervengono personaggi di primo piano della cultura
architettonica tedesca come Hans von Freiburg e Heinrich Parler, il primo
impegnato nella cattedrale di Colonia e il secondo a Ulm. La discussione verte
sul modulo da usare per misurare le altezze relative delle cinque navate e i
rapporti tra larghezza e altezza dell’edificio.
Il disegno di Gabriele Scovaloca
All’inizio
del 1392 si giunge a due modelli contrapposti: quello di Parler e quello di un
matematico piacentino - Gabriele Scovaloca - chiamato dalla Fabbrica per
elaborare un modello di alzato più affine ai gusti locali e più vicino alla
tradizione costruttiva lombarda. Questo secondo sarà il modello vincente e
purtroppo solo indirettamente possiamo conoscere qualche aspetto del modello
tedesco. Del modello Scovaloca possediamo invece fortunatamente lo schema
geometrico, sopravvissuto miracolosamente ai secoli (fig. 1), uno schema
piuttosto chiaro che è stato anche ripreso e pubblicato nel Cinquecento dal
Cesariano nel suo Vitruvio (Figg. 2-3).
La Guglia Carelli
Dal 1392 però la spinta spontanea della città per
finanziare l’impresa - dopo cinque anni di sacrifici - si sta smorzando.
Gian Galeazzo escogita un Giubileo milanese per raccogliere altri fondi e
continuare l’impresa, ma si dovrà aspettare il 1395 prima di vedere qualche
soldo. Del resto anche Gian Galeazzo in questi anni è distratto da mille
incombenze militari e politiche e per giunta ha deciso di fondare presso il
suo parco di Pavia una nuova grande Certosa come proprio mausoleo mettendoci
soldi suoi e sottraendo risorse umane alla Fabbrica. Per fortuna (non sua!)
nel 1394 muore Marco Carelli, un ricchissimo mercante milanese che lascia alla
Fabbrica tutta la sua sostanza - ben 35.000 ducati - parecchi miliardi di
oggi. Con quei soldi si costruisce quello che forse è il più bel elemento
scultoreo-architettonico dell’intero edificio: la Guglia Carelli, la prima
guglia del Duomo che si trova sull’angolo nord-est della sagrestia
aquilonare, sormontata dalla statua di S. Giorgio che richiama direttamente l’effigie
di Gian Galeazzo Visconti.
Giovannino de Grassi
Nel
1396, quattro anni dopo la storica riunione nella quale era stato deciso l’alzato
del Duomo, inizia il dibattito sui capitelli. Giovannino de Grassi realizza un
prototipo (fig. 4) molto elegante con le edicole per le statue che sfumano
verso l’alto lasciando scorrere le linee di forza dei piloni verso i
costoloni della volta senza soluzione di continuità. La soluzione, di gusto
squisitamente gotico, non incontra però l’approvazione della Fabbrica,
anche in questa occasione più legata a un modello architettonico meno
flessibile, e quindi viene approvato il prototipo di Giacomo da Campione con
una cornice superiore molto marcata (fig. 5). Sarà questo in seguito, con
piccole variazioni, lo schema seguito in tutti gli altri capitelli.
Le critiche di Jean Mignot
Negli anni successivi quindi, mentre si iniziano a
realizzare i primi capitelli del coro, si procede con i transetti arrivando
con la muratura alle prima campata, limite massimo consentito dalla Corte
ducale che si appoggiava allo spigolo sud-ovest della vecchia cattedrale
invadendo l’area del Duomo all’altezza della seconda campata della navata
meridionale. A questo punto si può cominciare a pensare al tiburio, il punto
più delicato dell’intera costruzione e il più difficile. Mai si era osato
in Europa sollevare a quell’altezza una così enorme massa di marmi. Per
affrontare il problema arriva dalla Francia nel 1399 il parigino Jean Mignot,
un grande tecnico, che analizza in primo luogo la correttezza dei lavori
svolti sinora trovando molte imperfezioni nel taglio delle pietre e quindi
nella loro effettiva capacità di portata. La conclusione è drastica: c’è
“pericolo di ruina”. Secondo il francese bisogna distruggere tutto il
costruito perché fatto “sine scienzia”. Gian Galeazzo, molto preoccupato,
fa assumere dalla Fabbrica i suoi due migliori ingegneri, Bartolomeo da Novara
e Bernardo da Venezia, mentre è preposto al cantiere in pianta stabile
Filippino degli Organi. Tra il 1400 e il 1401 il cantiere è messo sottosopra
con aspre polemiche e accuse reciproche. Il duca, pur convinto della giustezza
delle critiche, alla fine si arrende al pragmatismo della Fabbrica lasciando
che i lavori siano proseguiti “secondo il gradimento e la volontà dei suoi
cittadini”. Il Duomo non è crollato, però lo spavento salutare procurato
dal Mignot è servito a migliorare le attrezzature (è adottata la sega per
marmi) e soprattutto ha fatto rinviare di un secolo l’impresa del tiburio.
