A Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) siamo debitori della mitologia sulla fondazione
di Milano tratta dal V libro della
sua Storia di Roma dalla fondazione, iniziata su richiesta di Ottaviano
Augusto tra il 27 e il 25 a.C.:
34. Mentre
a Roma regnava Tarquinio Prisco, il
supremo potere dei Celti (...) era nelle mani dei Biturigi;
questi mettevano a capo di tutti i Celti un re. Tale fu Ambigato, uomo assai potente per valore e ricchezza, sia propria che
pubblica, perché sotto il suo governo la Gallia fu così ricca di prodotti e
di uomini da sembrare che la numerosa popolazione si potesse a stento
dominare. Costui, già in età avanzata, desiderando liberare il suo regno dal
peso di tanta moltitudine, lasciò intendere che era disposto a mandare i
nipoti Belloveso e Segoveso, figli
di sua sorella, giovani animosi, in quelle sedi che gli dèi avessero
indicato con gli àuguri. A Segoveso fu quindi destinata dalla sorte la Selva
Ercinia, a Belloveso gli dèi indicarono una via ben più allettante, quella
verso l’Italia. Quest’ultimo portò con sè il sovrappiù
di quei popoli, Biturigi, Averni, Edui, Ambani, Carnuti, Aulerci. Partito
con grandi forze di fanteria e cavalleria, giunse nel territorio dei
Tricastini. Di là si ergeva l’ostacolo delle Alpi; e non mi meraviglio
certo che esse siano apparse insuperabili, perché nessuno le aveva ancora
valicate (...) Ivi, mentre i Galli si trovavano come accerchiati dall’altezza
dei monti e si guardavano attorno chiedendosi per quale via mai potessero,
attraverso quei gioghi che toccavano il cielo, passare in un altro mondo,
furono trattenuti anche da uno scrupolo religioso, perché fu riferito loro
che degli stranieri in cerca di terre erano attaccati dal popolo dei Salvi.
Quegli stranieri erano i Marsigliesi,
venuti per mare da Focea. I Galli,
ritenendo tale circostanza un presagio del loro destino, li aiutarono a
fortificare, nonostante la resistenza dei Salvi, il primo luogo che essi
avevano occupato al loro sbarco. Essi poi, attraverso i monti Taurini e la
valle della Dora, varcarono le Alpi; sconfitti in battaglia i Tusci
non lungi dal Ticino, avendo sentito dire che quello in cui si erano
fermati si chiamava territorio degli
Insubri, lo stesso nome di un pagus
degli Edui, accogliendo l’augurio del luogo, vi fondarono una città che
chiamarono Mediolanum.
35. Successivamente un’altra schiera, quella dei Cenomani,
sotto il comando di Etitovio, seguì le tracce dei precedenti popoli e, col
favore di Belloveso, passate le Alpi attraverso lo stesso valico, si stanziò
nelle terre dove oggi sorgono le città di Brescia
e di Verona.
Che valore storico accordare al racconto liviano? Occorre tener presente che
Livio raccoglie una narrazione che gli fa qualcuno, un custode della
tradizione mediolanense, che è il vero storico; era molto probabilmente un
Insubre che aveva appreso dai suoi avi la leggenda di fondazione della sua
città. Quindi la voce narrante è di un mediolanense del I sec. a.C., forse
appartenente alla casta dei druidi, membro però di una città romanizzata dal
II sec. a.C. e da circa tre generazioni entrata a far parte del mondo romano
con diritto di voto. Il nostro storico insubre utilizza parametri temporali chiari al
collega di origini patavine e tali da poter situare la fondazione di Mediolanum nel tempo più antico possibile, ma non spiega come mai
gli Insubri, che abitavano da secoli questa regione e avevano già le loro “città”
(Golasecca e Como) accolgano con favore Belloveso e gli altri Galli e
consentano loro di fondare una "capitale".
Per
comprendere come Livio utilizzasse il materiale racconto ci avvaliamo ancora
della critica ineccepibile di uno studioso di letteratura romano, Michael
Grant:
(Livio)
s’impegna in ricerche per riferire il vero, ha l’autentico spirito del
ricercatore; cita le fonti più spesso di quanto non facciano gli altri
storici antichi; controlla le sue asserzioni, sì che non pecchino di
precipitazione; cerca spesso di operare un’abile scelta in favore di ciò
che è plausibile e coerente... Tuttavia, l’uso che Livio fa delle fonti è
sovente manchevole di senso critico. Nonostante il senso storico di Livio, una
notevole parte della sua opera non è proprio storia, nel senso in cui
accettiamo questo termine. Infatti, almeno
i primi dieci libri hanno il sapore del mito.
Livio è infatti così proteso verso l'oggettività storica da non cogliere
quanto di mitico si celava sotto gli eventi che narrava: il “Re del Mondo”
coi suoi due paredri, la prova di coraggio delle Alpi, il nome della città
che gli Insubri permettono di fondare a Belloveso, "Mediolanum".
Non nota neppure un fatto curioso: Belloveso, nonostante disponesse di
fanteria e cavalleria, non conquista un territorio, che continua ad essere
degli Insubri, e dopo la fondazione aiuta solo i Cenomani a stanziarsi a
Brescia e a Verona.
Parlando
di storia nel senso inteso dai Romani antichi si deve però tener presente
che, se anche per loro è solo l'intervento divino a dare significato e
fondamento superiore alla storia degli uomini, i miti sono tutti rivisitati in veste storica.
Le
coordinate cronologiche
La
data in cui Tarquinio Prisco regnò a Roma è posta tra il 616 e il 579.
Tarquinio apparteneva a una famiglia etrusca che aveva usurpato il potere ai
re romani, quindi l'arrivo di Belloveso è posto in un tempo controllato dagli
Etruschi e non dai Romani.
Nel
capitolo precedente quello citato, Livio data gli avvenimenti relativi a
Belloveso a circa duecento anni prima dell'invasione di Roma da parte di
Brenno (387 a.C.) Una terza coordinata storica è fornita dall'informazione
che la truppa di Belloveso aiutò i Marsigliesi attaccati dai Salvi a
fortificare il luogo del loro sbarco, Massalia.
Qui si aprono due letture possibili dell'episodio.
Massalia
era nata come porto fenicio, abitato dalla fine del VII secolo dai
greci di Focea che lo avevano trasformato nel maggior emporio
commerciale dell'Occidente. Massalia godeva di un entroterra fertile e di una facile via di
penetrazione al nord grazie al Rodano. E' quindi possibile che i Salvi abbiano
cercato di contenere l'espan-sionismo dei Focesi, che tentavano di occupare
sempre più terre.
Livio
scrive che Belloveso li aiutò a fortificare il sito dove loro erano sbarcati.
Secondo questa lettura la traduzione cronologica si attesta tra la fine del
VII e l'inizio del VI secolo a.C. L'altra lettura parte dal presupposto che i
coloni combattuti dai Salvi siano i Focesi in fuga dalla madrepatria, invasa
nel 546 dai Persiani. I transfughi avrebbero raggiunto i loro compatrioti di Massalia, ma avrebbero avuto bisogno di nuove terre. In questo caso
l'arrivo di Belloveso nel territorio dei Salvi sarebbe da porsi alla metà del
VI sec. a.C. In ogni caso, lo "storico insubre" voleva collocare
l'episodio in un tempo dell'inizio,
poco dopo la fondazione di Roma e negli stessi anni di quella di Massalia.
Ricorriamo a un'osservazione di M. Eliade:
un
mito strappa l'uomo al tempo che gli è proprio, quello cronologico, storico,
e lo proietta, almeno simbolicamente, nel Gran Tempo, in un istante
paradossale che non può essere misurato in quanto non costituito da una
durata. Si realizza così un'apertura verso il Tempo Sacro.
Biturigi,
i re del mondo
Era
il nome di una tribù stanziata nel centro della Gallia, che chiamava se
stessa "i re del mondo", da bitu
(o byth, byd) "mondo" e dal plurale della parola rix,
"re". Chateau-meillant (Mediolanum)
era il centro sacro dei Biturigi Cubi da cui viene fatto emigrare Belloveso,
non lontano da Avaricum (Bourges),
la loro capitale. I Biturigi Vivisci avevano come loro centro Meilhan
sulla Garonna, verso Burdigalia
(Bordeaux). Notiamo per inciso che il centro sacro non coincide, almeno in
questi casi, con la capitale. Dire che il fondatore del mediolanum degli Insubri proveniva dai Biturigi, significava
riconoscergli la regalità che gli veniva dall'appartenere ai "re del
mondo", sufficiente per garantire la più nobile origine alla sua
fondazione.
