Nel 396 il dittatore M. Furio Camillo era riuscito, dopo un decennale assedio,
a conquistare la capitale etrusca Veio e a indebolire a tal punto la presenza
etrusca nel Centro Italia da creare un pericoloso vuoto. Infatti solo cinque
anni dopo i Senoni guidati da Brenno,
scesero fino a Chiusi e la assediarono.
E'
ancora una volta Livio la fonte dell'accaduto. All'origine dell'invasione lo
storico patavino pone l'episodio leggendario della vendetta di un marito
tradito, Arrunte di Chiusi, che scopre la tresca tra sua moglie e il nobile e
intoccabile rampollo Lucumone. Non sapendo come vendicarsi dell'affronto,
pensa ai "sicari" celtici e li ingaggia con del vino, provocando
così la rovina della sua stessa città. Livio dice di non sapere se i Senoni, una popolazione stanziata
nel bacino della Yonne (Borgogna), agirono da soli o con l'aiuto di altri
Celti stanziati in Italia settentrionale. Il 18
luglio 390 (da quel momento in poi considerato infausto nei calendari
romani) i Romani subirono una grave sconfitta al fiume Allia, alle porte di
Roma, e fuggirono verso Veio, lasciando la città preda dei Senoni. Per i
Galli fu un bottino inaspettato e non si sarebbero ritirati tanto facilmente
se non fossero intervenuti i Veneti ad attaccare i contingenti lasciati in Val
Padana.
La
storia locale ricorda il passaggio di Brenno con grande considerazione,
attribuendogli la fondazione di Alba
ossia
"la città" o l'oppidum, nome che richiama alla mente Albium
Ingaunum (Albenga, fondata circa nello stesso periodo, V sec. a.C.), Albium
Intemelium (Ventimiglia), Albium Docilii (Albissola). Questo
accenno, assente nei testi romani, compare per la prima volta nei documenti
con Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, e viene ripreso alla fine del X
secolo nel De situ civitatis Mediolani.
Belloveso, indicato tutto sommato da una fonte storica attendibile come Tito
Livio, scompare.
E' invece interessante notare che la parola "alba" per indicare una
città è tipica dei Liguri e che quindi, ammesso che la nostra città si
chiamasse per un certo periodo Alba Insubrum, lo fu più per il
contesto ligure degli scambi che non per l'invasione di Brenno.
Come
detto nel precedente capitolo, nel IV secolo i centri più importanti
dell'Età del Ferro, l'area di Golasecca e Como, avevano perso la loro
importanza, cedendo forse il passo a Medhelan,
che da semplice santuario si era trasformato in metropoli, entrando
forse nell'orbita commerciale dei Liguri. Questo spostamento coincide con l’abbandono
generale della fascia pedemontana per la pianura, probabilmente in seguito
alle migliorate condizioni climatiche.
Sappiamo
che nel 385 a.C. gli Insubri si alleano con Velletri, Tivoli e col tiranno di
Siracusa Dionigi il Vecchio contro Roma: è un'alleanza politica, strategica o
solo una forma di prestazione mercenaria?
Possiamo
supporre che si formasse presso il santuario il centro delle operazioni in
Gallia Transpadana, più vicina sia idealmente sia geograficamente alla Gallia
Transalpina. Alba in ogni caso non distrusse il santuario, ma segna il momento
in cui Medhelan perde il suo
carattere esclusivamente sacrale per diventare un insediamento abitativo nei
dintorni del nemeton.
L'oppidum
L'oppidum
di Manching in Baviera
A parte il nome
- più o meno di fantasia - di Alba, sembra ormai appurato che il nome “Insubri”
indichi il gruppo egemone della confederazione a cui erano subordinate altre
comunità tribali transpadane, celtiche o no, ad esempio Comensi, Vertamocori,
Laevi e Marici.
Per
quanto ne possiamo dedurre dalla totale assenza di reperti e di indicazioni,
la vita nel Medhelan insubre continuò come nei secoli precedenti, ottenendo
verso il III sec. una maggior protezione con un muro gallico che trasformò il
santuario in un oppidum.
