Home | La città | Personaggi | Arte | Miti e leggende | Repertori | Cronologia | Links utili
 
sei in Personaggi >> Vescovi famosi >> ariberto d'antimiano

 

 Ariberto d'Antimiano

di Maria Grazia Tolfo

 

Sommario:

Il custode di S. Vincenzo di Galliano

Arcivescovo di Milano
I provvedimenti contro il nicolaismo
La rivendicazione della supremazia ambrosiana
La traslazione di S. Giovanni Buono
Il culto di S. Satiro
Gli eretici di Monforte 



La fondazione di S. Dionigi

La ribellione dei valvassori
La Constitutio de feudis
Il carroccio
Lo scontro con Lanzone da Corte
L'esilio a Monza
La morte

Bibliografia
 

 

Il custode di S. Vincenzo di Galliano
Ariberto nacque intorno al 970-980 da Gariardo (figlio di Wipaldo) e da Berlinda; la famiglia possedeva, oltre a beni nel territorio bergamasco, anche numerose corti in Brianza, tra cui quella di Antimiano (o Intimiano o Antegnano) presso Cantù, dalla quale originava, la corte di Calco, il castello di Giovanico (Vighizzolo di Cantù), la Curia Picta (Corbetta), un castello nella corte di Merate (sul quale nel Settecento venne costruito palazzo Prinetti) e numerose altre terre. 
S. Vincenzo di Galliano (Cantù)Nel 998 Ariberto era suddiacono della Chiesa milanese; il 2 luglio 1007 riconsacrava la basilica di S. Vincenzo a Galliano (Cantù), della quale era custode, con le reliquie di  S. Adeodato, supposto figlio di S. Agostino (in realtà un sacerdote morto nel 525 e scambiato per il santo in seguito a un'errata interpretazione della lapide sepolcrale).  Ariberto offre il modello della basilica di S. Vincenzo a GallianoLa basilica venne rifatta per rialzare il presbiterio onde ricavare una cripta nella quale deporre i corpi dei santi; ne conseguì l'adattamento dell'abside, che fu decorata con affreschi, tra i quali figura lo stesso Ariberto che dona il modello della Chiesa. Dopo il 1018 Ariberto farà costruire accanto alla basilica un battistero a due piani, un unicum architettonico.


Arcivescovo di Milano
Il neo eletto Ariberto offre a Gesù l'Evangelario
Quando il 29 marzo 1018 Ariberto fu consacrato arcivescovo di Milano col placet dell'imperatore Enrico II, si era appena consumata una tragedia nazionale che aveva visto protagonista Arduino d'Ivrea, incoronato a Pavia nel 1002 dai feudatari italiani e dal clero riformato cluniacense, contrapposto ad Enrico II di Sassonia, sostenuto dai vescovi-conti e incoronato a Pavia dall'arcivescovo di Milano nel 1004. Arduino era il rappresentante della feudalità laica italiana che voleva abolire la feudalità religiosa e restituire alla nobiltà guerriera il diritto ad eleggere il proprio re. Egli stesso si faceva chiamare re dei Longobardi. Vinse invece Enrico II, che nel 1014 fu incoronato imperatore a Roma, mentre Arduino si ritirava nell'abbazia di S. Benigno di Fruttuaria nel Canavese (le sue ceneri dal castello di Aglié vennero trasferite nel XVIII secolo nella cappella del castello di Masino).
Ariberto parteggiava ovviamente per Enrico II e approfittò dei nuovi orientamenti politici di Pavia per assestare un colpo al suo vescovo, il più temibile concorrente al primato dell'arcivescovo milanese.