Ambigato-Giano
Ambigato,
il re dei Biturigi, ha un nome costituito da ambi
"due" e *catu,
"battaglia": questo "re del mondo" è colui che combatte
su due fronti come Giano per i
Romani, che è il dio degli inizi e il signore del tempo, coi suoi attributi dello scettro (potere regale) e della chiave
(potere spirituale). Ambigato è un re secondo l'antica radice *reg che è alla base di rex
(latino) e rix (celtico): rix
è chi traccia la linea celeste e quella terrestre per mezzo dello scettro
augurale e chi traccia la retta via. Il racconto liviano parte da un re "dio degli inizi"
per i Celti, come per i Romani Giano
era stato il primo re del Lazio e il fondatore della regalità nel mitico
tempo delle origini. Ai suoi esordi, Giano era infatti “il buon creatore, il padre
degli dèi”, come lo salutavano i sacerdoti Salii. Come per i Romani Giano
era un dio iniziatore, l’unico in grado di consentire la continuità della
tradizione primordiale, così Ambigato è all’origine della civilizzazione della
Cisalpina, anche se manda un suo nipote a compiere la missione. E’ possibile
che lo "storico insubre" interpretasse secondo i termini romani Ambigato come Giano per definire il re del tempo delle origini.
Belloveso e Segoveso
Sono
i figli di una sorella di Ambigato. In Gallia i due fratelli furono spesso
paragonati a Castore e Polluce, i Dioscuri, che nel periodo romano godranno di un culto diffuso in Gallia. Belloveso
è il più splendente o illuminato, godendo della forza oracolare di Apollo, e Segoveso il più
potente, come dire "forza e intelligenza". Si tratta quindi di una
sola entità che viene duplicata per aumentarne gli attributi, secondo il
principio protrattosi fino alle coppie di santi cristiani che “la duplicità
conferisce qualcosa di amabile e che ispira fiducia”. I due fratelli (i gemelli non esistono come concetto presso i
Celti) emigrano insieme e, alla confluenza fra Saonna e Rodano, fondano una
città sul luogo indicato da un volo di corvi, animali oracolari di Lug, per
cui la loro fondazione si chiamerà Lugdunum
(Lione); lo Pseudo-Plutarco li chiama Momoros
e Atepomaros (epiclesi di Apollo).
Da questo punto le loro strade divergono, uno avviandosi lungo il corso del
Rodano e risalendo poi per il Reno nella Selva Nera, l'altro seguendo la valle
della Dora verso la Pianura Padana. Bisogna ricordare che “Apollo” come
divinità celtica non è un dio solare. Belloveso,
che essendo splendente viene erroneamente associato a un eroe solare, è in
realtà un "eroe culturale", un "eroe civilizzatore" che
non ha alcuna forza di per se stesso se non attraverso la Madre-Sole, reale
detentrice della sovranità. L'eroe "splendente" Belloveso(Apollo)
è in realtà un eroe-luna
dipendente dalla madre-sole,
sorella di Ambigato-Dispater; è per questo motivo che lo troveremo associato
alla scrofa bianca, l’animale
sacro a Belisama-Minerva e simbolo
di Milano. Solo successivamente l'Apollo celtico diventerà lui stesso il
sole, ma il periodo storico in cui si situa il racconto è ancora quello dei
primordi, quando la cultura celtica era fondamentalmente notturna.
Il
ver sacrum o primavera sacra
Belloveso
porta con sé il sovrappiù di una serie di popoli della Gallia. Alla
tradizione liviana si aggiunge un'interpretazione del mito fornita da uno
scrittore gallo-romano del I sec. d.C., Pompeo
Trogo, secondo il quale l'invasione celtica in Italia è presentata come
un ver
sacrum latino. Questa lettura crea alcuni problemi, perché non si
conosce nella tradizione celtica un altro ver
sacrum, fatta eccezione per Lione che condivide con Milano la stessa
leggenda. Il nostro "storico insubre" voleva forse sottolineare
implicitamente il carattere sacrale e non militare dell'emigrazione guidata da
Belloveso.
La
"primavera sacra" era un antico rito indo-europeo originato
dall'abitudine allo spostamento dei popoli nomadi preistorici. Divenuti ormai
stanziali, ogni volta che un gruppo di persone decideva la conquista
di nuove terre si faceva una cerimonia ben augurale. Il ver sacrum rappresentava la consacrazione agli dèi di animali e
bambini che venivano alla luce nella primavera successiva. Divenuti adulti, li
coprivano con un velo e li facevano
uscire dal loro territorio. La presenza del velo li designa come consacrati a
un dio - che per gli Italici era Marte - e assimilati
ai morti, il cui viso veniva velato, per impedire loro di tornare
indietro. Come sottolineava Dumézil, la pratica del ver sacrum
prolungava, ormai in condizioni d'insediamento stabile, l'occupazione
progressiva del suolo. Nel racconto mitologico, sotto la spinta di
Giano-Ambigato si ha un'emigrazione senza ritorno, ossia un graduale
spostamento di guerrieri verso nuovi territori.
Gli
Etruschi in Val Padana
Sul
Ticino Belloveso e i suoi si scontrano con gli Etruschi. La cronologia lunga
che si attiene al brano liviano è stata respinta fino a poco tempo fa dagli
archeologi perché era ritenuta impensabile una presenza etrusca in Val Padana
nel VII-VI sec. a.C. Il fatto che Belloveso si fosse scontrato con dei Tusci
per entrare in Val Padana faceva deporre per un ingresso dei Galli in un'epoca
più recente di quella stabilita da Livio.
Nel
1984 si rinvenne a Rubiera (RE) un cippo in arenaria finemente decorato che
menziona uno zilath, un plenipotenziario etrusco a custodia del confine
occidentale del territorio etrusco-padano, per sbarrare l'accesso ai Galli,
che già da tempo commerciavano con l'Etruria. Nuovi scavi e ricerche sembrano confermare che nel VI secolo a.C.
gli Etruschi avevano grossi interessi commerciali nell'area del Ticino, con
una via di collegamento con la Gallia.
Gli
Insubri nella civiltà di Golasecca
Secondo
il racconto liviano Belloveso, appartenente ai “re del mondo”, si stanzia
con il suo seguito nel territorio già occupato dagli Insubri: abbandona ogni riferimento alla sua tribù originaria e si
inserisce in quella già stanziata. Belloveso riconosce gli Insubri come
identici agli abitanti di un pagus
(cantone) degli Edui e ciò gli
sembra di buon auspicio per fermarsi. Gli Insubri erano stanziati in questo
territorio almeno dal IX secolo a.C., ma lo "storico celtico" ci
tiene a far sapere a Livio che discendevano dalla stessa stirpe degli Edui,
fra i Galli i più vicini a Roma, e che fu lo stesso Belloveso a far stanziare
a Brescia e a Verona i Cenomani,
altri grandi alleati dei Romani.
Gli
Insubri appartenevano alla cultura di
Golasecca, cosiddetta da una località vicino a Varese dove sono
avvenuti i maggiori ritrovamenti celti in Lombardia. E' una cultura che si è
sviluppata nella prima Età del Ferro tra il lago Maggiore e il Serio, avendo
il Po come confine naturale a sud e che ha come corrispettivo centro-europeo
la civiltà di Hallstatt. Dal IX al
VII secolo la popolazione insubre preferì stanziarsi nella fascia pedemontana forse
a causa della crisi climatica che, intorno all’XI-VIII sec. a.C. ha segnato
l’inizio del periodo subatlantico, con clima più freddo e piovoso: l’impaludamento
delle aree pianeggianti e l’azione erosiva nelle valli dovevano aver limitato
l’area ideale per gli insediamenti.
Mentre
Como ebbe il suo “Medhelan”
identificabile forse nell’attuale Melano
sopra Mendrisio, Milano fu il santuario della zona di Golasecca, per la quale
disponiamo di informazioni desunte solo dalle sepolture. Oltre alle solite
urne cinerarie, anche qui due tombe di nobili hanno restituito a Sesto Calende
un carro a due ruote, morsi e briglie per due cavalli e il corredo da
combattimento, databili proprio all'epoca dell'arrivo di Belloveso, fine
VII-inizi VI secolo a.C. Gli oggetti contenuti nelle due tombe di Sesto Calende dimostrano
l’ampiezza degli scambi commerciali intrattenuti dagli Insubri, con oggetti
d’importazione etrusca, picena e transalpina sia orientale (Stiria) che
occidentale.