Le
abitazioni dovevano essere disposte fuori dall’oppidum,
che serviva come punto di raccolta per beni e persone in caso di attacco. Il
muro gallico era costruito con un’armatura di legno che formava un graticcio
da riempirsi con terra e/o pietrame. L’armatura veniva poi ricoperta con
blocchi di pietra a secco, che lasciavano in vista l’estremità delle travi.
C’era
una vita urbana organizzata, con abitazioni disposte lungo le vie principali,
un ceto capace di produrre e importare beni di lusso, una zecca dove coniare
la moneta di scambio.
Como, la città più importante della Cisalpina per i suoi
traffici, era decaduta. Gli Etruschi, da esportatori di merci quali erano
sempre stati, avevano diffuso anche tecnologia come il tornio a ruota per la
ceramica o gli strumenti per l’edilizia. Si potrebbe dedurre che la
decadenza di Como sia stata conseguente alla disfatta degli Etruschi.
Abbandonata
la pedemontana, Medhelan assunse
un ruolo di centralità nella rete commerciale insubre e si avviò a
trasformarsi in abitato.
Il tempio di Belisama (Minerva)
Se
pensiamo che il Medhelan era
diventato una metropoli, un punto di coordinamento per le altre tribù
confederate, dobbiamo ammettere che le tracce di insediamento sono molto
labili anche in questo periodo. Da Polibio sappiamo poi che gli Insubri
avevano un tempio dedicato a Minerva (Belisama), che custodiva le insegne
dette “inamovibili”, tolte in occasione della guerra contro i Romani nel
225 a.C. Non è facile immaginare dove si trovasse questo tempio e quindi
dobbiamo ricorrere come al solito alla tradizione locale, supportata da alcune
autorevoli considerazioni archeologiche. Seguiamo la versione del Besta:
In questa
città era riverita la dea Minerva; secondo Polibio et altri scrittori il
tempio, ora distrutto, di S. Tecla fu da quegli idolatri eretto a onor di
questa dea, il che affermano lo stesso Alciato e Lorenzo d’Anaunia nella sua
Fabbrica del Mondo...
G.A.Castiglione lascia intendere che si poteva trattare di una divinità
femminile sincretista, che accomunava Minerva,
Diana e Giunone, rilevando senza saperlo che la Grande Madre celtica
assommava in sé la funzione sacerdotale
come ispiratrice della poesia e guaritrice, la guerriera come protettrice dei guerrieri e la produttiva.
M.
Mirabella Roberti rintracciò negli scavi di S. Tecla una cella quadrata di 17
m di lato con paraste angolari, che interpretò come il tempio di Minerva. E’
difficile stabilire se questo fosse nel III sec. a.C. il tempio della “Luminosa”,
ma è possibile che l’edificio quadrato corrispondesse realmente a un tempio
gallo-romano in età posteriore, similmente a quanto vediamo ad esempio a
Caerwent, dove il piccolo tempio quadrato era circondato su tutti i lati da un
portico; quello di Milano poteva essere dotato analogamente di un portico, non
necessariamente in pietra, data la scarsità di materiale lapideo a Milano.
Polibio, che scrisse le sue Storie
intorno al 120 a.C., nel libro II dà un quadro delle popolazioni celtiche che
abitavano la Pianura Padana, notando
che gli
Insubri erano la popolazione più importante, e dopo di questi, lungo il
fiume, i Cenomani (...) Tutti i Celti abitavano in villaggi non fortificati e
privi di ogni mezzo di vita civile: dormivano in villaggi su miseri giacigli,
si nutrivano di carni e, non esercitando che la guerra e l’agricoltura,
conducevano una vita molto semplice, del tutto ignari di ogni scienza e di
ogni arte. Unica sostanza di ciascuno erano il bestiame e l’oro, i soli beni
che facilmente si potessero, a seconda delle circostanze, trasportare dovunque
e muovere a proprio piacimento. Davano grande importanza al fatto di avere un
seguito di clienti, perché presso di loro era più temibile e potente chi
avesse una corte possibilmente molto numerosa di seguaci che andassero intorno
a lui (II, 17).