I provvedimenti contro il nicolaismo e il concubinato
Nell'autunno 1019 Ariberto partecipò alla dieta che i feudatari italiani tennero a Strasburgo alla presenza di Enrico II e incontrò nuovamente l'imperatore il 6 dicembre 1021 a Verona, insieme al comes comitatis mediolanensis Ugo.
Nell'agosto 1022 in un concilio di Pavia, presieduto da papa Benedetto VIII e presente l'imperatore, l'arcivescovo milanese pretese di sottoscrivere subito dopo il papa i provvedimenti contro i chierici sposati e concubinari, in ciò motivato non solo da motivi religiosi: i diffusi matrimoni dei chierici, i cui figli ereditavano i benefici ecclesiastici, contribuivano infatti a depauperare il patrimonio della Chiesa. Eppure la storia gli giocò un brutto tiro: Galvano Fiamma, cronista milanese trecentesco, affermò che l'arcivescovo aveva una moglie di nome Ussera, aprendo così presso gli ingenui storici locali un dibattito sulla reale fede celibataria del nostro arcivescovo. Useria, ricca matrona milanese, si era limitata a donare un suo appezzamento fuori Porta Nuova per costruire il monastero di S. Dionigi.
Ariberto si porrà comunque da subito come autentico sostenitore della vita canonicale, favorendo la fondazione di canoniche e di cripte per l'officiatura notturna del clero. Nel 1034 nel testamento redatto prima della sua partenza per la Borgogna concesse ampie donazioni al clero cardinale perché si disponesse "ad reficiendum in canonica ipsius sancte Marie sicut illorum ordo et consuetudo esse debet". Nel 1042 legava vari beni ai canonici decumani della cattedrale, con l'obbligo della mensa comune; dotò infine di cripte alcune chiese, tra cui quella di S. Giovanni in conca è a Milano l'unica superstite. 


La rivendicazione della supremazia ambrosiana
Alla morte di Enrico II  nel 1024 la feudalità italiana tentò nuovamente di imporre scelte autonome per la corona italiana. Secondo Rodolfo il Glabro c'era in Italia un partito favorevole a Ugo, figlio di re Roberto il Pio di Francia. A Pavia, ad esempio, in una rivolta popolare abbastanza irrazionale furono abbattuti i resti del palazzo imperiale, cosa che mise in cattiva luce la vecchia capitale agli occhi del nuovo imperatore. Quando Corrado II intimò ai Pavesi di ricostruire il palazzo com'era, perché avevano distrutto un bene imperiale, i Pavesi si dissero disposti ad erigerne uno purché fuori dalle mura, aggravando così la loro posizione.
Ma Ariberto non aveva dubbi e corse a Costanza a omaggiare il re di Germania Corrado II il Salico, nipote per parte materna di Ottone I, ottenendo in cambio l'abbazia di Nonantola e il diritto di nominare il vescovo di Lodi. 
Approfittando dell'opposizione pavese, poté guadagnare altro terreno per il riconoscimento di Milano come nuova capitale e invitare Corrado a farsi incoronare re d'Italia a Milano invece che a Pavia, come già aveva fatto Ottone I. L'incoronazione ebbe luogo in una data imprecisata ma collocabile nei primi mesi del 1026 nella basilica di S. Ambrogio e forse una seconda volta anche a Monza con la corona ferrea, come studi più recenti sembrano confermare.


