La Casa della cultura di via Borgogna
di Paolo Colussi
Le vieux Paris n'est plus (la forme d'une ville
Change plus vite, hélas!, que le coeur d'un mortel)
Baudelaire, Le cygne, vv. 7-8
Finita
la guerra, a Milano esplode una frenesia molto superiore alle aspettative, che impegna tutti in un’attività incessante che mira a travolgere e a trasformare le idee, gli
uomini e la città dopo il torpore grigio degli anni Trenta e il buio del periodo bellico. E’ uno di quei momenti, non rari nella storia secolare di questa città, in cui, dopo
anni di letargo, si assiste ad un improvviso risveglio che la scuote, è proprio il caso di dirlo, dalle fondamenta.
In un libro uscito di recente, che rievoca la Milano degli anni Trenta e Quaranta, lo scrittore Alberto
Vigevani, ricordando il mondo della cultura di quegli anni che si raccoglieva alla Casa della Cultura e al Blue Bar in piazza Crispi, dice: “La figura di spicco era quella
di Solmi, a cui si appaiò Montale dopo il suo arrivo al 'Corriere della Sera' ...”.
Certo il poeta Sergio Solmi (vedi schede
), se fosse ancora in vita, sarebbe piuttosto meravigliato nel sentirsi definire, lui così schivo e riservato, “figura di spicco” di un ambiente così chiassoso e turbolento
com’era quello dei circoli culturali del dopoguerra, dove tutti, meno lui e pochi altri, salivano in cattedra per proclamare a gran voce i nuovi principi di libertà,
eguaglianza e solidarietà. Ma forse Vigevani voleva semplicemente dire che Solmi, e poi Montale, erano gli artisti di maggior valore presenti allora nel mondo letterario della
città.
Certo Solmi non era estraneo a quanto succedeva attorno a lui, se non altro perché era amico e parente di Raffaele
Mattioli, l’onnipotente presidente della Banca Commerciale Italiana, con il quale aveva trascorso molte serate durante la guerra giocando a scopone scientifico assieme al
comune amico architetto Gigiotti Zanini, prima in via Bigli, e poi, dopo che la casa fu bombardata, in piazza Duse 2, nella casa novecentista progettata dall’amico architetto,
dove Mattioli si era trasferito.
Purtroppo Solmi era una persona che non si lasciava facilmente andare né ad entusiastiche reazioni né a drammatiche
declamazioni, neppure di fronte a fatti rilevanti come il suo arresto, la sua prigionia in via Rovello e poi a San Vittore e la sua liberazione, per cui ben poco troviamo nei
suoi scritti che ci riporti a quegli anni. Per fortuna, però, ci è rimasto un suo breve articolo, uscito nella “Fiera letteraria” del maggio 1946 che ci trasmette lo
stupore di un uomo tranquillo di fronte all’improvviso clamore della vita culturale milanese, che ruotava tutta attorno alla Casa della Cultura.
“Confesso - dice Solmi in questo articolo - che
in pochi mesi ho sentito conferenze almeno venti volte tanto che in tutto il resto della mia vita messo assieme ... E conferenze, quel
ch’è peggio, quasi tutte vive, quasi tutte interessanti. A qualsiasi ora del giorno o della sera, cavando l’orologio di tasca, si può asserire con perfetta sicurezza che in
quel momento una dozzina almeno di oratori, artistici o letterari, stanno parlando in qualche punto della città.
E vennero, alla Casa della Cultura, gli ospiti forestieri...”
Poi prosegue parlando delle visite di Éluard, di Marcel Raymond, di Starobinski, per concludere con queste parole che
tradiscono un’eccitazione davvero straordinaria per quest’uomo pacifico:
“Insomma, per l’artista e l’uomo di lettere Milano sembra trasformarsi ogni
giorno più in un luogo astratto, contrassegnato dalle frecce indicative d’una rinnovata, frenetica civiltà culturale, che anela a scarnire le cose fino all’osso, ad agitare
miti totali, ad imprimere nella vita alla vita un segno tanto forte da lasciarla senza fiato.”
A questo punto, tuttavia, riemerge il vero Solmi di sempre che avverte:
“l’aspirazione a ritrovare una voce fraterna agli uomini, è, e dev’essere,
il segno più nobile della cultura: ma non è certo che una tal voce debba principalmente ritrovarsi in questi pur lodevoli comizi delle arti e delle lettere - i quali, del
resto, attirano maledettamente -, in quest’atmosfera tesa, vibrante e quasi esplosiva di passione intellettuale.”
Solmi si sofferma ad osservare soltanto quanto avviene nel campo delle lettere e delle arti, ma è l'intero mondo della
cultura che è in subbuglio: politica, scienza, tecnica, economia e persino la filosofia, da sempre piuttosto estranea sulla scena milanese; ogni campo del sapere è analizzato,
rivisto, posto in discussione nei caffè, nei circoli e soprattutto alla Casa della Cultura.
Ma è ormai ora che entriamo anche noi in questa mitica Casa della Cultura per cogliere l’eco ormai lontanissimo della
sua atmosfera “tesa, vibrante e quasi esplosiva di passione intellettuale”.