Lo
storico s’incanta a esaltare la fertilità del territorio, che produce in
abbondanza grano, panìco, miglio:
L’abbondanza
delle ghiande raccolte nei querceti allineati a intervalli nella pianura è
attestata soprattutto da quanto dirò: la grande quantità di suini macellati
in Italia per i bisogni dell’alimentazione privata e degli eserciti si
ricava tutta dalla Pianura Padana. I prodotti alimentari sono particolarmente
copiosi e a buon mercato, come si può facilmente dedurre anche da questo:
chi, viaggiando per il paese, alloggia in locande, non paga contrattando per i
singoli prodotti consumati ma chiede il prezzo complessivo dell’alloggio per
persona (II, 15).
Più
oltre (II, 28) Polibio ci informa che Insubri e Boi scesero in campo contro i
Romani a Talamone nel 225 a.C. indossando brache e mantellette leggere e che,
catturato il console Gaio, gli tagliarono la testa e la portarono al re dei
Celti. I Romani erano spaventati dall’aspetto e dal clamore dell’esercito
dei Celti:
innumerevole
era infatti la quantità dei buccinatori e dei trombettieri: un così lungo e
acuto clamore essi produssero quando tutti insieme intonarono il peana, che
non solo le trombe dell’esercito, ma perfino i luoghi vicini, riecheggiando
il frastuono, pareva emettessero una voce. Terribili erano inoltre l’aspetto
e i movimenti degli uomini nudi schierati innanzi agli altri, tutti nel pieno
vigore delle forze e di bellissimo aspetto. I soldati delle prime file erano
adorni di collane e braccialetti d’oro...(II, 29)
I
gioielli costituirono il ricco bottino per i soldati romani e i loro alleati,
usciti vincitori. Il console fece adornare il Campidoglio con le insegne
nemiche e coi “maniaci”, ossia i monili d’oro che i Galli portano al
collo (II, 31).
Stanchi
di subire le minacce celtiche, i Romani concepirono la speranza di riuscire a
cacciare completamente i Celti dalla Pianura Padana (II, 31). Nel 223 a.C. i
consoli Publio Furio e Gaio Flaminio,
uno dei più accesi sostenitori della politica espansionistica romana verso il
nord, entrarono nel territorio degli Insubri presso la confluenza dell’Adda
col Po, si alleano con i Cenomani e iniziarono a devastare i villaggi della
pianura. Gli Insubri, riunite
nello stesso luogo tutte le forze di cui disponevano, tolte dal tempio di Atena le auree insegne dette "inamovibili",
forti di 50.000 uomini, si schierarono contro i Romani.
Fallita
un'ambasceria di pace da parte degli Insubri, nel 222 a.C. i Romani ripresero
l'offensiva, decisi a eliminare per sempre il pericolo insubre. La battaglia
avvenne ad Acerrae (Pizzighettone?) sull'Adda. Qui sono stati trovati elmi
romani del III sec. a.C. che potrebbero riferirsi a questo scontro. Gli
Insubri tentarono una manovra diversiva e assediarono la piazzaforte romana, Clastidium
(Casteggio), dove ebbe luogo la battaglia decisiva a favore dei Romani. Ecco
come racconta la battaglia Polibio:
I
consoli romani, sopraggiunta la stagione propizia, avanzarono con gli eserciti
verso il territorio degli Insubri. Come vi giunsero, si accamparono intorno
alla città chiamata Acerra e la cinsero d’assedio. Gli Insubri, non potendo
venire in aiuto della città assediata, perché i Romani li avevano prevenuti
impossessandosi delle posizioni strategiche, desiderosi d’altra parte di
liberare Acerra dall’assedio, fecero traghettare il Po a parte delle milizie
e, penetrati nel territorio degli Anari, assediarono la località di Casteggio.