Lino appartenente alla veste di incoronazione di Corrado II


Sensibile ai grandi cerimoniali, Ariberto riaprì la tomba di S. Ambrogio, che rivestì con nuovi tessuti serici orientali (Museo della basilica), e quella di S. Satiro. L'imperatore da parte sua donò all'arcivescovo la sua veste da cerimonia in lino ricamato, con al centro la propria effige. Per l'occasione Ariberto aveva fatto decorare con affreschi i sottarchi intorno al presbiterio e forse anche qualche parete, mentre tra i doni dell'imperatore si trovavano forse l'aquila e il Cristo in trono oggi sull'ambone.
Il fiero arcivescovo proseguì nella sua missione, accompagnando Corrado II a Roma per l'incoronazione imperiale sua e della moglie Gisela nel giorno di Pasqua (26.3.1027). Qui scoppiò una lite tra Ariberto e l'arcivescovo di Ravenna per chi doveva tenersi alla destra dell'imperatore. Con Ravenna i motivi di lite erano ben più importanti, perché l'arcidiocesi di Milano stava perdendo le diocesi dell'Emilia a favore di Ravenna. Corrado confermò che il posto spettava all'arcivescovo di Milano, dal momento che aveva il privilegio dell'incoronazione regia, mentre a destra del papa doveva sedere il patriarca di Aquileia. 
Di ritorno a Milano, Ariberto si sfogò contro la "superbia" dell'arcivescovo di Ravenna e inoltre, per suffragare la pretesa egemonia della Chiesa ambrosiana, produsse un falso documento che attestava la fondazione della Chiesa milanese da parte dell'apostolo Barnaba, quindi prima ancora della fondazione romana da parte di Pietro. Il falso si chiama Querimonia beati Benedicti e sarebbe il presunto discorso pronunciato nel 711 dal vescovo di Milano Benedetto per lamentare la sottrazione della diocesi di Pavia alla giurisdizione metropolitica milanese. I diritti del presule milanese vengono sostenuti in base al fatto che S. Barnaba aveva stabilito che tutte le chiese dell'Italia settentrionale dovevano essere soggette a quella di Milano.
Sempre nel 1027 Ariberto nominò il vescovo di Lodi, che prima era di nomina imperiale e nella scala gerarchica era diretto vassallo dell'imperatore, mentre ora veniva a essere vassallo dell'arcivescovo di Milano, con tutte le conseguenze. Milano avrebbe avuto così diretto accesso al Po e ai suoi affluenti nella Lombardia sud-orientale, un guadagno enorme per i mercatores protetti dall'arcivescovo. Per imporre Ambrogio di Arluno come vescovo Ariberto non mancò di partecipare personalmente all'assedio di Lodi. Numerose terre del Lodigiano, soprattutto intorno a Codogno e lungo l'Adda, il Lambro e il Sillaro confluirono sotto il possesso della Chiesa milanese.


La traslazione di Giovanni Buono
Anche la Chiesa genovese con le pievi di Recco, Rapallo, Uscio e Camogli, mostrava segni d'insofferenza verso quella ambrosiana. Bisognava insistere sulla legittimità del controllo e Ariberto fece cercare i resti del genovese Giovanni Buono, l'ultimo vescovo milanese in esilio a Genova, al quale si attribuiva il rientro a Milano del clero cardinale. Venne traslato da Genova a Milano nella chiesetta di S. Michele subtus domum accanto all'arcivescovado. Ariberto poté sottolineare che il vescovo, la cui nascita è contesa tra Camogli e Recco, aveva lasciato i suoi beni distribuiti nelle suddette pievi alla Chiesa ambrosiana, che ne rivendicava legittimamente il controllo.


Il culto di S. Satiro
In occasione dell'incoronazione in S. Ambrogio di Corrado II nel 1026 Ariberto aveva dato una sistemazione anche alla sepoltura di S. Satiro e prelevato un frammento della sua scapola destra. Da quando le reliquie di san Vittore erano state trasferite nella basilica di S. Vittore al corpo, il piccolo sacello non si era chiamato più di S. Vittore in ciel d'Oro ma era stato intitolato al fratello del nostro patrono e posto sotto la diretta protezione dei monaci di S. Ambrogio. Nel 1022 Pietro, arciprete e cimiliarca di S. Maria Maggiore, aveva lasciato i suoi beni divisi tra S. Vittore al Corpo e il sacello di S. Satiro presso S. Ambrogio; i fondi per S. Satiro dovevano servire ai monaci per i festeggiamenti del 17 settembre in onore del santo, quando dovevano offrire ai canonici ordinari della cattedrale e ai decumani di S. Ambrogio un pranzo e vari omaggi. La disposizione aveva infuriato i monaci ed è qui che entra in campo Ariberto. Per pareggiare i conti, si offrì di riparare la basilica anspertiana dedicata a S. Satiro all'interno della città e dipendente dai monaci di S. Ambrogio, non mancando però di lasciare nel suo testamento dei fondi per il mantenimento dei canonici di S. Ambrogio.
La consacrazione della rinnovata basilica di S. Satiro con parte delle reliquie prelevate da Satiro avvenne il 16 ottobre 1036. Oltre alla sistemazione della cella e al nuovo programma decorativo, Ariberto aveva rifatto la torre campanaria, mentre lo xenodochio di Ansperto era andato definitivamente perso. 
Sempre nel rilancio del culto di S. Satiro commissionò per la cattedrale il coperchio della custodia dell'Evangelario, oggi nota come Pace di Ariberto, una bella opera di oreficeria nella quale compare S. Satiro accanto al fratello S. Ambrogio, e un Sacramentario miniato, detto anch'esso di S. Satiro.


