Con la conclusione del tiburio e delle sei campate sulle navate laterali (cinque
nella navata centrale) la chiesa è ormai perfettamente agibile e si può
pensare ad una migliore decorazione del suo interno. L’aspetto della
cattedrale però è desolante: il pavimento della parte nuova è in cotto ed è
piuttosto malconcio perché continuamente percorso dai carri del cantiere; sulla
navata mediana c’è ancora probabilmente il vecchio pavimento a quadri bianchi
e neri di S. Maria Maggiore. I muri del coro e dei transetti sono disseminati di
altari per lo più di legno, qualcuno con affreschi sulla parete che sono
riemersi di recente nel deambulatorio. Altri altari erano giunti nella seconda
metà del Quattrocento da S. Tecla assieme alle preziose reliquie della
cattedrale estiva. I due organi si trovavano dove sono oggi gli altari di S.
Agnese e S. Tecla, addossati alle pareti occidentali delle sagrestie e quindi
almeno al riparo dalla pioggia. Sono due strumenti vecchi e di mediocre
qualità, già riparati più volte.
Con l’affermazione della dominazione spagnola e la fine
delle terribili guerre dei primi decenni del Cinquecento, si avvia un programma
che prevede la creazione di una serie di vetrate per completare almeno i due
transetti. Qui la discussione sullo stile antico o moderno (cioè gotico) non si
pone: già dalla metà del Quattrocento tutte le vetrate erano state fatte nello
stile “antico”, vale a dire rinascimentale. Nel 1552 viene incaricato
Giacomo Antegnati di costruire un nuovo organo gigantesco che verrà sistemato
nella cantoria settentrionale mentre si incarica Giuseppe Meda di preparare le
quattro tele delle ante verso l’altare che avviano il programma decorativo
costituito da sedici grandi tele e che verrà concluso da Federico Borromeo.
Nel 1562, alla vigilia della nomina di Carlo Borromeo alla
carica di arcivescovo di Milano, entrano in duomo due singolari “personaggi”
che destano ancora oggi interesse e curiosità come oggetti “strani” quasi
da museo barocco: il S. Bartolomeo di Marco d’Agrate e il candelabro
Trivulzio. Il primo è fin troppo noto per il suo virtuosismo anatomico ed è
ancora oggi la meta preferita dei ciceroni che portano gli stranieri a visitare
il Duomo. Il secondo è invece, un rarissimo esempio di scultura in bronzo del
XII secolo, che non colpisce subito il visitatore, ma certamente affascina chi
si lascia trascinare dentro le complesse volute che nascondono Arti, Vizi e
Virtù, Segni zodiacali e molte altre sorprese.
Nella sua prima visita a Milano per il Concilio provinciale, Carlo Borromeo fa
già capire la sua ferma intenzione di essere padrone assoluto di tutto ciò che
ha che fare con la religione e di non ammettere interferenze da parte del potere
laico. Spariscono in un baleno dal coro del Duomo tutte le tombe dei duchi che
penzolavano sinistramente tra i piloni coperte da damaschi polverosi e consunti.
Da questo momento non sappiamo più dove siano finiti Giovanni Maria e Filippo
Maria Visconti, Francesco Sforza e la moglie Bianca Maria, Galeazzo Maria Sforza
e forse qualche altro signore che era in attesa del famoso Camposanto che non
verrà mai. E’ una cacciata dei potenti che proseguirà in seguito con lo
smantellamento della tomba di Ludovico il Moro dalla tribuna di S. Maria delle
Grazie e di quella di Bernabò Visconti dal presbiterio di S. Giovanni in Conca.
Per quanto riguarda il Duomo, il Borromeo decide che vi
saranno sepolti soltanto gli Arcivescovi di Milano, gli Ordinari e qualche
superbenemerito come Marco Carelli, Castellino da Castello e pochi altri tra cui
il fratello del papa Pio IV (e anche zio materno del Borromeo), il Medeghino,
che ebbe per volontà del papa lo splendido mausoleo di Leone Leoni nel
transetto meridionale.