Quando i consoli ebbero notizia dell’accaduto, Marco Claudio prese con sé i
cavalieri e parte dei fanti e mosse in fretta in aiuto degli assediati. I
Celti, informati dell’arrivo degli avversari, lasciato l’assedio si fecero
incontro al nemico in ordine di battaglia. Quando i Romani li attaccarono
arditamente con la cavalleria, essi dapprima resistettero, ma poi, circondati
alle spalle e alle ali, si trovarono a mal partito e infine furono volti in
fuga dalla stessa cavalleria: parecchi, caduti nel fiume, furono travolti
dalla corrente, ma la maggior parte fu fatta a pezzi dai nemici. I Romani poi
conquistarono anche Acerra, città ben fornita di viveri, mentre i Galli si ritirarono a Mediolano, la metropoli del territorio degli Insubri. Gneo (Cornelio Scipione
Calvo) li inseguì dappresso e apparve inaspettato davanti a Mediolano: i
Galli dapprima non si mossero, ma quando egli ritornò verso Acerra, fatta una
sortita, attaccarono la retroguardia romana: uccisero molti soldati,
costrinsero gli altri alla fuga, finché Gneo richiamate le forze dell’avanguardia,
le indusse a fermarsi e ad attaccare i nemici. I Celti, imbaldalziti dal
momentaneo successo, per un po’ resistettero coraggiosamente, ma dopo non
molto si volsero in fuga verso i colli vicini. Gneo li inseguì, devastò il
paese e prese Mediolano d’assalto.
In seguito a questi avvenimenti, i capi insubri rinunciarono a ogni speranza
di salvezza e si arresero ai Romani senza condizioni. Così dunque ebbe
termine quella guerra contro i Celti che, per baldanza e ardimento dei
combattenti, poteva essere più terribile di ogni altra di cui parli la
storia; per la condotta politica e la sconsideratezza con cui fu guidata nei
particolari, finì con l’essere, invece, di ben piccolo conto, perché in
ogni loro impresa i Galli si lasciano guidare più dall’impulso momentaneo
che dal calcolo ragionato.
Plutarco, nelle sue Vite parallele,
inizia il culto del console Marcello:
Assunta
nel 222 la carica Marcello, nomina a sua volta Gneo Cornelio. La guerra fu
rinnovata dai Gesati, i quali varcarono le Alpi e fecero insorgere gli
Insubri. 30.000 erano i Gesati e ad essi si unì un numero molto più grande di Insubri, e subito
tutti insieme marciarono su Acerra. Re Britomarto prese 10.000 Gesati e si
diede a saccheggiare le terre lungo il Po. Appena Marcello venne a saperlo,
radunò i cavalieri e 600 opliti e marciò ininterrottamente giorno e notte,
senza fermarsi mai, finché ragiunse i 10.000 Gesati in un villaggio di Celti,
Casteggio, passato da poco sotto la dominazione romana. I Galli si buttarono
su di lui con estrema violenza, capeggiati dal re. Quando Marcello stava per
caricare, accadde che il cavallo, spaventato dall’aspetto feroce dei nemici,
si voltò e trasportò indietro il console suo malgrado. Egli temette che i
Romani si turbassero, lasciandosi prendere dalla superstizione e interpretando
l’incidente come un segno di cattivo augurio. Dato un brusco strattone alle
briglie verso sinistra, in modo che il cavallo tornò a far fronte al nemico,
s’inchinò in atto di adorazione verso il sole: cercò di far credere ai
suoi uomini che non aveva compiuto la volta a caso, perché i Romani usano
girarsi quando adorano gli dei. Marcello fece voto a Zeus Feretrio di
consacrargli, se vinceva, la più bella armatura che avrebbe preso ai nemici.