Gli eretici di Monforte

Monforte
Nel 1028, mentre Ariberto riaffermava il suo potere sulla sua arcidiocesi, venne in contatto con il maggior gruppo eretico italiano nel castello di Monforte vicino ad Asti. Ce ne informano Landolfo il Vecchio e Rodolfo il Glabro. Sull'argomento la letteratura è enorme e non mancano i siti dedicati appositamente a queste prime vittime italiane della crociata anti-catara. Noi ci limitiamo a considerazioni che riguardano più da vicino il nostro arcivescovo.
Presi e trascinati a Milano gli eretici, il clero aprì un processo per cercare di riportarli in seno alla Chiesa. Ma la loro presenza a Milano fu sufficiente a diffondere il loro credo, come in un potente contagio. Scrive Landolfo il Vecchio:

"Questi nefandissimi, che non si sapeva neppure da qual parte del mondo fossero calati in Italia, ogni giorno privatamente seminavano falsi insegnamenti derivati da fallaci interpretazioni delle sante scritture ai contadini che in Milano erano convenuti per vederli e conoscerli".

Per porre fine a questa pericolosa contaminazione, piantata da una parte una croce e dall'altra un rogo, fu imposto loro di scegliere tra l'uno e l'altro; restii ad ogni abiura, molti preferirono gettarsi nelle fiamme. Secondo Rodolfo il Glabro pare che Ariberto non fosse del tutto convinto di condannarli al rogo e che la responsabilità maggiore ricadesse sui militi dell'arcivescovo, ma dato il piglio autoritario ed assolutistico dell'arcivescovo è difficile credergli.
Secondo Landolfo il Vecchio, questi eretici lasciarono un segno indelebile a Milano, dove sarebbero stati posti nel sobborgo ancora oggi detto di Monforte.


La fondazione di S. Dionigi
La sua fondazione più prestigiosa di Ariberto fu il monastero che volle dedicare al vescovo milanese S. Dionigi. Sorto accanto a una cappella paleocristiana con funzioni cimiteriali, il monastero ospitava dodici monaci e disponeva di uno xenodochio. Il terreno gli venne donato dalla nobile Useria, immortalata nella strada Usera (oggi Isara), che la malalingua di Galvano Fiamma fece diventare la moglie dell'arcivescovo. 
Ariberto dotò il monastero coi suoi beni personali che si trovavano a Giovenico, Cucciago, Barzago, Castegnate, Carugate e Verzago, e con altri beni che sottrasse al monastero milanese di S. Vincenzo in Prato. labrum di Valentiniano II usato in S. Dionigi
Nel 1032 depose i corpi di Dionigi ed Aureliano nella vasca di porfido (labrum) oggi in Duomo. Si trattava di un sarcofago ad esclusivo uso imperiale, molto probabilmente appartenente a Valentiniano II, quindi è indiscutibile che Ariberto lo abbia preso dal mausoleo imperiale che venne disfatto per costruire il monastero di S. Vittore al Corpo.
Nel monastero venivano distribuite giornalmente 8 moggia di fave e 8.000 pani, nonché abiti e denaro. Per la cottura dei legumi l'arcivescovo aveva messo a disposizione cinque suoi cuochi, mentre per cuocere l'enorme quantità di pane si "convenzionò" con cinque fornai.