Pellegrino Pellegrini
Nel 1571 è sulla Fabbrica del Duomo che inizia a
scatenarsi la bufera con l’imposizione da parte dell’arcivescovo di
Pellegrino Pellegrini alla direzione dei lavori al posto di Vincenzo Seregni. Le
proteste che ne seguirono per aver leso l’autonomia del Capitolo porteranno
pochi anni dopo alla revisione degli statuti che escludeva tutti i membri laici.
Un deliberato che per fortuna non avrà lunga vita, ma che permise al Borromeo
di impostare con l’architetto “romano” un programma di modernizzazione
della cattedrale, all’interno e all’esterno dell’edificio, per convertirne
l’aspetto da gotico (tedesco = protestante) a rinascimentale (romano =
cattolico). Questa operazione (compiuta però senza secondi fini religiosi) era
già riuscita a Ludovico il Moro quando aveva convertito dallo stile gotico a
quello rinascimentale le fabbriche del duomo di Pavia e di Como, nonché la
Certosa di Pavia, nate tutte in stile gotico come il Duomo all’epoca di Gian
Galeazzo Visconti. Nel caso del Duomo, l’Amadeo era invece riuscito a trovare
una sintesi che accontentava tutti e che non ne pregiudicava l’impianto
originario, ben custodito dal “modellone” che ancora possiamo ammirare nel
Museo del Duomo.
Per
Pellegrino Pellegrini e per l’arcivescovo quel modello era da buttare. Oltre
al nuovo arredo interno, necessario per conferire alla chiesa quel decoro che
non aveva ancora mai avuto, bisognava pensare soprattutto al paramento esterno,
iniziando dalla facciata. Nel 1571, quando probabilmente il Pellegrini inizia a
pensare alla facciata, il Duomo era ancora come lo vediamo nel Miracolo
della guarigione di Beatrice Crespi del Cerano (fig. 8). La facciata è
quella di S. Maria Maggiore posta alla quinta campata, fiancheggiata da due
spalle corrispondenti alle navatelle esterne che arrivano alla sesta campata.
La
presenza della Corte impedisce per il momento alla fabbrica di avanzare oltre,
ma non impedisce al Pellegrini di iniziare a studiare una nuova facciata in
stile “romano” con imponenti portali e finestroni ed ancora più imponenti
colonne che dovevano sporgere dal muro in corrispondenza delle paraste. La parte
superiore della facciata, più ristretta rispetto alla parte inferiore, si
concludeva con un grande timpano ed era affiancata da due obelischi per ogni
lato. (Fig. 9) E’ negata quindi ogni corrispondenza con la struttura interna e
con la struttura geometrica dell’alzato com’era stata definita nel disegno
dello Scovaloca. Realizzata la nuova facciata, era negli intenti del Pellegrini
e del Borromeo la trasformazione delle parti già realizzate sui fianchi e sull’abside.
Le difficoltà nell’accordarsi con i governatori per un ulteriore taglio del
fronte della Corte lascia per ora la facciata allo stato di progetto, mentre si
può tranquillamente procedere all’interno del Duomo, dove tra il 1575 e il
1585 viene rifatto completamente il presbiterio creando lo scurolo, il nuovo
altare, i due pulpiti e la serie dei nuovi altari lungo la navata. Sulla navata
centrale è posto il nuovo battistero che in seguito sarà spostato lateralmente
dove ancora oggi si trova e che utilizza come vasca battesimale il sarcofago di
porfido utilizzato da Ariberto per le spoglie di S. Dionigi. Attorno all’altare
maggiore nasce il coro ligneo progettato dal Pellegrini, modellato da Francesco
Brambilla e A. de' Marinis, e intagliato da Virgilio del Conte, Paolo Gazzi e
dai fratelli Taurini. Nei tre ordini del coro sono rappresentate (in alto) la
vita di S. Ambrogio, (al centro) i santi martiri venerati dalla chiesa milanese
e (in basso) i vescovi milanesi da S. Anatalone a S. Galdino. I lavori si
protrarranno fino al 1614.