In
quella lo vide il re dei Galli (Virdomaro). Spronato il cavallo, gli andò
incontro e lo sfidò, lanciando acute grida e brandendo l’asta. Era l’uomo
più grande, fisicamente, di tutti i Galli. Indossava un’armatura trapunta d’argento
e d’oro, ricamata coi più vari colori, che si distingueva fra le altre
perché luccicava come un lampo. Marcello non scorse armatura migliore e si
lanciò sopra il re. Con l’asta lo trafisse per mezzo la corazza e lo finì
al suolo. Allora smontò da cavallo, afferrò con le mani l’armatura del
caduto e la dedicò a Zeus, invocando protezione per il proseguimento della
guerra. I Romani riportarono infatti una vittoria singolare per l’insolita
circostanza che un numero così esiguo di cavalieri vinse cavalieri e fanti in
numero così cospicuo. Dopo aver ucciso molti nemici e catturato armi e altro
bottino, Marcello tornò a riunirsi al collega.
Questi
stava combattendo faticosamente coi Galli intorno alla loro città
più grande e popolosa, a nome Milano, che era considerata dai Galli Cisalpini
la loro metropoli. Perciò la difendevano con tutto l’ardore di cui
erano capaci, e Cornelio si trovò da assediante
in assediato. Ma all’arrivo di Marcello i Gesati, apprendendo la notizia
della sconfitta e della morte del loro re, si ritirarono. Presa Milano, i Galli
consegnarono le altre città e si assoggettarono spontaneamente ai Romani
con tutti i loro averi. Ottennero così una pace a miti condizioni.
Il
Senato decretò il trionfo al solo Marcello. Il suo ingresso in città fu per
lo splendore e la ricchezza delle spoglie, nonché la corporatura
straordinaria dei prigionieri, meraviglioso come pochi altri.
Dai
due testi si deduce che il Medhelan era stato trasformato in oppidum,
difeso da mura, alle quali i consoli romani posero l’assedio. Si deduce
anche che il Medhelan fungeva da metropoli politica e religiosa degli Insubri e
che, quando cadde il centro, si arresero anche “le altre città”, ossia vici
e castella dipendenti dalla metropoli.
Fra
i prigionieri che sfilarono a Roma nel trionfo del console Marcello vi fu
anche il piccolo Cecilio Stazio, di circa otto anni, che fu fatto studiare dal suo
padrone a Roma, divenendo un commediografo di successo, grazie all’innata
capacità narrativa dei Celti, guadagnandosi così la libertà.
La
cittadella nella memoria
locale
La
memoria storica circa la presenza di un edificio rotondo ed enorme si era
tramandata localmente in modo confuso ma persistente a partire dal XII secolo,
chiaro indizio che a quel tempo non esisteva più nemmeno una traccia del
santuario celtico.
Secondo
questa tradizione, Milano avrebbe posseduto un arenario
o arengo di forma rotonda,
costruito con un apparato murario a bande bicrome bianche e nere, con 365 stanze quanti erano i giorni dell'anno. L'edificio aveva la
capacità di contenere tutti i soldati d'Italia e si poteva udire un oratore parlare da ogni posizione, tale era
la sua acustica. Questo luogo non era lontano dal Broletto vecchio. Il Versum de Mediolano
civitate, scritto nel 738, lo
cita espressamente: "splendido è l'edificio dell'arengo". Galvano
Fiamma aggiunge che era un luogo dove si compivano atrocità e che custodiva
una cattedra marmorea posta su due leoni su cui si sedeva l'imperatore. Tutti
gli altri storici seguono la stessa dizione.
A
questa tradizione si aggiunge quella del pomario
citata dal Besta:
Mesappo
re dei Toscani eresse una fabbrica
rotonda con alte mura, in mezzo di molte piante fruttifere che rendevano
quel luogo oscuro, nel quale non era
lecito habitar, né far altr'opera profana; haveva questa fabrica una fonte sacra, sopra la quale facevan i sacerdoti i vari sacrificii
loro; et da quelle piante era chiamato quel luogo pomario.
In
relazione a questa fabbrica il Besta mette un labirinto.
Cosa il Besta intenda con ciò è difficile spiegarlo. Il “labirinto”
poteva difendere una città o un santuario - comunque uno spazio
magico-religioso - che si voleva rendere inviolabile dai non iniziati. Spesso
un labirinto era destinato a difendere un “centro”, cioè rappresentava l’accesso
iniziatico alla sacralità e all’immortalità.