Dire
che Belloveso e i suoi si fermarono nel pagus
degli Insubri non indica un luogo preciso (Mediolanum),
ma una regione già inserita in una proficua rete commerciale e con un tenore
di vita abbastanza alto e socialmente differenziato. I due centri di Golasecca
e Como decaddero all’inizio del IV sec. a.C., in concomitanza con l’arrivo
dei Galli guidati da Brenno e con la preferenza accordata al Medhelan degli Insubri per la sua centralità nella pianura.
Mediolanum
Questo
è il nome che Livio riporta, già tradotto dal celtico Medhelan, dove medhe
(poi medio) sta per "centro" e lanon
significa "santuario", rimasto nei toponimi gaelici attuali come llan,
"chiesa", llawn
"perfezione". Il sanscrito madhya-lan significa "la terra sacra del mezzo". La
fondazione non riguardò quindi una città, bensì un centro religioso, un centro
sacro, che si univa alle proto-città di Como e Golasecca. Il nostro
"storico insubre" non informa Livio sul significato del nome o sulla
particolarità della fondazione, il che confermerebbe, secondo il racconto di
Polibio del II sec. a.C., scritto dopo la conquista romana, che il santuario
si era già trasformato in un centro abitato, probabilmente in seguito alle
successive invasioni o migrazioni del IV secolo a.C. Quindi Mediolanum
era diventata una metropoli dall'inizio del IV sec. a.C., ma c'era stato un
tempo, forse proprio nel VI secolo, in cui era stata solo un Medhelan.
In
conclusione, lo "storico insubre" che narrò il mito di fondazione
di Milano a Livio parlò di un'età dell'oro in cui un re del mondo - ma anche
re dall'eternità - inviò un nipote assimilabile ad Apollo a fondare un
santuario per un popolo destinato dal nome a diventare un valido alleato
romano. Lo "storico" o lo stesso Livio forniscono una serie di
coordinate storiche, che forse non sono in antitesi col mito, perché il VI
sec. a.C. poteva sembrare nel I sec. a.C. il punto di ogni inizio, l'origine
di ogni civiltà. Siamo quindi a nostro parere in pieno mito, quasi in una
teogonia, ma
in ogni tradizione mitologica - ed è ancor più vero presso i Celti - bisogna
sempre domandarsi se il mito non nasconda una certa realtà storica, sia
attraverso la divinizzazione di personaggi insigni, sia perché il mito, per
essere comprensibile, deve materializzarsi nella storia.
Limitarsi
ad affermare che il racconto è solo mitico permetterebbe di esaminare meglio
le competenze proprie del mito, ma significherebbe anche privarsi di
un'apertura sul reale. Le ipotesi infatti sono due: o il racconto di Livio
maschera più prosaicamente l'arrivo in Italia di bande di mercenari celti
attirati dalla ricchezza degli Etruschi, o siamo in presenza di una fondazione
sacra, che attinge a una mitologia di fondazione.
Nel mondo celtico si conoscono diversi luoghi sacri, divisi essenzialmente tra
nemeton
e Medhelan. Il termine latino nemus
(gr. nemos) indica una foresta in
cui sono compresi dei pascoli, un boschetto e un bosco sacro. A sua volta il bosco sacro comprendeva una radura, con gli alberi
venerati messi in evidenza. La radice *nem-
contiene l'idea di separazione, di isolamento per cui un nemus è uno spazio separato e riservato al dio; ma per i Celti *nem-
indicava soprattutto il "cielo", per cui il nemeton
celtico viene ad essere il "paradiso terrestre" o un "frutteto
meraviglioso", come risulta dalle leggende celtiche. Il nemeton
è quindi uno spazio aperto e coperto d'erba in una foresta e
contemporaneamente il tempio druidico, con o senza foresta.
C.J.
Guyonvarc'h sottolinea il carattere celeste e interpreta il nemeton
come "curvatura, volta", ossia uno spazio che ripropone ritualmente
la volta siderale coi suoi fenomeni. Per fondare un santuario si cominciava
col riconoscere i campi celesti, poi li si identificava nella geografia
terrestre. Il nemeton andava "cosmizzato"
con riti che ripetevano simbolicamente l'atto della creazione per tener fuori
il caos.
Un Medhelan
è un santuario al centro
di una serie di coordinate terrestri e astrali al quale confluiscono i druidi
e la popolazione in particolari momenti celebrativi. Il centro è già in sé
un'origine, il punto di partenza di tutte le cose; se è all'interno di un
cerchio, il centro è il simbolo del principio e il cerchio quello del mondo.
Un Medhelan può essere circondato
da un nemeton.
In
Europa esistono un centinaio di Mediolanum,
per i quali non è stata ancora avviata una ricerca sistematica di raffronto
archeologico e di tradizioni locali. Certo è che l’interpretazione del nome “mediolanum”
come di “in mezzo alla pianura” non regge al confronto con gli altri
centri omonimi europei.
Nel 1928 A. Colombo aveva suggerito che il centro pre-romano andava cercato
nell'area intorno alla Scala per motivi più che altro toponomastici: via
dei Due Muri si riferiva forse ai muri affiancati dell'area pre-romana e
della successiva città romana; la via Andegari
ricordava il nome del biancospino, pianta sacra; il primo monastero benedettino, sorto sul perimetro di questa
ellisse, ebbe il nome di S. Protaso ad
monachos o alla rovere,
indicando così la presenza di querce. Quello che sfuggì allo studioso
di storia milanese fu lo strano andamento
a forcella di una delle strade più antiche romane (II sec. a.C.), quella
corrispondente all'attuale corso Vittorio Emanuele - piazza Duomo - Cordusio -
via Broletto, così insolito per le dirittissime strade romane di pianura che
non trovino impedimenti naturali come laghi o montagnole.
Osservando
le piante di Milano fino alla costruzione della Galleria Vittorio Emanuele
salta gli occhi come intorno a piazza della Scala, seguendo i confini
suggeriti dal Colombo su basi toponomastiche, vi sia effettivamente l'impronta
di un'ellisse, divisa in due da via Manzoni-via S. Margherita. Le
dimensioni sono di m 443 per l'asse maggiore e m 323 per il minore. All’interno di questa ellisse gli scavi che si sono succeduti
dall’Ottocento ai nostri giorni non hanno fornito che scarsissimo materiale
e tutto risalente all'età imperiale romana, mentre per il periodo precedente
si ha traccia di vegetazione .
La
strada a forcella sembrerebbe ricalcare una più antica glareata celtica, in
direzione verso Como da un lato e verso Bergamo dall'altro. La strada che
divide l'ellisse (via Manzoni-via S. Margherita) prosegue in direzione per il
Ticino. Al di sopra dell'ellisse si può supporre l'esistenza di un'altra
circonvallazione in direzione Novara verso ovest (tratto scomparso) e Pavia verso sud,
rimasto nel tratto di corso di Porta Vigentina.
La
rete viaria
Questo
sistema viario costituisce, a nostro avviso, l’origine della successiva
centralità commerciale di Milano. Ne ha riconosciuta l’importanza Pierluigi
Tozzi, che ha studiato la rete viaria di Milano attraverso la testimonianza
degli itinerari, delle pietre miliari e della toponomastica. I collegamenti più antichi erano con Como-Golasecca e
Bergamo-Brescia per il settore settentrionale. La via per Como,
in uscita dall’attuale via Broletto, raggiungeva la Val Bregaglia attraverso
i passi del Maloia oppure Coira attraverso lo Spluga e quindi le aree renane e
danubiane. All’altezza del Ponte Vetero si diramava la strada per la zona di
Golasecca-Sesto Calende-Castelletto
Ticino, un collegamento inevitabile dato che il Medhelan serviva per i raduni di queste popolazioni.
La
strada per Bergamo-Brescia si diramava all’altezza dell’antico compitum
romano (via S. Paolo-ang. c.so Vitt. Emanuele) e attraverso via Cavallotti,
Battisti, Fontana, Anfossi, arrivava a Ponte Lambro, superava l’Adda per
Roncadello e Moscazzano fino a S. Bassano oltre il Serio e finiva ad Acerrae
(Pizzighettone), venendo prolungata nel II secolo fino alla colonia romana di
Cremona.
In
direzione sud il collegamento avveniva inizialmente attraverso la via
Vigentina, che scendeva attraversando il compitum
romano e conduceva verso il Po in direzione di Pavia. In età romana questa
via verrà abbandonata per quella in uscita da Porta Ticinese.
L’ultima
direttrice era quella per Vercelli-Eporedia-Susa e il Gran S. Bernardo con la Gallia Transalpina.