Il 20 ottobre 1577 il Borromeo consacra finalmente l’intero
edificio come una nuova chiesa che sostituisce quindi in modo definitivo sia l’antica
S. Maria Maggiore, sia S. Tecla, che erano state unificate nel 1549 dopo un
secolo di litigi tra il Capitolo maggiore e i Decumani. Dal punto di vista
liturgico è questo il vero atto di nascita del Duomo e stupisce che sia
avvenuto in forma quasi clandestina, senza clamori né solenni celebrazioni
sconsigliate anche dalla ancora perdurante paura della peste che aveva
imperversato per tutto l’anno precedente. Dopo la morte del Borromeo e la sua
sepoltura al centro del transetto sotto il tiburio, proseguono e si concludono i
lavori già avviati come il coro, gli amboni, gli altari, le ante degli organi
con le pitture del Figino e di Camillo Procaccini che completerà la serie nel
1602.
F.M. Richini e Fabio Mangone
L’analisi di tutte le idee e i progetti che hanno preceduto e accompagnato la
realizzazione della facciata del Duomo richiederebbe un intero libro: sarebbe
sicuramente un lavoro molto interessante di storia dell’architettura che, tra
l’altro, non è stato ancora mai fatto. Qui ci limitiamo a ricordare le tappe
principali di questa lunga storia che si snoda lungo più di due secoli, dal
1571 al 1805, con un’appendice “virtuale” alla fine dell’Ottocento.
All’inizio del Seicento Federico Borromeo riprende la
questione dal dove il suo grande predecessore e cugino l’aveva lasciata
chiedendo ai suoi architetti di fiducia - il Richini e Fabio Mangone - di
studiare la realizzazione del progetto originario del Pellegrini. La questione
con la Corte per l’avanzamento della fabbrica viene finalmente risolta nel
1615 con il taglio di una seconda fettina della facciata in modo da poter alzare
i muri laterali e gettare le fondamenta dell’intera facciata del Duomo.
I
lavori, sul lato settentrionale, erano già cominciati nel 1607 secondo il
progetto del Pellegrini con alcune modifiche proposte dal Richini e da
Alessandro Bisnati che riguardavano soprattutto l’ordine superiore. (Fig. 10)
Spariscono per esempio gli obelischi laterali sostituiti da statue o da riccioli
che risentono del nuovo stile barocco. Questi lavori proseguono fino al 1538 con
la costruzione dei cinque portali e di due finestre mediane. Sui portali
laterali sono inseriti i bassorilievi con le donne eroiche della Bibbia - Ester,
Giaele, Giuditta e la regina di Saba - mentre sul portale maggiore è prevista
la Creazione di Eva, tutti su disegno del Cerano. Gli scultori sono i maggiori
dell’epoca: il Biffi, il Vismara e il Lasagna.
Carlo Buzzi e il ritorno al gotico
Nel
1649, per l’ingresso a Milano della regina Maria Anna d’Austria, seconda
moglie di Filippo IV, si preparano grandi apparati lungo tutto il percorso.
Sulla facciata del Duomo, il nuovo architetto della Fabbrica Carlo Buzzi prepara
una sorpresa rivoluzionaria: riprendere l’antica impostazione gotica del Duomo
con due grandi pilastroni affiancati al portale centrale in stridente contrasto
con le opere pellegriniane già realizzate. E’ l’avvio di un nuovo progetto
(fig. 11) che inquadra i portali e le finestre già realizzate dentro grandi
pilastri gotici e che riporta la facciata all’antico disegno basato sulla
pendenza di 90 gradi della copertura. Ai due lati, due grandi torri campanarie
accentuano ulteriormente la verticalità dell’intero edificio. E’ un
esperimento di recupero della tradizione che per la sua fedeltà all’idea
originaria del Duomo si stenta a definire neogotico. Contemporaneamente a questa
proposta, che riceve un’accoglienza favorevole da parte della Fabbrica,
sorgono però subito delle altre proposte, che neogotiche lo sono senz’altro
perché tendono a confondere il gotico con le nuove tendenze anticlassiciste del
barocco borrominiano.