E’ il 20 dicembre 1946, parla l’architetto Ernesto Nathan
Rogers:
“Un cucchiaio è un cucchiaio; una sedia è una sedia; una casa è una casa, una città è una città.
La storia dell'architettura -- ma potrei dire semplicemente la storia -- può considerarsi come un moto di attrazioni e
ripulse tra i due poli, utilità e bellezza, entro i quali si dibatte dialetticamente lo
spirito nel tentativo di stabilire delle identità simili a quelle che ho espresso dianzi.
Da un altro punto di vista, la storia si dibatte fra gli ideali di libertà e
quelli di giustizia che determinano concretamente il dramma dell'individuo e della collettività.
Credo che non si possa parlare di ricostruzione senza tener conto di questi assi che disegnano sopra l'umanità una gran
croce o, se preferite, i punti cardinali di ogni nostra azione...”
(E.N. Rogers, Ricostruzione: dall’oggetto d’uso alla città, in
“Rassegna della Casa della Cultura”, I, n. 1 marzo 1947, p. 27; ristampato in AA. VV., Casa della Cultura. Quarant’anni, cit., p.
135)
Questo celebre discorso, con il suo inizio lapidario, riproduce bene lo spirito di quel tempo e la brusca rottura con i
tiepidi estetismi al quale erano stati costretti gli intellettuali nel ventennio fascista. Ma cos'era questa Casa della Cultura?
La Casa della Cultura dal 1946 al 1963
L'11
aprile 1946 si costituì a Milano l'associazione Casa della Cultura con 19 soci, tra i quali figuravano: Mario Borsa (direttore del Nuovo Corriere della Sera), Alberto Mondadori
(figlio di Arnoldo), Ernesto Nathan Rogers (noto soprattutto per la costruzione della Torre Velasca), Gaetano Baldacci (sarà molti anni dopo il primo direttore del Giorno),
Raffaele Mattioli (il prestigioso presidente della Banca Commerciale), gli scrittori Giovanni Titta Rosa ed Elio Vittorini, Raffaele (Raffaellino) De Grada, l'editore Giulio
Einaudi, che allora risiedeva a Milano e infine Antonio Banfi (vedi scheda ), il filosofo che
aveva dato vita l'anno precedente al Fronte della Cultura e che ora aveva completato l'opera adoperandosi attivamente in questa seconda importante realizzazione.
Il primo presidente fu Mario Borsa, assistito da Banfi e dall'avvocato Edoardo Majno. Nel Comitato esecutivo, accanto a
un ristretto numero di soci, comparve Giancarlo Pajetta, importante esponente del Partito Comunista. La sede ottenuta grazie alle requisizioni postbelliche venne collocata in un
prestigioso palazzo in via Filodrammatici 5, già occupato in precedenza dal Circolo dell'Unione.
La sede era molto bella, accanto al giardino c'erano al piano terreno il ristorante e la libreria (Einaudi), al primo
piano eleganti sale dove si tenevano le conferenze. Il primo stampato illustrativo dell'Associazione (vedi fronte
e retro) si soffermava compiaciuto sul "buon ristorante" e sull' "elegante servizio di
bar" sostenendo che "tutta la tradizione della cultura ambrosiana ci conforta ad un'iniziativa di questo genere, dimostrandoci che negli ambienti gradevoli e intorno a
una buona tavola si rinserrano le amicizie e si stabilisce quel contatto umano che dà alla cultura il suo significato migliore di comunità dei rapporti intellettuali e
sociali." Abbiamo già trovato idee analoghe tra gli Scapigliati di via Vivaio o nella trattoria
di via Bagutta, ma l'analogia si ferma qui.
Anzitutto
la Casa della Cultura non era un circolo di soli artisti o di artisti e giornalisti. ma era, o voleva essere, un luogo d'incontro di "medici e filosofi, ingegneri e artisti,
letterati e politici, scienziati e giuristi" guidati da una comune aspirazione a promuovere, come diceva Rogers, "gli ideali di libertà
e quelli di giustizia". Non a caso il primo presidente avrebbe dovuto essere Ferruccio Parri, e fu di Parri il discorso inaugurale
tenuto in via Filodrammatici il 16 marzo del 1946, che dette il via allo sterminato numero di iniziative ricordate da Solmi.
Il declino del movimento di Giustizia e Libertà e le tensioni della Guerra Fredda determinarono però un brusco
cambiamento dell'atmosfera politica nel corso del 1946 tendendo a spaccare anche il mondo culturale in opposti fronti. Il Pci, irrigidendo la propria politica culturale, si avviò
sempre più a considerare eretici gli intellettuali troppo disposti al dialogo tra le diverse posizioni ideologiche. Su Milano, luogo ideale di queste eresie, arrivò così la
doccia fredda delle famose accuse di Togliatti contro Vittorini e la linea culturale della sua rivista "Il Politecnico". Malgrado le vivaci reazioni di Vittorini, nel
1948 la rivista dovette chiudere e l'anno dopo, per analoghi motivi, chiuderà anche la rivista "Studi filosofici" di Antonio Banfi.