Sfortunatamente,
come già evidenziato, gli Insubri sono terribilmente avari di testimonianze e
giustificare l'esistenza del santuario su pure basi archeologiche sarebbe
stata un'impresa impossibile, nonostante l'evidenza topografica, se non fosse
venuta in soccorso una branca recente dell'archeologia, l'archeo-astronomia.
L'orientamento
secondo il calendario astronomico
Nel
dicembre 1997 due archeo-astronomi di Brera specializzati nello studio dei
santuari celtici, Silvia Cernuti e Adriano Gaspani, presero in considerazione
l'ipotesi formulata dalla scrivente nel 1991 circa l'ubicazione del santuario
insubre e dello sviluppo della città romana.
Gli
assi dell'ellisse sono apparsi ai due archeo-astronomi come posti lungo delle
direttrici astronomiche di particolare interesse per il mondo religioso
celtico. L'asse da via Boito in direzione via S. Raffaele coincide con la
direzione della levata eliaca di Antares nella costellazione dello Scorpione, ossia
col punto dove l'astro faceva la sua comparsa nel cielo prima del sorgere del
sole durante la festa di Samain
(pr. scio-uin). Antares, stella
rossa, è posta alla fine della via Lattea, motivo per cui veniva considerata
la porta per l'aldilà.
Questa
festa era la principale dell'anno celtico perché segnava la fine dell'anno e
l'inizio di quello nuovo, con un intervallo fuori dal tempo in cui gli esseri
umani venivano in contatto con l'altromondo, il sid.
La festa durava una settimana: tre giorni prima della festa, il giorno stesso
e tre giorni dopo. Nel VII-VI secolo a.C. la levata eliaca di Antares si
verificava intorno all' 11 novembre,
rimasta nel calendario cristiano come "estate
di S. Martino". Lo stesso punto coincide con il sorgere
del Sole al Solstizio d'Inverno,
evento astronomico interessante nel più moderno periodo romano, soprattutto
dopo la riforma giuliana.
Lungo
lo stesso asse ma guardando verso via del Lauro si ottiene un altro punto
astronomicamente significativo: il tramonto
del Sole a Beltane, la festa
dei fuochi, che nel VI secolo a.C. cadeva intorno al 6 giugno. La festa si
perpetuò nei fuochi di S. Giovanni il 24 giugno e nei fuochi di S. Vito il 15
giugno, il che dimostrerebbe che la data del 1° maggio per Beltane risale a
necessità di razionalizzazione del calendario giuliano. In questo stesso
punto si segnalò in età romana il tramonto del sole al Solstizio
d'Estate con l'erezione dell'arco di Giano
quadrifronte.
L'altro
asse dell'ellisse è lungo via Manzoni-via S. Margherita. Qui, volgendo lo
sguardo verso piazza Cavour, si assisteva alla levata
eliaca di Capella, nella costellazione dell'Auriga, che secondo la teoria
Cernuti-Gaspani dava avvio alla festa di Imbolc.
Nel VII secolo il giorno cadeva il 24
marzo, una festa della primavera.
L'orientamento
dell'ellisse permetteva quindi di fissare come un grande calendario ben tre
feste celtiche di grande importanza: Imbolc,
Beltane e, la più importante, il
capodanno di Samain, quando si
portava a casa il nuovo fuoco del falò sacro, si facevano previsioni sul destino del consultante e si uccidevano
gli animali che sarebbero stati consumati in inverno. Il falò sacro serviva anche a sostenere le forze della crescita
della natura che altrimenti il freddo invernale avrebbe eclissato. Anche l'uso
a capodanno dei sempreverdi è connesso al fatto che, in origine, li si
portava in processione sui campi, come prova che la vita della natura non si
era spenta .
Una
rigenerazione periodica del tempo presupponeva, sotto una forma più o meno
esplicita, una ripetizione dell'atto cosmico oltre all'estinzione del fuoco e
alla sua rianimazione rituale in una seconda parte del cerimoniale; si
dovevano fare combattimenti cerimoniali tra due gruppi di comparse o orge
collettive o processioni di uomini mascherati, rappresentanti le anime degli
antenati che ritornavano dal sid. Durante queste manifestazioni le anime dei morti si
avvicinavano alle abitazioni dei vivi, che venivano loro rispettosamente
incontro e le circondavano di omaggi, per poi ricondurle in processione al sid. Le credenze che i morti ritornino presso la loro famiglia nel
periodo dell'anno nuovo denotano la speranza che l'abolizione del tempo sia
possibile in quel momento mitico in cui il mondo viene annullato e ricreato. La morte rituale dell'uomo e dell'umanità sono indispensabili per
la loro rigenerazione, perché le divinità della fertilità esauriscono la
loro sostanza nello sforzo impiegato per sostenere il mondo e assicurargli la
sua abbondanza. Lo stretto collegamento con la produzione agricola lo si deduce
anche dall'osservazione che nella maggior parte delle società primitive
l'"anno nuovo" equivaleva all'abolizione
del tabù al nuovo raccolto, che veniva proclamato commestibile per tutta
la comunità. Dove si coltivavano diverse specie di cereali o frutti, la cui
maturazione si scaglionava in più stagioni, si assisteva a diverse feste
dell'anno nuovo. Questo significa con una bella espressione che "frazioni
del tempo" erano ordinate dai rituali che presiedevano al rinnovo delle
riserve alimentari.
Ammesso
che la forma ellissoidale intorno a piazza della Scala rappresenti un Medhelan e che l'orientamento coincida con le posizioni astronomiche delle feste più
significative celtiche, resta da capire il motivo della fondazione di un
santuario in un luogo neppure troppo vicino ai due centri più abitati di
Golasecca e Como. Perché improvvisamente si decida di fondare un santuario
occorre una ierofania, un evento strabiliante che deve rimanere per sempre a
ricordo dell'accaduto. Siamo debitori ancora ai due archeo-astronomi Cernuti e
Gaspani della rilevazione che nel 582
a.C. si verificò nell'emisfero settentrionale per ben due volte nell'arco
di un mese (21 luglio e 19 agosto del calendario giuliano) l'allineamento di
tutti i pianeti lungo la coordinata 280°
WNW, coincidente con il nostro asse dell'ellisse in uscita da via del
Lauro. Resta da verificare se anche gli altri santuari che nell'Europa celtica
portano il nome di Mediolanum hanno
avuto lo stesso evento scatenante.
L'individuazione
di un nemeton da parte degli
Insubri, ossia di una radura circondata naturalmente da alberi, con un
orientamento particolare e con una dimensione adeguata, può aver richiesto
anche una decina di anni e può essere coincisa con l'arrivo dei Galli di “Belloveso”,
considerando benaugurale l'evento. Difficilmente potremo mai ricevere una
conferma al riguardo.
Il
raduno festivo
Un Medhelan
è innanzi tutto un luogo
di raduno in particolari occasioni: il capodanno, le feste maggiori e i
consigli di guerra. E’ custodito dalla casta dei druidi,
termine col quale si designano i sacerdoti ma anche la classe dirigente in
genere. Per il resto dell’anno un Medhelan torna a essere una radura, seppur consacrata. Non è facile capirne l’organizzazione.
Anche Maria Riemschneider si chiede, relativamente ai santuari, dove dormivano
i pellegrini, dove mangiavano:
era
necessaria una grande sala. Conosciamo molto bene questi locali negli epos dei
Celti insulari. Il materiale con cui sono costruite è molto deteriorabile,
sono pareti intrecciate. Al centro c’è il calderone, nel quale sono bolliti
pezzi di carne di maiale e di manzo. I Celti non sanno arrostire. La persona
più importante prende per prima il pezzo migliore dal gigantesco calderone.
Poco distante dall’ellisse, lungo la strada per Pavia (la Vigentina), si
creò in coincidenza con il punto segnato dalla levata eliaca di Antares uno
spazio rituale che la tradizione ha successivamente tramandato come anfiteatro
del Brolo, ingenerando confusione presso gli studiosi più antichi e
critiche dai moderni. Teniamo per tutte la dizione “fantasiosa” di Galvano
Fiamma:
amphiteatrum
fuit haedifitium rotundum altissimo muro circumspectum, in quo erant due
porte. Una
versus oriens, altera versus occidens.
Parlando
del suo uso nei tempi antichi, il Fiamma spiega che, quando
scoppiavano delle liti, invece di risolverle in tribunale davanti a un
giudice, si scendeva in campo a combattere:
se illi duo
inter quos erat questio in equis albis cum galleis aureis, alter per portam
orientis, alter per portam occidentis calcaribus urgentes destrarios, in
tantum astiis et gladiis perseveranter dimicabant, quousque in alterius mortem
prosiliret. Unde in ista civitate antiquitus non fuit opus lege ubi insanins
gladius disputabat.