Mettendo
insieme le due versioni si ottiene la memoria storica di un luogo rotondo di
vasta superficie, con un perimetro diviso in 365 parti - un calendario
cosmico? -, ricoperto da un bosco all'interno del quale era un pozzo sacro,
una descrizione che rimanda a quella di un nemeton
in un periodo in cui gli studi celtici non erano di moda. Sembrerebbe quindi
che il nostro omphalos fosse una
fonte, una sorgente, che si trovava sotto il teatro della Scala. Il Piermarini
rinvenne negli scavi per le fondamenta solo olle
cinerarie (sparite nel mercato antiquario dell'epoca), ma non ci risulta
che vi fosse un pozzo.
Il Senato romano decise di dedurre delle colonie di diritto latino in
territorio celtico per avere ex-legionari a creare dei presidi negli avamposti
del nord, senza urtarsi con la confederazione degli Insubri.
I
Romani stavano aspettando l’attacco in forze dal nord dei Cartaginesi
guidati da Annibale, dopo la caduta nel 219 della colonia greca di Sagunto
sulla costa N-E della penisola iberica. Il ventiseienne generale cartaginese
sperava di far leva sul nazionalismo dei Galli della pianura padana e di
sfruttarlo a suo vantaggio contro Roma. Nella primavera del 218, lasciato il
governo della Spagna al fratello Asdrubale, si diresse verso l’Italia dal
Piccolo S. Bernardo a capo di un esercito di venticinquemila uomini, seimila
cavalli e anche qualche elefante.
Sempre Polibio ci informa che quando Annibale attraversò le Alpi, trovò in
guerra tra loro Taurini e Insubri, perché gli Insubri si erano spinti fino
alla Dora Baltea.
Per
fronteggiare l’invasione cartaginese e l'espansione insubrica, Roma nel 218 fondò Cremona
nel territorio dei Cenomani e Piacenza
in quello degli Anari, con 6.000 coloni ciascuna. La seconda guerra punica si
concluse nel 202 a Zama, nel retroterra tunisino, con la vittoria romana.
Restava quindi da riconquistare la Cisalpina, refrattaria a ritornare sotto il
dominio romano.
Nel
200 a.C. i Celti, guidati dal cartaginese
Amilcare, che era rimasto in Cisalpina dalla seconda guerra
punica, attaccarono Piacenza; la battaglia definitiva ebbe luogo a
Cremona, con 35.000 Celti uccisi e catturati. L’anno dopo toccò ai Romani
subire una grave sconfitta, della quale non approfittarono gli
Insubri per contrattaccare. Roma durò parecchia fatica a convincere i
coloni cremonesi e piacentini a ritornare al loro scomodo posto. Infatti,
puntualmente nel 197 si ripropose lo scontro tra i Celti e i Romani, che si
concluse con la sconfitta dei primi e la morte del generale Amilcare. Molti
centri che avevano seguito gli Insubri si arresero ai Romani.Il trionfo del console C. Cornelio Cetego comprendeva, oltre agli
Insubri e ai Cenomani prigionieri, anche un corteo di coloni cremonesi e
piacentini liberati.
Nel
196 a.C. il console M. Claudio Marcello,
nipote del vincitore di Clastidium,
portò l'attacco in territorio insubre, dirigendosi verso Como, dove gli Insubri avevano posto il loro quartier generale.
Como, già dopo pochi giorni, si arrese ai Romani con 28 castella. Due anni dopo gli irriducibili Boi incitarono alla
ribellione gli Insubri, ma furono battuti vicino a Mediolanum dal proconsole L.
Valerio Flacco. Fu la fine della confederazione celtica: gli Insubri e i
Cenomani abbandonano i Boi e strinsero un foedus
con Roma, che permise loro di mantenere una certa autonomia.