La ribellione dei valvassori
I guai seri cominciarono nel 1034, quando Ariberto dovette lasciare la città, duramente provata, per adempiere ai suoi doveri di vassallo imperiale e combattere in Borgogna per Corrado II contro Oddone di Champagne. In questa occasione redasse un testamento nel quale sono citate le chiese e i principali monasteri femminili e maschili della città, uno degli elenchi più antichi a nostra disposizione. E' in questo frangente che S. Colombano venne donato dall'arcivescovo alla Chiesa milanese e che vengono citati i beni di Ariberto.
La sua assenza durò solo pochi mesi, ma era da poco tornato quando a Milano e nel resto dell'Occidente scoppiò la ribellione dei feudatari minori o valvassori. Mentre Ariberto veniva sostenuto dal popolo, riconoscente per le sue elargizioni durante la carestia, la feudalità minore rivendicava gli stessi diritti dei vassalli all'inalienabilità ed eredità dei feudi. Lo scontro avvenne nel 1036 a Campomalo; i valvassori milanesi erano appoggiati da una Lega con Lodi, Pavia e Cremona e l'esito della battaglia fu pesante per entrambi gli eserciti. 
Nel gennaio 1037 Corrado II era a Milano. Venne accolto da Ariberto con gran fasto, ma il giorno dopo scoppiò un tumulto cittadino e Corrado II si spostò a Pavia, da dove aprì un giudizio contro l'operato di Ariberto. L'arcivescovo non ritenne di doversi giustificare e così facendo suscitò la collera dell'imperatore, che ne ordinò l'arresto. Ariberto, dopo l'imperatore, figurava come la personalità forse di maggior prestigio in Italia e le milizie italiane si rifiutarono di eseguire gli ordini. Dovettero intervenire i tedeschi al seguito di Corrado, che trasportarono Ariberto in una rocca nel Piacentino. Per i milanesi fu una catastrofe e organizzarono l'evasione del loro presule. Ascoltiamo dalla voce di Landolfo la cronaca della vicenda:
 
"Tutti i cittadini milanesi, maggiorenni e minorenni, i sacerdoti, i chierici, le nobili matrone e le monache, gettati da parte tutti gli ornamenti, aspersi di cenere e vestiti di cilicio, visitavano i corpi dei Santi supplicando Iddio con digiuni, orazioni, litanie e frequenti vigilie. E mentre facevano lunghi digiuni protratti fino a notte, davano poi il cibo, che dovevano mangiare, ai poveri e se ne stavano con triste volto e animo dolente come se fossero loro morti dei figli e come se ogni avere fosse stato loro portato via da uomini iniqui. I sacerdoti poi ed i monaci con profondi sospiri e grandi lamenti, incessantemente s'affaticavano a celebrare ogni giorno Litanie e piedi nudi e a supplicar Dio e S. Ambrogio e tutti i Santi con grandi uffici divini".


La Constitutio de feudis
Dopo due mesi di prigionia, Ariberto riuscì a tornare in aprile a Milano. In previsione dell'attacco imperiale si rinforzarono le mura e forse sulla Porta Romana si pose la lapide encomiastica di Roma secunda:

Dic homo qui transis dum portae limina tangis
Roma secunda vale Regni decus imperiale
Urbs veneranda nimis plenissima rebus opimis
Te metuunt gentes et tibi flectunt colla potentes
In bello Thebas in sensu vincis Athenas.
 