Il Flos florum chiarisce che “erat
istud amphiteatrum positum, ubi nun est Brolium”, e ne attribuisce la committenza al senatore Gabinio, inviato dal senato romano al tempo di Pompeo Magno, invece
il Besta sostiene che questo edificio risaliva al periodo precedente l’arrivo
dei Romani,
quando
Milano era senza leggi, senza tribunali di giustizia, senza dottori e senza
causidici.
Premesso che l’anfiteatro come edificio non può che risalire all’epoca
romana, è la funzione di luogo di giustizia che lo collega al tempo
pre-romano. E’ probabile infatti che si trattasse di uno spazio, in
collegamento col cimitero dell’Età del Ferro sull’area del Policlinico,
dove gli Insubri tenevano i giochi funerari. I Celti ignoravano i ludi gladiatori, ma avevano
gli andabata, gladiatori ciechi, che
combattevano in occasione di funerali di nobili oppure durante le
feste di Samain e di Lugnasad, la seconda della durata di quindici giorni,
nel corso dei quali si organizzavano corse dei cavalli, gare di poesia e si
tenevano assemblee legali e giuridiche. Mentre la parte assembleare può
essersi svolta nel Medhelan, per l’aspetto
più sportivo, ludico o di combattimento può essere stata riservata quest’area.
Nel mondo celtico non esisteva il diritto pubblico, tutto era basato sul
diritto privato; se non si arrivava a una definizione amichevole, le
controversie si risolvevano con duelli giudiziari e con ordalie.
Se
il collegamento fra i giochi funebri e il capodanno di Samain con l’area
cimiteriale può essere immediato, meno comprensibile risulta l’utilizzo
della stessa area per i giochi estivi di Lugnasad, la grande assemblea annuale
celtica in occasione del raccolto. I giochi
funebri di Lugnasad sembrerebbero connessi con l’usanza di fare un
sacrificio allo spirito del grano. Alcuni defunti venivano commemorati a
Lugnasad perché
come lo spirito del grano veniva ucciso durante la mietitura, così le vittime
umano erano placate dal suo sacrificio.
In occasione delle feste arrivavano al Medhelan anche i coltivatori per scambiare i prodotti alimentari con gli oggetti
artigianali. Il luogo di culto viene abbinato così sin dalle origini al
mercato.
Il
ponte
All’anfiteatro
del Brolo la tradizione locale collega un altro enigmatico edificio, il Pons necis al Bottonuto.
Il ponte è una reminiscenza di un passaggio provvisorio esistente quando
nella zona vi era un acquitrino, trasformato poi in darsena dai Romani. Scomparso l’acquitrino, il ponte, per conservarsi così
tenacemente nella memoria collettiva cittadina, potrebbe rimandare a tempi
ancestrali, alla religiosità druidica, per la quale il tema del ponte o del
guado da attraversare è un elemento essenziale, che Mircea Eliade così
spiega:
In
illo tempore,
in tempi paradisiaci dell’umanità, un ponte collegava la terra al cielo e
si passava da un punto all’altro senza incontrare ostacoli, perché non vi
era la morte. Adesso non si passa più sul ponte, se non in spirito. Solo i
buoni e gli iniziati lo attraversano, perché hanno subito la morte e la
risurrezione rituali.
Il ponte poteva essere collegato alla festa di Samain, che era di per sé il
ponte dell’alba dei tempi, ricostituito per tre notti. Riassumendo in
termini di memoria collettiva, il
ponte è un elemento archetipico, il panthah
vedico, ossia “cammino angoscioso e pericoloso” che solo pochissimi sono
in grado di percorrere senza aiuto, ponte collegante le due rive del cielo e
della terra separate dalle acque della manifestazione.
La
scrofa “semi-lanuta”
L'animale
simbolo di Milano (prima dell'avvento del biscione visconteo) era la scrofa
“semilanuta”. Se togliamo la qualifica "semi-lanuta" derivante
da Medio-lanum, resta pur sempre la scrofa. L'Alciati narra che quando
Belloveso giunse in Insubria, elesse sette savi che consultarono l'oracolo per
sapere in quale luogo dovessero fare le fondamenta. La risposta dell'oracolo
fu "che una scrofa ricoperta di lana segni il principio e il nome della
città".
In
realtà il luogo non è mai scelto dagli uomini, ma solo "scoperto":
lo spazio sacro si rivela a loro tramite l'orientamento astronomico e grazie a
un animale che, lasciato libero, viene sacrificato nel punto in cui viene
trovato il giorno dopo. Per i Celti la dea solare Belisama
aveva come ierofania una scrofa bianca,
soppiantata successivamente dal cinghiale
bianco, sacro al dio solare Lug.
Come la scrofa era legata al ciclo lunare, così il cinghiale era connesso a
quello solare e all'aggressività dei guerrieri. I Celti seppero armonizzare
nella loro spiritualità il regno lunare della scrofa con quello solare del
cinghiale; entrambi gli animali avevano il dono di guidare oltre le porte del
mondo visibile, per cui potevano essere utilizzati per individuare il nemeton
in cui costruire il santuario. Data l'epoca arcaica in cui venne fondato il
santuario degli Insubri e la prevalenza dei culti lunari su quelli solari
nella religiosità dell'epoca, è possibile che sia stata veramente una scrofa
bianca l'animale-simbolo di Milano e che il santuario fosse dedicato a Belisama
(poi Minerva).
Il
culto delle pietre
Per
tutto il periodo che intercorre dal VI sec. a.C. al IV a.C. non possiamo che
fare considerazioni generali sulla religiosità celtica servendoci però del
materiale fornitoci dalle leggende e dalle tradizioni locali.
Uno
dei culti che si prolunga in un certo senso fino ai nostri giorni è quello
delle pietre. Non è che i sassi in sé e per sé siano mai stati oggetto
di culto, ma lo diventarono in quanto rappresentavano qualcosa o provenivano
da un luogo intriso di sacralità. I concili del IV secolo condannarono
ripetutamente il culto delle pietre, oltre che delle fonti e degli alberi
(condanna ribadita fino al VII secolo, segno di persistenza dei culti). Presso
i Celti si conosce l’uso di pietre durante le cerimonie d’insediamento dei
capi, i quali salivano su di esse e
giuravano di seguire le orme dei
loro predecessori; sulla pietra era inciso un paio di piedi a rappresentare
quelli del primo capo.
Le
chiese di S. Nazaro Pietrasantae di
S. Vittorello a Porta Romana conservavano due pietre legate al culto ambrosiano:
sulla prima Ambrogio salì per
montare a cavallo, sulla seconda si accasciò dopo aver inutilmente tentato la
fuga per sottrarsi alla sua elezione a vescovo.
Possiamo quasi sicuramente affermare di essere in presenza di un antico
culto pagano esaugurato dall’abbinamento alla carisma-tica figura del santo
milanese.
Le ruote
o pietre forate
A
un’altra categoria di pietre cultuali appartiene la ruota o pietra rotonda forata, presente a Milano come pietra del
Tredisin de Mars e pietra di S. Stefano. La pietra del Tredesin è associata al culto di S. Barnaba e agli
esordi della Chiesa milanese. Si tratta di una pietra rotonda, con un buco in mezzo e una
raggiera di tredici linee, oggetto di grande venerazione nei secoli. Il fatto
che sia da sempre stata abbinata a S. Barnaba, colloca il culto in tempi
remoti. La ruota era conservata in origine in S.
Dionigi a Porta Venezia.
La
pietra forata ha un valore particolarissimo, risalente all’India vedica. Il
foro nella pietra si chiama “porta della liberazione”, attraversando la
quale l’anima può passare oltre e salvarsi. La pietra può quindi essere appartenuta a un primitivo luogo di
sepoltura, anche se non necessariamente a un’area cimiteriale. Su un fodero
in bronzo di una spada hallstattiana si vedono due guerrieri intenti a far
girare una ruota, che Maria Riemschneider ritiene rappresentino una scena
rituale, legata all’immortalità che il guerriero si attendeva. Le ruote
venivano deposte per lo stesso motivo nelle tombe.