La
Casa della Cultura, quindi, si trovò ad essere stretta tra l'accusa di essere "comunista" da parte degli anticomunisti e l'accusa di essere "eretica" da
parte del Partito Comunista. Non fu difficile a questo punto per la Dalmine reclamare la restituzione dell'immobile e ottenere lo sfratto. Sembrava tutto finito, ma per un
miracolo ancora oggi non facilmente spiegabile, alla fine del 1951 il Pci decise di rilanciare l'iniziativa senza stravolgerne completamente il significato originario, e, forse
per sottolineare questa continuità, affidò l'incarico a Rossana Rossanda, funzionaria del partito ma anche nuora del primo artefice, Antonio Banfi. Dice la Rossanda in un
recente scritto in cui rievoca quegli anni (R. Rossanda, Di sera si andava in via Borgogna, in Cinquant'anni
di cultura a Milano, cit., p. 53) "chiesi le mani libere, e mi parve di averle". Per prima cosa cercò quindi una nuova sede con il proposito di acquistarla e di
acquisire così una maggiore autonomia e la ricerca condusse nello scantinato di via Borgogna 3, che costava 18 milioni. Si cercarono dei nuovi soci che potessero sborsare
500.000 lire a testa per effettuare l'acquisto, ma se ne trovarono molto pochi. Uno
di essi, però, Ignazio Usiglio, che aveva sposato la sorella di Eugenio Curiel, coprì gran parte della spesa. Con l'aiuto dei soci, di Comune e Provincia, della Cariplo e della
Banca Commerciale, l'attività riprese e tornarono alla nuova Casa della Cultura molti degli intellettuali laici, socialisti ed ex azionisti, già attivi nei primi anni. Non
c'era più il ristorante e la libreria e neppure il giardino, ma l'attività culturale riprese intensamente. I rapporti tra comunisti e socialisti non erano sempre facili. Una
sorta di parità era garantita dal fatto che mentre la Rossanda, comunista, aveva la direzione, lo scienziato Carlo Arnaudi, socialista, aveva la presidenza dell'associazione.
Dal 1951 al 1963, quando la Rossanda venne chiamata a Roma dal Pci e dovette lasciare la direzione dell'associazione, la Casa della Cultura riuscì a mantenere vivo, almeno in
parte, lo spirito del "Politecnico" di Vittorini, cercando di introdurre a Milano le più vive esperienze straniere e affrontando apertamente gli eventi drammatici che
lacerarono il mondo culturale della sinistra in quegli anni, primo fra tutti la rivolta ungherese e la successiva repressione sovietica.
Ci furono anche fatti curiosi, "leggende, molto lombarde" ricordate
dalla Rossanda nello scritto sopra citato (p. 56) "come quando, avendo sfidato Ernesto De Martino a pronunciare il nome d'un paese che
egli riteneva fatale, lo pronunciò e la Casa della Cultura si spense e allagò di colpo. O quando Sartre ricevette compunto la busta del premio Omegna e la gettò nel cestino,
convinto che il milione fosse simbolico. O quando un grosso topo, con la cui famiglia nel sotterraneo avevamo dovuto stabilire una certa convivenza, si affacciò dalle stecche
che illeggiadrivano il soffitto e rimase a mirare Ferruccio Parri per tutta la sera minacciando di cadergli addosso, la sala sospesa e solo Parri che si dilungava ignaro. O
quando i futuri ragazzi del Gruppo '63 attaccarono Il gattopardo e un gattopardino in carne ed ossa fuggito dalla casa di un diplomatico in via Cerva scese, fu preso per un gatto
e morsicò un socio."
Partita la Rossanda, con l'avvento del centrosinistra e la ancora più netta separazione tra comunisti e socialisti, la
Casa della Cultura diventa sempre più un'emanazione del Pci prendendo una configurazione diversa, ma questa è una storia ancora troppo difficile da raccontare.
Bibliografia
AA. VV., Casa della Cultura. Quarant'anni 1946 Milano 1986, Milano, F. Angeli
1986
AA. VV., Cinquant'anni di cultura a Milano, Milano, Skira 1996
AA. VV., La costruzione della Milano Moderna, Milano, CLUP 1982
AA. VV., "Urbanistica", XXV, n. 18-19, marzo 1956, numero speciale dedicato al Piano Regolatore di Milano
Fugazza, Mariachiara, Dal Fronte della Cultura alla Casa della Cultura, in Milano
anni cinquanta a cura di G. Petrillo e A. Scalpelli, Milano, F. Angeli 1986
Giacomoni, Silvia, Miseria e nobiltà della ricerca in Italia, Milano,
Feltrinelli 1979
Mazzitelli, Isabella, L'inaugurazione in via Filodrammatici e il trasloco nello
scantinato di via Borgogna: da sempre una bussola della sinistra , in "La Repubblica" del 29-03-2001 (leggi il testo)
Solmi, Sergio, Frammenti di un'autobiografia, in Solmi, Sergio, Opere,
vol. I, tomo II, pp. 187-303
Vigevani, Alberto, Milano ancora ieri, Venezia, Marsilio 1996
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Ultima modifica: martedì 30 luglio 2002
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