Questa
linea di tendenza inizia con il curioso progetto di Francesco Castelli (fig. 12)
della metà del Seicento e prosegue fino alla metà del Settecento con molti
altri progetti tra i quali spiccano quelli dello Juvarra (1733) e del Vanvitelli
(1745, vedi fig. 13).
Tutto questo dibattito resta sulla carta, nel senso che
molte incisioni e vedute di quest’epoca ci mostrano una piazza del Duomo con
una facciata già realizzata secondo questa o quella proposta. A tante fantasie
corrisponde invece ben poco di reale. Nel 1682, con l’ingresso a Milano dell’arcivescovo
Federico Visconti, si demolisce l’ormai stanca facciata di S. Maria Maggiore e
finalmente la copertura del Duomo arriva al suo termine. Sulla facciata di rudi
pietre (fig. 14) vediamo quanto poco era stato realizzato in cento anni e come
apparirà il Duomo per tutto il secolo successivo, fino all’arrivo di
Napoleone.
Il 1765 è l’anno del trionfo della Ragione: Giuseppe II, il primogenito di
Maria Teresa, è nominato imperatore e coreggente degli stati ereditari
asburgici e quindi anche del ducato di Milano; è appena uscito il libro Dei
delitti e delle pene del Beccaria, manifesto dell’Illuminismo lombardo,
mentre spopolano nelle “edicole” i fogli graffianti del “Caffè”; nel
cortile della Corte ducale con l’ultimo torneo si celebra la fine dell’era
feudale. Da quest’anno una serie di provvedimenti porranno fine ad ogni
commistione tra mondo laico e religioso creando quella spaccatura tra Fede e
Ragione che caratterizza gli ultimi due secoli. Consapevoli di questi mutamenti,
l’arcivescovo Pozzobonelli e la Fabbrica del Duomo rispondono alla sfida con
un’idea destinata ad acquistare col tempo sempre più forza e influenza sulla
città: la Madonnina. All’improvviso, in un Duomo ancora quasi del tutto privo
di guglie, si decide di innalzare la guglia maggiore sul tiburio fino a
raggiungere, con la statua, l’altezza vertiginosa di m 108,5. L’opera, già
discussa da decenni, viene realizzata dall’architetto Francesco Croce con un
ardito disegno che sposa lo stile gotico alla tecnica ingegneristica dell’epoca
e che viene subito contestato dagli scienziati “laici” del gruppo che
gravitava attorno al “Caffè” di Pietro Verri e del Beccaria. Sulla cima
della guglia, secondo un dettato che doveva risalire alle origini stesse del
Duomo, si alza la statua dell’Assunta, che lo scultore Giuseppe Perego
modellò con lo sguardo rivolto verso l’alto e le braccia tese ad invocare la
protezione di Dio sulla città. Da allora i milanesi, sempre di corsa con lo
sguardo attento solo a dove mettono i piedi, hanno imparato ad alzare la testa
verso il Cielo almeno quando si vede, da vicino o da lontano, la Madonnina.
Il 20 maggio 1805, con un ordine perentorio, Napoleone ordina che venga
finalmente finita la facciata del Duomo. Mancano sei giorni dalla sua
incoronazione con la Corona ferrea a re d’Italia ed è così euforico da
promettere che la spesa sarebbe stata sostenuta direttamente dalla Francia. Per
non perdere tempo, intanto, la Fabbrica avrebbe dovuto vendere tutti i suoi beni
immobili e procedere con i lavori mentre il rimborso sarebbe venuto in seguito.