Landolfo il Vecchio riferisce che l'arco trionfale del IV secolo fuori Porta Romana venne adattato a difesa e sopralzato in modo da ospitare dei soldati.
Ariberto offre al Cristo il modello della chiesa di S. DionigiAriberto donò alla chiesa di S. Dionigi, appena rifatta e quindi da riconsacrare, un  Crocefisso che lo ritraeva ai piedi del Cristo col titolo "Aribertus indignus archiep(iscopu)s", dove "indegno" era polemicamente riferito alla scomunica che gli aveva inferto papa Benedetto IX, un ragazzino di 18 anni (eletto a 12), incapace perfino di rimanere a Roma. 
Era la prima volta che un Crocefisso veniva posto sopra l'altare come parte integrante della celebrazione della Messa, ma Ariberto era un grande innovatore.
Il 19 maggio 1037 l'imperatore Corrado II sferrò l'attacco alla città. E' ancora Landolfo che narra l'assedio:

"Come ebbe lanciato all'assalto le sue schiere di fanteria e di cavalleria, chi per amore dell'imperatore, chi per timore, chi per i doni e le ricompense promesse, chi per speranza di preda, chi allettato dalle ricchezze della città, chi imbevuto d'ira e di odio verso la città come lo comportava la natura di questa razza; tutti insomma si scagliarono in combattimento con rumore e grida inaudite. Da principio rimasero i cittadini alquanto atterriti e lanciando da vicino aste, frecce e altre armi da offesa, incautamente colpirono molti dei nostri. Ma i milanesi, come erano stati istruiti, dalle porte e dalle serraglie,  dalle antiporte ( o torri fortemente munite dette anteportali, per essere poste davanti alle porte a chiudere l'ingresso ai nemici), dalle 310 torri murali (che nel circuito della città tanto dense erano che tutti coloro che v'erano a guardia potevano parlarsi come fossero vicini) e presso l'arco trionfale su cui Ariberto aveva spiegata la bandiera e difeso con valorosi cavalieri e munito mirabilmente d'armi, munizioni e ordigni da guerra, mossero incontro ai nemici virilmente pugnando". 

L'assedio si protrasse per dieci giorni, durante i quali Benedetto IX, a Cremona con l'imperatore, confermava la scomunica di Ariberto. Il 28 maggio 1037 Corrado II emanava la famosa Constitutio de feudis ovvero l'Edictum de beneficiis Regni italici, che stabiliva l'ereditarietà dei feudi minori e la possibilità per i valvassori di appellarsi al potere centrale sovrano. Nessun vassallo avrebbe più perso i suoi benefici senza colpa accertata da un tribunale di suoi pari, ricorrendo in ultimo appello all'imperatore. Per i valvassori era invece sufficiente discutere la causa davanti al vicario imperiale.
Ariberto rispose inviando suoi messi ad Oddone di Champagne, l'antico nemico di Corrado, per offrirgli la corona d'Italia. Sfortunatamente per Ariberto, Oddone nel frattempo era morto, ma l'imperatore venne a conoscenza del tentativo e riaprì il fronte contro Milano. Il 26 marzo 1038 Ariberto venne deposto e sostituito dal canonico Ambrogio, contro il quale si scatenò l'ira dei cittadini, che devastarono i suoi beni e le case che Ambrogio possedeva a Milano. Nell'estate 1038 Corrado II era rientrato in Germania, ma aveva lasciato ai suoi vassalli italiani il compito di annientare Ariberto. 


Il carroccio
E' in questo contesto che, secondo la cronaca di Landolfo il Vecchio, Ariberto fece scendere in campo il carroccio, sul cui pennone, secondo la cronaca di Arnolfo, si trovava una croce dipinta:

"Allora fece in tal modo un segnale che doveva precedere i suoi che stavano per combattere: una lunga trave, grande quanto un albero di nave, si ergeva in alto fissata a un robusto carro e portava in cima un pomo d'oro con due lembi pendenti di lino bianchissimo; a metà dell'asta la venerando croce dipinta con l'immagine del Salvatore dalle braccia aperte guardava dall'alto la schiera di armati tutto intorno, affinché - qualunque fosse l'esito della guerra - alla sua vista fossero confortati".