L’area
insubre non subì alcuna perdita di territorio e venne accuratamente evitata
dalla rete viaria romana. Nessuna strada romana l’attraversava: la via
Postumia, creata nel 148 a.C. per scopi militari, che univa Genova ad
Aquileia, rimase ai margini del territorio insubre. E la stessa conservazione
del tipo di popolamento preromano, sparso, per vicos
(villaggi), esclude un intervento teso a modificare le strutture territoriali.
Gli
Insubri s’impegnarono a fornire contingenti di cavalleria all’esercito
romano (auxilia Gallica), rinunciando però ad accampare diritti sulla
cittadinanza romana.
La
romanizzazione della Transpadania non implicò dunque un intervento militare e
poi politico-sociale, come in area emiliana; si configurò piuttosto come una
lenta penetrazione pacifica di modelli culturali ed economici che modificò
sostanzialmente la società indigena.
Roma
sostenne le emissioni monetarie celtiche, che imitavano la dracma marsigliese,
con scritte in leponzio.
Per
lo stesso motivo per cui il distruttore dei Daci Traiano è diventato l’eroe
nazionale della Romania, così il vincitore degli Insubri divenne il
rifondatore di Mediolanum, assumendo in sé nei secoli successivi il simbolo della
lotta contro gli invasori d’Oltralpe. Il Torre esemplifica egregiamente nel
suo racconto la missione civilizzatrice opera di M. Claudio Marcello, con
tutti gli elementi storici ormai mitizzati:
Per
generale capitano in Italia fu eletto Marco Claudio Marcello, ond’egli seppe
e discacciare i Francesi e domare le sfrenate alterige di Annibale e rendere
Brenno fuggiasco, e restituire la quiete ai cittadini milanesi, veggendola ora
involata da un esercito nemico, ora turbata da tiranni. Approvato dagli
Insubri il dominio dei Romani, seppero essi conservare nei loro siti ferma
pace e si deliberò tra loro di vivere sotto tutela dei consoli Lucio Furio e
Marco Marcello, come vogliono Lampridio, Eutropio e Orosoio l’anno 390 che
Milano era già stato eretto; quindi dai civili diportamenti, che i Romani operavano nell’Insubria,
appreso anch’essi a vivere con splendore, ritrovandosi allevati incivilmente
sotto i rozzi gesti delle straniere genti.
Cremona,
soprattutto dopo la rottura della confederazione gallica, ebbe una
rifondazione a partire dal 190 a.C. che la porterà a svolgere un ruolo
fondamentale nella romanizzazione dell’area insubre, quale nodo viario con
la Postumia e fluviale col Po che la mettevano in contatto con i territori
alto-adriatici. Vi erano concentrate officine romane e attività
manifatturiere che si sparsero gradualmente in Insubria. A Cremona aveva luogo
inoltre una grande fiera annuale del bestiame, alla quale partecipava tutto il
Norditalia.
Cremona
era collegata tramite la via Postumia con Genova ed Aquileia,
la celtica Akylis, che nel 181 a.C.
si vide arrivare 3.000 coloni, ai quali nel 169 se ne aggiunsero altri 1.500. Roma si era ormai assicurata i confini naturali alle Alpi.
La
pax deorum
L’ingresso
nel mondo romano comportava lo “scontro” tra le due diverse cosmogonie e
religiosità celtica e romana. Per i Romani stringere dei patti con un popolo
straniero comportava il venire a patti soprattutto con il pantheon di quel
popolo. Pax e pactum
derivano dal verbo paciscor, “stipulare”.
A questo fondamento religioso della pace provvedeva il diritto dei Fetiales (feti, “stipulazione”),
organizzati in un collegio di venti membri, con poteri consultivi e operativi.
I Feziali fornivano consigli di diritto internazionale al senato e ai
magistrati in occasione di trattati o controversie. Il pater
patratus era il loro portavoce, il verbenarius
(portatore di verbena) si occupava dei sacri arredi (vasa)
consistenti in una pietra di selce e in uno scettro, che era l’immagine di
Giove e l’insegna di legittimità di quelli che il dio designava a parlare
in suo nome. La rappresentazione della folgore divina era la selce, per mezzo
della quale si stringeva un patto colpendo a morte un maiale sacrificale.