Ruote di fuoco (di sangue)
L’altra
pietra, o meglio ruota degli Innocenti,
era legata nella tradizione agli scontri fra ariani e cattolici all’epoca
del vescovo Ambrogio: col sangue
dei cattolici si sarebbe formata una ruota che, rotolando
per le strade, si sarebbe fusa sulla facciata della cappella degli
Innocenti, nel cimitero di Porta Tonsa al Verziere. Un’altra ruota simile
si trovava nella vicina chiesa di S. Giacomo detto Rodense. Le due ruote
potrebbero quindi essere simili a quelle del Tredesin e appartenere all’area
cimiteriale di S. Antonino (area Policlinico) risalente all’età del Ferro.
Ma
l’accenno alla ruota di sangue rimanda a un’altra zona di antica tradizione
cultuale celtica, l’area di S.
Vincenzo in prato e S. Calogero a Porta Ticinese. A S. Vincenzo siamo in
presenza di un nemeton di olmi, un
tempo la pianta più diffusa a Milano, nel quale si rendeva omaggio alla
divinità celtica assimilata dai Romani a Giove, Taranis,
il dio del cielo burrascoso, il signore del fuoco celeste (folgori), ma anche
della fertilità apportata dalla pioggia,
che forma addirittura un pozzo sacro,
in età cristiana dedicato a S. Calogero. Negli Atti di S. Vincenzo
si trova un riferimento a un’usanza, secondo la quale veniva fatta rotolare
una ruota infuocata fino al fiume
perché si spegnesse nell’acqua e quindi veniva esposta nel tempio del dio
Taranis.
La
ruota di sangue può essere quindi un ricordo della ruota infuocata fatta
rotolare in occasione delle feste di mezza estate per richiamare la fertilità
dei campi. Qualcosa lascia intendere che il simbolismo di Taranis fosse
associato alla festa di Beltane in giugno: si facevano rotolare le ruote infuocate per magia
imitativa. Poiché la ruota passava attraverso i campi, si sperava che ne
sarebbe seguita la diretta azione benefica del sole su di essi. La ruota
fiammeggiante o i resti delle fiaccole accese gettati al vento avevano l’effetto
di portar via la negatività accumulata. A Beltane inoltre si facevano incantesimi per la pioggia, andando
in pellegrinaggio alle sorgenti sacre e aspergendone i campi per favorire le
piogge.
Il
nemeton venne in epoca romana
ridedicato a Giove, al quale la divinità celtica era stata assimilata. Scrive
il Torre:
Vogliono
alcuni storici che in questo sito abbia avuto Milano i suoi principi, così
gli imperatori residenti in tal città quivi fecero innalzare le loro superbe
abitazioni e come idolatri che erano, vollero veder vicino anche il tempio di
Giove e di ciò ve ne daranno sicura certezza alcuni pezzi di marmo bianco
incastrati nelle mura della casa del piovano, disseppelliti dai vicini
vigneti.
Pozzi
e acque
Il
pozzo di S. Calogero è inserito nella leggenda dell’eremita Calogero e dei
soldati bresciani Faustino e Giovita, che il Torre così racconta:
...sotto
l’altare (della chiesa) correvi un fonte, da cui sovente con attingere delle
sue linfe se ne riportano aiuti per la propria sanità. Chiamasi chiesa di S.
Calozero perché quivi tal santo sofferse per ingiusta sentenza di Adriano
imperatore, ma per divina mano liberatosene. L’anno 134 ritrovavasi egli in
Milano insieme coi santi Faustino e Giovita, forzati tutti ad acconsentire
alla inchieste idolatre di giudici, ma essi ripugnando intrepidi l’acconsentimento
sotto il consolato di Augurino e Sergio in questa diserta piaggia chiamata
in quei tempi degli Olmi, videsi posti su certi plaustri, che da indomite
bestie a tutto corso essendo tirati, aspettavasi indubitato l’eccidio;
seguita credendosi la morte, tutti ritornarono illesi al luogo donde
partirono, perché la ferocia di quelle bestie non ardì con gli impeti suoi
naturali passare per gli sterpi e per zolle, da cui n’era per nascere la
total ruina degli innocenti a torto sentenziati. Liberatosi Calozero da tanta
crudeltà, inviossi verso la città di Asti, e colà dimoratosi qualche
giornata, affacendossi a disciplinare nella cattolica legge Secondo che
indirizzò poscia ai santi Faustino e Giovita, che nelle milanesi contrade
vivevano, impiegati a impedire il falso culto, che facevasi quivi appunto a Giove, per rimirarsi eretto il suo
tempio. Dilungavasi però l’esecuzione del battesimo per scarsezza d’acqua
e quindi a meraviglia divenuto il cielo
nuvoloso, cadde così densa e continuata pioggia, che diede forma al fonte,
che qui vedete. Volendo essere Secondo martire in Cristo, in breve ne ottenne
la grazia, poiché videsi a far vela al cielo sulle onde purpuree del suo sangue. A tali successi divenne cotesto fonte
in grandissimo pregio appresso al popolo fedele e nelle sue acque naufragò il
tempio di Giove, che si innalzava qui vicino, mutandosi in tempio dedicato a
S. Vincenzo. Furono poi edificate intorno alle salutifere acque alcune
abitazioni, alle quali soleva ritirarsi S. Ambrogio per godere con le orazioni
delle dolcezze del paradiso, e con gli studi della quiete di queste
solitudini.
Se si aggiunge che, secondo i nostri storici della seconda metà dell’Ottocento,
gli scavi compiuti a S. Calogero avrebbero portato alla luce pietre
megalitiche attribuite ai resti di un dolmen,
l’antica tradizione locale che ritiene quest’area una delle più antiche
di Milano non è così astrusa, anche se bisogna decisamente escludere la
presenza di un dolmen, che
risalirebbe a un fenomeno più antico di almeno due millenni. E’ probabile
invece che si trattasse di un tumulo, simile
a quelli rinvenuti nelle necropoli di Golasecca, costituito da ciottoloni
diposti in cerchio con un corridoio d’accesso, il tutto ricoperto di terra.
Queste sepolture risalgono alla prima fase di Golasecca, tra IX e VIII sec.
a.C.
In
conclusione, le divinità della tempesta, poiché portano pioggia, presiedono
alla fertilità. Per questo motivo un santuario dedicato a Taranis poteva
avere come culto associato quello alla Grande Dea alla quale era dedicato il Medhelan.
La
tradizione locale vuole che sul tempio pagano rotondo ne sorgesse uno dedicato
a S. Maria e poi a S. Vincenzo in prato.
Oltre
al fonte di S. Calogero, un altro pozzo è passato
nella leggenda legato a un affogamento,
quello di S. Calimero, nella
chiesetta omonima, situata sempre nella stessa area rituale in direzione per
Pavia.
Nel
mondo celtico era diffuso l’annegamento rituale: le vittime venivano tenute
con la testa in un catino fino all’affogamento, che doveva propiziare la
fertilità simboleggiata dall’acqua. Famoso è il calderone
di Gundestrup, finemente decorato, dove si vede il dio che sta immergendo
una vittima sacrificale in una tinozza. Il catino poteva essere sostituito da
un pozzo - luogo sacro perché in contatto con il mondo ultraterreno, entro il
quale si gettava la vittima. Nelle tradizioni del Nordeuropa spesso a un pozzo
era associato un teschio che in età cristiana veniva identificato con quello
di un santo che vi era affogato, come appunto nel caso di S. Calimero a
Milano. La divinità che riceveva il sacrificio era Teutates,
mentre Esus voleva l’impiccagione
e Taranis il fuoco. Impiccare,
annegare e soffocare col fuoco significava evitare spargimento di sangue, per
offrire alla divinità il corpo della vittima il più possibile integro.
Narra
la leggenda locale che Calimero, vescovo di Milano, venne affogato in un pozzo
vicino a un tempio di Apollo (Belenos), il dio delle sorgenti consacrate,
perché voleva distruggerlo. Non molto distante, la chiesa con annesso
convento femminile di S. Apollinare
ribadiva una leggenda analoga: dentro il pozzo del giardino sarebbero stati
affogati i martiri Nazaro e Celso (invenuto da S. Ambrogio nel 395).
Belenos
era festeggiato a Beltane, che
abbiamo visto essere una delle feste solstiziali ricordate astronomicamente
con l’orientamento dell’ellisse. Durante questa festa si celebravano i
riti della fecondità della terra, nei quali la Dea Madre Belisama si univa al
dio della pioggia e del fuoco Taranis perché avvenisse la sua fecondazione ed
è curioso che sempre in prossimità di S. Calimero, nell’attuale via
Quadronno, la tradizione abbia posto il ritrovo delle streghe alla notte della vigilia del 1° maggio (la nordica notte di Walpurga). La stessa
festa la ritroviamo anche nella religiosità romana con la festa della dea Maia,
la Terra. Alla vigilia si faceva una cerimonia notturna e segreta in suo
onore, alla quale partecipavano solo le matres familias più importanti,
coadiuvate dalla decana delle Vestali, la maxima
virgo Vestalis, sempre presente in tutte le cerimonie più significative
per la sicurezza della città, per cui si può supporre che la permanenza del
rito anche in età romana abbia facilitato la sua fissazione nella memoria
collettiva.