Naturalmente il rimborso la Fabbrica lo sta ancora aspettando, ma in compenso il
Duomo, nel giro di soli sette anni, ha avuto la sua facciata e nella fretta ha
avuto ragione Carlo Buzzi che aveva proposto - lo ricordiamo - nel lontano 1649
la soluzione più semplice che manteneva il profilo originario del Duomo senza
distruggere il già costruito. Sarà Francesco Soave a riprendere, prima ancora
dell’arrivo di Napoleone (1791) il vecchio progetto apportandovi alcune
modifiche in senso neogotico sui finestroni superiori. Essendo però già
defunto nel 1805, l’onore di aver condotto in porto l’opera spetterà a
Carlo Amati e Giuseppe Zanoja, i due architetti più noti della prima metà dell’Ottocento.
Napoleone, per ringraziamento, volle la statua di San Napoleone su una guglia
del Duomo (guglia G65, la quinta dalla facciata sulla navata maggiore a sud).
All’Ottocento non restava che concludere un’opera ormai arrivata in
dirittura d’arrivo. Si realizzano quindi la maggior parte degli archi rampanti
e delle guglie. Si completano le statue, soprattutto sulla parete meridionale.
Si innalzano i tre gugliotti mancanti ad opera del Pestagalli (1845) con il
gugliotto sud-ovest dedicato alla Fede; del Vandoni (1862-1890) con il gugliotto
nord-ovest dedicato alla Madonna; di Cesa Bianchi (1877-1904), con il gugliotto
sud-ovest con la genealogia della Madonna.
L’attività che nell’Ottocento ha lasciato il segno
più forte nell’aspetto del monumento è quella delle vetrate. Giovanni
Battista Bertini e i suoi figli Giuseppe e Pompeo, tra il 1829 e il 1858,
eseguono molte vetrate nuove o sostituiscono antiche vetrate antiche rovinate e
consunte dal tempo con una tecnica piuttosto infelice di “pittura a fuoco su
vetro” che produce esiti assai inferiori come luminosità rispetto a quelli
che si ottenevano anticamente usando i vetri colorati. Le opere dei Bertini o le
parti da loro restaurate si notano facilmente proprio per questa loro opacità.
Dopo questo periodo di vetrate “romantiche” dei Bertini, l’opera venne
completata nel Novecento con le ultime vetrate del lato nord, quelle dell’ordine
superiore della facciata e quelle del tiburio, eseguite tutte con le più
luminose tecniche antiche.
L’ultimo sussulto di progettualità che ha animato la
Fabbrica, ponendola di fronte ad una scelta che poteva essere determinante per l’aspetto
del Duomo, si è avuto nel 1884 quando viene bandito un concorso per il
rifacimento in stile gotico della facciata reso possibile dal cospicuo lascito
di Aristide De Togni di circa 900.000 lire. La morte improvvisa del giovane
architetto Giuseppe Brentano vincitore del concorso e forse il raffreddarsi
degli entusiasmi iniziali fecero ben presto desistere dall’impresa, che si
ridusse al semplice rifacimento della falconatura napoleonica ormai pericolante.
Unica traccia di questo estremo tentativo di combattere i “Romani” cacciando
via le porte e le finestre del Pellegrini, lo si può notare nella porta
centrale bronzea del Pogliaghi, che dovette essere adattata al portale del
Pellegrini con un inserto superiore aggiunto per le sue misure, che al momento
della realizzazione (1906) corrispondevano al portale più basso progettato dal
Brentano. Dopo questa prima porta, dedicata alle gioie e ai dolori della
Vergine, bisognerà attendere mezzo secolo per vedere completate le altre
quattro porte, vero ultimo atto di questa lunga vicenda. Nel 1948 è inaugurata
la porta (prima da sinistra) di Arrigo Minerbi dedicata a Costantino. La seconda
porta da sinistra dedicata a S. Ambrogio, del Castiglioni, è del 1950 come la
quarta porta, di Franco Lombardi e Virginio Pessina dedicata alla lotta contro
il Barbarossa. L’ultima porta verso sud, dopo un concorso vinto da Luciano
Minguzzi, racconta le vicende della fondazione del Duomo e venne inaugurata il 6
gennaio 1965, una data da ricordare perché segna il termine ultimo di questo
enorme sforzo collettivo.
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Ultima modifica: martedì 23 luglio 2002
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