Ma
il vero problema non era rappresentato tanto dalla religiosità celtica,
quanto dalla loro organizzazione politica permeata di religiosità, che
concedeva alla casta sacerdotale l’antico privilegio di affiancare alla pari
il re e di dargli consigli vincolanti. Inoltre la sacralità custodita dai
druidi poteva risultare veramente inaccessibile ai Feziali romani, che non
capivano con quali forze e divinità dovevano “stringere degli accordi”. A
lungo andare questo comportò quel fenomeno di interpretatio
romana del mondo religioso celtico che costituisce il maggior cruccio degli
studiosi contemporanei, obbligandoci a trarre le informazioni solo dall’Irlanda,
l’unica regione celtica non toccata dai Romani. L’altra conseguenza fu la
lenta ma inesorabile estromissione dei druidi dal centro del potere, con la
parallela perdita d’identità culturale delle popolazioni insubri più
romanizzate.
Reperti
archeologici
Dopo aver stretto un foedus con
Roma, gli Insubri ebbero forse anche i primi edifici di rappresentanza romana
e manodopera romana che iniziò con lastricare
la “forcella” sotto il santuario.
Le
tracce di un grandioso edificio sono state rinvenute a - 7 m nell’area compresa
tra la Banca d’Italia e la Banca Popolare per il Commercio e l’Industria
(via Cordusio 5, via Bocchetto). Aveva pareti
in conglomerato di ciottoli, dello spessore di 1,30 m, poggianti su
terreno vergine, con un perimetro di 150 x 57 piedi (44,25 m x 16,81 m),
disposto con il lato lungo a filo della strada che poi diverrà il cardo
massimo e col lato corto verso S. Maria Fulcorina, il decumano massimo. E’ possibile
interpretarlo come un tempio,
inaugurato dai Romani - probabilmente a Giove
- per avere la possibilità di svolgere i loro commerci stipulando contratti
legali. Ribadiamo la centralità del principio di commistione tra religione e
diritto per i Romani.
Nello
stesso scavo sono state anche rinvenute le monete
più antiche finora emerse a Milano e datate IV-III secolo a.C. Altre 359
dracme padane sono riaffiorate nel 1936 in piazza Fontana, in un ripostiglio
che comprendeva ben sette tipi diversi di monete, il più antico della seconda
metà del III sec. a.C., il più recente del primo quarto del II sec. d.C.
Sempre
nell’area che in età augustea diverrà il Foro, nell’isolato compreso tra
piazza Pio XI 1- via Spadari 13-15 e via Cantù sono nel 1928 vennero alla
luce edifici a - 5,30 m, sui quali
si ricostruì in epoca posteriore (-
3 m di quota).
Parimenti
a quest’epoca potrebbe risalire il muro in conglomerato di ciottoli di via
Filodrammatici, all’interno del santuario, che farebbe pensare a una recinzione
della parte più sacra nel nemeton.
Sarebbe di grande interesse riuscire a datare e spiegare gli oggetti non
meglio precisati della seconda Età del Ferro ritrovati in via S. Protaso,
sotto la Banca Popolare di Novara, costruita a ridosso del nemeton.
Per
quanto concerne le abitazioni comuni, disponiamo di pochissimi indizi
interessanti e coerenti, se si eccettua l’area di S. Satiro in via Torino,
già abitata nel II sec. a.C., ma senza tracce comprensibili sul tipo della
costruzione e sulla disposizione degli ambienti. Lo stesso dicasi per i
reperti in piazza Missori all’angolo col corso di Porta Romana, dove sono
venuti alla luce, proprio al centro dell’attuale carreggiata, resti di
edifici lignei, caratterizzati da pareti di graticcio appoggiate su travi
lignee disposte orizzontalmente e pavimenti in terra battuta, con resti di
focolari. Sappiamo che le case erano orientate lungo un allineamento
corrispondente al prolungamento di via Unione, ma non abbiamo indicazioni più
precise circa la datazione.