Nei
pressi, in piazza Missori (già di
S. Giovanni in Conca), si celebrava un altro rito ugualmente di matrice
celtica: se le Rogazioni triduane dell’Ascensione non avevano avuto successo
e persisteva la siccità, si metteva a bollire un calderone con ortaggi e carne, con la cui acqua si aspergevano i
campi dopo una processione che andava fino a S. Calimero. Il calderone è
parte integrante dei rituali druidici ed è il mezzo per distribuire un
inesauribile nutrimento. Nei poemi mitologici irlandesi ha anche una valenza
ctonia, perché rigenera e trasforma. Per noi è rimasto associato all’idea
di stregoneria e alla preparazione di intrugli magici.
Quello che sconcerta è che dietro di sé questi prodi antenati non abbiano
lasciato a Milano neppure un torque,
non una spada, niente di tutto quello che le altre città celtiche esibiscono
nei loro musei di storia patria. Si potrebbe quasi dubitare della loro
effettiva esistenza, se non ci fossero reperti e tradizioni a segnalarceli. La
più antica testimonianza cultuale, in assenza di materiali, sarebbe il tumulo
di S. Vincenzo, databile alla prima fase di Golasecca (IX-VIII sec. a.C.),
quindi sarebbe un accenno alla famosa presenza Insubre in quest’area prima
dell’ “arrivo di Belloveso”. Abbiamo reperti, piuttosto contestati,
quali i buccheri di fattura etrusca rinvenuti tra via S. Maria Segreta e il
Cordusio a un livello di scavo relativo al VII sec. a.C.
Bisogna
poi attendere circa due secoli perché vi siano altri ritrovamenti, sempre
nell’area a sud del santuario, nella zona del Policlinico, di Palazzo Reale
e di via Rastrelli, tutti databili dal V secolo agli inizi del IV secolo a.C.,
quindi di poco anteriori alla seconda ondata di Celti. Nel cortile della
chiesa di S. Antonino nel 1885 si erano ritrovate a m -2,50 alcune tombe a
cremazione con modesti anelli a globetti e fibule a sanguisuga, tipici della
tarda fase di Golasecca; un gruppo di bronzi e una ciotola con ossa combuste
rinvenute nello stesso scavo sono andate perse. La zona costeggiante la via
Vigentina si trasformò gradualmente nel cimitero dell’oppidum, il che forse
non impedì che a fianco continuassero i raduni per le feste. La definitiva
trasformazione in area cimiteriale avvenne nell’età augustea.
L’area
di via Moneta, in zona Cordusio, ha fornito altre testimonianze, per cui si
potrebbe avanzare l’ipotesi che la frequentazione del santuario nei secoli
VI-V a.C. abbia lasciato tracce di presenze (senza abitazioni stabili) nella
zona immediatamente a sud posta tra la glareata che sottostava il santuario,
quella in direzione del Ticino a ovest e quella in direzione di Pavia a sud.
In
conclusione, il santuario degli Insubri appariva come un nemeton
di forma ellissoidale occultato alla vista da un fitto anello di alberi,
probabilmente olmi e querce, ed era circondato da glareate che ne facevano il
punto di ritrovo centrale dell’area insubre fino a Como. Le feste si
svolgevano all’esterno del santuario, nell’area a sud dell’attuale
piazza del Duomo, compresa tra piazza Missori e corso di Porta Vigentina,
ricca d’acque, dove si trovano anche altri luoghi di culto. Gli
alloggiamenti, per lo più provvisori, erano invece sistemati più a nord,
intorno all’area del Cordusio, molto più asciutta.
Tutto sommato, dal 570 al 390 a.C., per ben quasi due secoli, possiamo
immaginare cosa successe nel santuario degli Insubri solo grazie alla
persistenza delle nostre leggende, niente
più.
Il
patavino Tito Livio scrisse 142 libri in 40 anni di lavoro, ma di questi
libri 107 sono andati persi.
Il
nostro “storico” e Livio appartenevano, come del resto anche Virgilio,
“a quella ricca ed etnicamente mista regione nordica, la Gallia Cisalpina,
che era stata formalmente unita all’Italia soltanto dodici anni prima che
Augusto divenisse il solo dominatore. Sicché il loro è patriottismo
ardente ed emotivo, proprio di uomini di frontiera e di “coloniali”
disposti ad assorbire la storia della loro nazione celtica all’interno
della grandiosa e vincente storia di Roma. M.
Grant, Letteratura
romana, A. Mondadori, Milano 1958, pp. 128-129.
Michael
Grant, Letteratura romana,
A. Mondadori, Milano 1958, pp. 127-128.
Renato Del
Ponte, La religione dei Romani, Rusconi, Milano 1992, nota 147, p. 180.
"Le figure mitiche hanno invaso la storia sotto mentite spoglie,
foggiandola sottilmente secondo i loro fini. E' questa una regola pratica
stabilita molto tempo fa, che si è rivelata costantemente valida quando si
ha a che fare con il mito vero e non con le solite leggende", Giorgio
de Santillana, Il mulino di Amleto, Adelphi Milano 1983, p. 77.
Bitu
significa anche “tempo, eternità, sempre”, cfr. M.F. Barozzi,
I Celti e Milano, Ed. Terra di
Mezzo, Milano 1991, p. 145.
Per un approfondimento cfr. F. Le Roux, Le Celticum
d’Ambigatus et l’omphalos gaulois, in “Celticum”, 1 (1961), pp.
159-184.
R.
Del Ponte, La religione
dei Romani, p. 48.
D. Sabbatucci,
La religione di Roma antica, Il
Saggiatore, Milano 1988, p. 15.
R.
Del Ponte, Dei e miti italici,
ECIG Genova 1988, pp. 58-59.
J.A.
Mac Culloch, La
religione degli antichi Celti, Neri Pozza, Vicenza, p. 231; F.
Le Roux-C.J. Guyonvarc’h, I
druidi, p. 488.
I
Dioscuri (dios kuroi) sono i figli
del dio del cielo e di una mortale.
*Bhel
“luminoso” e veso “ottimo”.
Bhel richiama il dio solare Belenus, Apollo.
Maria
Riemschneider, La religione dei
Celti. Una concezione del mondo, Rusconi, Milano 1997, p. 118.
Jean
Markale, Il druidismo,
Ed. Mediterranee, Roma 1991, p. 100 n. 84.
La
scrofa divenne, a causa del nome latino della città, “Mediolanum”, “semilanuta”. Vedi oltre in questo capitolo.
G. Dumézil,
Idee romane, ECIG, Genova 1987, p. 96.
M.T.
Grassi, I Celti in Italia, pp. 14-15, 18-19. Per un affidabile riassunto
della situazione cfr. Paolo Baldacci,
La celtizzazione dell’Italia Sett. nel quadro della politica mediterranea,
in “Popoli e facies culturali celtiche a nord e a sud delle Alpi dal IV al
I sec. a.C.”, Atti del Colloquio Internazionale, Milano 1980, I, pp.
147-155.
Catalogo della mostra “Como fra Etruschi e Celti”, Como 1986.
Gli
Edui erano alleati di Roma dal 121 a.C., quando venne fondata la provincia
della Gallia Narbonese. Nel 52 a.C. parteciparono alla rivolta generale
delle Gallie, soffocata da Cesare. Nell’epoca imperiale il paese degli
Edui fece parte della provincia detta Lugdunese: Bibracte
decadde come capitale, sostituita da Augustodunum
(Autun).
M.F.
Barozzi, I
Celti e Milano, p. 76.
R.
de Marinis, op. cit., pp.
91, 95-96; M.T. Grassi, I Celti in Italia, pp. 20-21.
J. Markale,
Il druidismo, p. 72.
Altre grafie sono mead-hon
(gaelico) e may-don (sequano).
A Milano si conosce S. Ambrogio ad
nemus (zona arco della Pace), identificato come luogo dove sorse il
primo monastero per volere di S. Martino di Tours e perciò connotato come
bosco sacro.
A
Milano è detto anche pomario.
C.J. Guyonvarc’h, Notes
d’étimologie et de lexicographie gauloise et celtique. VI. 17. nemos,
nemetos, nemeton; les nome
celtiques du “ciel” et du “sanctuaire”, in “Ogam”, 12
(1960), pp. 185-197; J.Markale,
Il druidismo, pp. 148-151.