Dal
1402, anno della morte di Gian Galeazzo Visconti, al 1480, quando un nuovo
colpo di Stato fa salire al potere Ludovico il Moro, la costruzione del Duomo
resta quasi del tutto sospesa, vuoi per mancanza di soldi, vuoi per mancanza
di idee. Per tutto questo tempo il Duomo resta a metà, mentre dall’enorme
zona del transetto continua a spuntare la vecchia basilica di S. Maria
Maggiore: una buffa situazione ben rappresentata, a mio parere, da un disegno
a penna del Pisanello (fig. 6) che stranamente non è mai stato accostato al
Duomo, ma che, se la mia lettura è corretta, sarebbe la sua prima veduta.
Anche se in questo periodo Filippino degli Organi
costruisce poco, attorno a lui però cominciano a crescere gli scultori e poi
i maestri vetrai che tentano i loro primi lavori sui finestroni dell’abside.
Iacopino da Tradate, il più abile scultore del momento, fa eseguire dalla sua
bottega il sepolcro di Marco Carelli. Lui stesso realizza in seguito il
modello della grande serraglia del coro con la testa dell’Eterno e
soprattutto il monumento a Martino V (1424), il suo capolavoro. Sotto l’influsso
di Jacopino da Tradate e di Michelino da Besozzo, nella prima metà del
Quattrocento si consolida una tradizione locale di scultura che resterà viva
nel cantiere per più di quattro secoli.
La consacrazione dell’altare
Nell’anno 1418 il nuovo duca Filippo Maria Visconti può finalmente
iniziare a pensare a Milano. Sono finiti i terribili anni del governo di
Giovanni Maria che avevano messo in forse l’esistenza stessa del ducato.
Sono riconquistate le principali città lombarde perdute dopo la morte di Gian
Galeazzo. Il 13 settembre è liquidata anche la moglie Beatrice di Tenda che
aveva dovuto sposare per avere i soldi necessari alla sua riscossa. Il 12
ottobre successivo arriva a Milano il papa Martino V, eletto l’anno prima
dal Concilio di Costanza dopo un lungo periodo di scissione della Chiesa che
aveva visto regnare contemporaneamente addirittura tre diversi papi. Chi
conosce la storia di Milano sa che bisogna sempre approfittare delle occasioni
straordinarie se si vuole demolire qualcosa di importante e di antico. L’urgenza
tronca infatti quasi sempre le discussioni che bloccano le iniziative di
distruzione-ricostruzione. Fino a quel momento si era costruito tutto attorno
alla basilica che era praticamente intatta e funzionante. In due giorni, dal
14 al 16 ottobre, per ordine del duca si demolisce l’abside e la volta,
spostando il vecchio altare per la consacrazione nel nuovo coro del Duomo. Da
questo momento però non cessa di esistere liturgicamente la basilica di S.
Maria Maggiore, ma viene semplicemente ampliata con un nuovo - immenso - coro
dov’è collocato il suo vecchio altare riconsacrato. La sua scomparsa
definitiva avverrà 150 anni dopo con la consacrazione del Duomo voluta da
Carlo Borromeo. Attorno al grande coro, ormai terminato in tutte le sue parti,
iniziano intanto ad affollarsi sinistre presenze: tra un pilone e l’altro
vengono appesi in casse coperte di broccati i corpi dei personaggi più
eminenti della città: Giovanni Maria Visconti, il condottiero Niccolò
Piccinino, per primi; seguiranno poi gli altri duchi Filippo Maria Visconti,
Francesco Sforza e Bianca Maria Visconti, Galeazzo Maria e altri ancora. In
attesa del nuovo Camposanto da costruirsi dietro l’abside, il Duomo nel
secolo XV doveva apparire più una grotta che una chiesa.
I tentativi di Francesco Sforza
Una delle prime cose che Francesco Sforza fa appena arrivato a Milano
è quella di incoraggiare la ripresa dei lavori nel Duomo anche in vista della
nuova piazza che sarebbe sorta con l’abbattimento di S. Tecla. Purtroppo qui
i problemi si intrecciano coinvolgendo la piazza, la cattedrale e il palazzo
dell’Arengo. Rinviando ad un'altra pagina (vedi) il problema della piazza, qui
basta dire che Francesco Sforza lascia abbattere l’angolo nord-est del suo
palazzo e fa collocare una pietra dove sarebbe sorta la nuova facciata. Dal
1452 si può quindi procedere con il corpo delle navate almeno fino alla sesta
campata. Poiché il momento di chiudere l’edificio con una nuova facciata
sembrava ancora molto lontano, per non fare tante discussioni la facciata di
S. Maria Maggiore viene semplicemente spostata all’altezza della quinta
campata creando così un degno spazio per le celebrazioni che il nuovo duca
prevedeva di dover indire. Con la solita diplomazia il duca intanto inserisce
nell’organico della Fabbrica Giovanni Solari e il Filarete come
rappresentanti, il primo, dell’antica tradizione campionese, e il secondo
delle nuove tendenze sperimentate in Toscana. Il trucco però non funziona e
il Filarete viene subito allontanato dal Duomo dove restano padroni assoluti
per più di mezzo secolo i Solari. Prima Giovanni, poi il figlio Guiniforte e
infine il nipote Pietro Antonio e il genero Giovanni Antonio Amadeo. Saranno
proprio loro a risolvere alla fine il difficile problema del tiburio.
Le vetrate
Fin dai primi anni del Quattrocento, parallelamente alle opere di
architettura e scultura, sorge vicino al Duomo il laboratorio per preparare le
vetrate. Sotto la direzione di Michelino da Besozzo e Stefano da Pandino sono
fabbricate le vetrate delle sagrestie e parte di quelle dei tre grandi
finestroni dell’abside dedicate al Nuovo e Antico Testamento (le due
laterali) e all’Apocalisse (quella centrale). Altre vetrate sui transetti
sono commissionate da alcuni paratici. Di tutte queste vetrate restano
soltanto alcuni antelli al Museo del Duomo, perché dovettero essere quasi
subito sostituite per l’imperizia dei maestri vetrai di quest’epoca che le
resero molto presto illeggibili. Solo dopo il 1470, grazie all’opera di
Cristoforo e Agostino de’ Mottis, Antonio da Pandino e Niccolò da Varallo
si avvia un programma serio e duraturo di realizzazione delle vetrate,
eseguito questa volta con materiali di ottima qualità e con tecniche perfette
che hanno consentito ad esse di conservarsi in ottimo stato fino ad oggi. Di
questo notevole gruppo di opere, che stilisticamente abbandonano il gotico per
rifarsi ai disegni “all’antica” del Foppa e di altri artisti
rinascimentali, ci restano quelle di:
- S. Giovanni
Evangelista di Cristoforo de’ Mottis (per il paratico dei notai, 1478,
finestra 1)
- S. Eligio di
Niccolò da Varallo (per il paratico degli orefici, dopo il 1479, finestra 6)
- S. Giovanni
Damasceno di Niccolò da Varallo (per il paratico degli speziali, dopo il
1479, finestra 25)
Le prime due vetrate, oggi sulla navata sud, erano allora nei transetti. Di
Antonio da Pandino restano invece gli antelli della vetrata del Nuovo
Testamento con la Vita di Gesù,
oggi trasportati nella finestra 5.
Per visionare le vetrate del Duomo nel WEB: http://www.area.fi.cnr.it/bivi/regioni/indice_per_regione.htm (clicca su LOMBARDIA ==> MILANO ==> DUOMO)