M. Eliade,
Il mito dell’eterno ritorno, p. 19
Gli
altri Mediolanum sparsi in Europa
(un centinaio) hanno o mutato il nome a seconda della fonetica del luogo
(come Milano) e sono in Francia Maulain, Meilhan, Meillant, Melaine, Meslan,
Moelan, Moislains, Molhain, Moliens, Molliens; in Germania Medelingen,
Metelen, Moyland; in Canton Ticino Melano; in Belgio Molhain; oppure hanno
modificato il nome della popolazione di riferimento, come Evreux (Mediolanum Eborovicum), Saintes (Mediolanum Santonum).
Vade, Le
système des Mediolanum en Gaule, in Archéocivilisation XI-XII
(1972-74), pp. 87-109.
Il biancospino
(scé, sceach, sciach) poteva formare una siepe di separazione
intorno ad aree sacre, ma l’etimologia di Andegari da andeghée richiama più il termine “an-dee”, ossia “non-dei”, che indicava tutto ciò che stava
fuori dal nemeton. Al di là di
ogni possibile etimologia, sembra che il nome della via derivi da quello
della famiglia Andegari o Undegari che vi abitava.
Il
circo di Milano aveva il lato lungo di m 470; il circo Massimo di Roma di m
600; le Terme di Caracalla misurano m 335 di lato. La superficie racchiusa
nell’ellisse si poteva benissimo qualificare come area appartenente a un
unico edificio.
Nell’Inventario
del Museo Patrio di Archeologia sono segnalati:
-
due cippi scritti (n. 477, 479) depositati nel 1864 con frammenti di anfore,
utensili in ferro, lacerti musivi da piazza Scala.
- un grande vaso in terracotta (n. 2643) rinvenuto nel 1878 sotto il Caffé
Cova all’ang. tra via Verdi e piazza Scala.
-
due frammenti di olle (n. 1148-1149) depositate nel 1865 con altri frammenti
rinvenuti per lo scavo della Galleria. (La scrivente non ha controllato la
tipologia del materiale, elencato in Margherita
Bolla, Le necropoli romane di
Milano, supplemento V della Not. dal Chiostro del Mon. Maggiore, Milano
1988, p. 34).
P.
Tozzi, Caratteristiche e problemi della viabilità nel settore meridionale del
territorio di Mediolanum,
in Milano e i Milanesi prima del Mille, 10° Congresso Internazionale di
Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1983, pp. 59-84. Più datato sull’argomento
ma utile A. Passerini, Il territorio insubre in età romana, in Storia di Milano, Treccani
degli Alfieri, vol. I, p. 133 e ss.
P.
Tozzi, op. cit., p. 65. Questa strada per Cremona passò in secondo
piano probabilmente nella seconda metà del I sec. a.C. in seguito alla
costruzione della strada romana per Lodivecchio (Laus
Pompeia). Ancora in età augustea si seppelliva lungo i suoi bordi, come
dimostrano le due tombe di questo periodo di via Fontana.
M. Bolla, op. cit., p. 14.
P. Tozzi, op. cit., p.
68.
M.G.
Tolfo, Il Sestiere di Porta Romana, CEP Milano, 1991, pp. 30-41.
Il
mantello del santo cavaliere diviso in due è stato interpretato come un
simbolo dell’anno celtico, diviso in due stagioni, estate e inverno. L’11
novembre era l’ultimo giorno d’estate,
iniziando l’inverno già il 12 novembre.
La
festa di Imbolc venne fissata intorno al I secolo a.C. al 1°
febbraio, venendo poi assorbita nel calendario cristiano dalla festa
della Purificazione o Candelora.
Il
ceppo è rimasto nella tradizione nordica col ceppo natalizio e in quella
mediterranea e cristiana con le candele del 2 febbraio, la Candelora.
Rituale immortalato con l’uccisione del maiale nei calendari di dicembre.
Mac
Culloch, op. cit., p. 262.
M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, p. 76.
M. Eliade,
op. cit., p. 87.
M. Eliade,
op. cit., pp. 117, 142.
M. Eliade,
op. cit., p. 73. E' più difficile stabilire quali potessero
essere i raccolti legati alle feste celtiche primitive così come
sono state teorizzate da Cernuti e Gaspani.
M.
Riemschendier, La religione dei
Celti, pp. 120-130.
G. Fiamma, Chronicon
extravagans, f. 45 cap 39.
Flos florum, cap. 132, f. 112.
Besta, op. cit., p. 115.
Le
Roux-Guyonvarc’h, I druidi,
pp. 96-97.
J.A.
Mac Culloch, La
religione degli antichi Celti, Neri Pozza, Vicenza 1998, p. 173
M.
Riemschneider, La religione dei
Celti, pp. 118-119.
La
banchina di attracco è stata rinvenuta lungo via Larga, il che suggerisce
che la darsena fu compresa el piano regolatore augusteo, per venire
prosciugata alla metà del I sec. d.C. a causa di un dissesto idrogeologico
che provocò allagamenti un po’ ovunque in città.
Cfr.
Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi.
R. Del
Ponte, La religione dei Romani,
Rusconi 1992, p. 116. Il ponte venne collegato nella tradizione all’arco
trionfale alla Crocetta di Porta Romana, costruito intorno al 382 d.C., e
prolungato fantasticamente con un una costruzione lunga due miglia fino a
Nosedo (Chiaravalle), di difficile interpretazione.
M. Eliade,
Trattato, p. 380.
Nei
secoli successivi, senz’altro a partire dalla fine del II sec. a.C.,
quando viene documentato da Polibio, alla dea verrà dedicato il tempio
quadrato inglobato nel IV secolo d.C. nella basilica di S. Tecla.
M.
Riemschneider, La religione dei
Celti. Una concezione del mondo, Rusconi, Milano 1997, p. 22.
J.A. Mac Culloch, op.
cit., p. 321. L’uso si perpetuò nel Cristianesimo nella chiesa di S.
Tomaso in terra mala (via Broletto), dove si conservano le impronte dei
piedi di Cristo.
S.
Nazaro Pietrasanta scomparve nel 1888 per l’apertura di via Dante; si
trovava all’altezza di via Rovello. Una leggenda afferma che si trattava
della casa in cui avevano abitato Nazaro e Celso giunti a Milano dalla
Gallia. S. Vittorello occupò
forse una torre della Porta Romana; la chiesetta, completamente trasformata
e in rovina, venne demolita per la costruzione di palazzo Meroni, fra l’attuale
piazza Missori e via Maddalena.
E’
oggi conservata al centro della navata maggiore della chiesa di S. Maria del
Paradiso in corso di Porta Vigentina.
Eliade,
Trattato, p. 233. La leggenda
vuole che S. Barnaba, apostolo e fondatore della Chiesa milanese nel 46 d.C.,
abbia piantato la croce dentro la ruota a S. Dionigi. Ora, inserire la croce
nel foro - come tuttora si vede a S. Maria del Paradiso - più che a una
esaugurazione equivale a una nuova nascita, che ripete l’atto di
creazione, nel nostro caso sotto la nuova religione.
M. Riemschneider,
La religione dei Celti, p. 107.
Poi
intitolata a S. Stefano in Brolo,
l’unico santo autorizzato a ricevere il culto delle pietre in virtù del
suo martirio avvenuto per lapidazione.
J.A.
Mac Culluch, Le
religione dei Celti, p. 232.
Secondo
un mito celtico, riferito da Apollonio, le acque dell’Eridano si sarebbero
formate dalle lacrime di Belenos, scacciato dal padre. Molto frequentemente
le lacrime di un dio servono a formare laghi e fiumi.
Mac
Culloch, Le religione dei Celti, pp. 266-268.
Questo rituale è stato trasferito, nella sua assimilazione con le
lustrazioni dei romani Fratelli Arvali, alle Rogazioni o Litanie triduane,
introdotte nel V secolo nella Chiesa cattolica nei tre giorni precedenti o
successivi l’Ascensione.
C. Torre,
Ritratto di Milano, p. 101.
Carlo
Torre, Ritratto di
Milano, p. 100
Il
primo a parlarne fu il Castiglioni, che nel 1625 cita la basilica di S.
Maria “ad rotundam”. Il Traversi ha voluto identificarla con la
basilica vetus citata da S.
Ambrogio.
La
festa della Dea Madre si perpetuò a Milano fino al XV secolo col culto
di Diana o della Signora, finendo con l’accensione dei roghi.
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