E' la prima volta che compare in battaglia un simbolo così forte intorno al quale coagulare lo spirito combattivo dei milanesi. Non sappiamo come venne usato il carroccio da Ariberto, ma possiamo intuirlo dal contesto. Il carroccio è simbolicamente affine all'arca dell'alleanza e doveva garantire l'invincibilità dell'esercito che la trasportava, motivo per cui la perdita del Carroccio era considerata una tragedia collettiva. Il suo carattere sacrale è evidenziato anche dal fatto che si presentava come un altare mobile sul quale svettava il Crocefisso e che venne custodito nella cattedrale di S. Maria Maggiore.
Le cose si risolsero diversamente: Corrado morì per un'epidemia di peste il 4 giugno 1039, lasciando suo erede il ventiduenne figlio Enrico III. Appena venne incoronato re di Germania, Ariberto gli offrì la corona d'Italia, che Enrico accettò con entusiasmo, visti i problemi che l'arcivescovo aveva creato in Italia. Si risolse così anche la scomunica di Ariberto e l'arcivescovo sostituto Ambrogio rinunciò alla sede milanese in cambio di quella bergamasca, insieme all'autorità comitale nel territorio di Bergamo.
  

Lo scontro con Lanzone da Corte
A Milano in realtà era scoppiata la rivolta dei mercatores, il ceto emergente, che si opponeva sia ai capitani che ai valvassori. La guidava il notaio e giudice di palazzo Lanzone da Corte.
Nella primavera del 1040 Ariberto dovette lasciare la sua amata città, che si era eletta a repubblica, e rifugiarsi nell'imperiale Monza, mentre la nobiltà maggiore e minore alleate stringevano per tre anni d'assedio Milano. Verso la fine del 1043 Lanzone chiese all'imperatore Enrico II il suo intervento a favore dei mercatores e l'imperatore gli promise un presidio di 4000 cavalieri, in attesa che arrivasse col grosso dell'esercito a rimettere ordine in città. Nel timore che le truppe imperiali potessero creare danni ancor maggiori alla prostrata città, Lanzone si risolse a far rientrare i nobili in città, ponendo fine all'esperimento repubblicano.


L'esilio di Monza
Il perduto Evangelario di Monza in un disegno del GiuliniIn questo ribaltamento politico, l'unico a rimanere definitivamente escluso fu proprio l'arcivescovo Ariberto, che non poté più rientrare a Milano. Dalla sua nuova sede Ariberto redasse un nuovo testamento a favore della canonica a uso dei decumani della cattedrale. 
Ma fu soprattutto alla basilica di Monza che dedicò la sua attenzione, tentando di farla assurgere a nuovo centro gravitazionale religioso: il 6 luglio 1042 Ariberto rinvenne in una cassettina di pietra le reliquie di S. Giovanni Battista, donate da papa Gregorio Magno alla regina Teodolinda. Per l'occasione fece dono di un Evangelario alla basilica, perso in età napoleonica.


La morte

Ormai la forte fibra dell'indomito arcivescovo era compromessa. Nel dicembre 1044 Ariberto si ammalò gravemente e nel suo testamento incaricò i canonici di Monza di cantare ogni giorno tre messe da morto per l'anima sua, dei genitori e per l'imperatore Enrico III, fedele oltre la morte. Spirò il 16 gennaio 1045 a Milano, dove aveva ottenuto di essere trasportato. Il suo corpo venne sepolto, come lui desiderava, in un'arca a S. Dionigi, fra i due santi da lui rinvenuti.
Arca di sepoltura e croce di Ariberto in Duomo Dieci mesi dopo, i monaci di S. Dionigi, seccati per le usurpazioni dei beni lasciati loro in eredità da Ariberto, decisero di esporre la salma all'omaggio dei fedeli, magari confidando in qualche miracolo che avrebbe trasformato il monastero in un santuario. Aprendo la cassa i monaci ebbero la prima sorpresa: Ariberto si presentava ancora intatto. Meno chiari i motivi dell'insurrezione popolare che ne seguì, forse per timore che il corpo di Ariberto venisse trafugato. 
Il 27 marzo 1783 fu aperto il sarcofago di serizzo contenente le spoglie dell'arcivescovo e fu traslato in Duomo, dove ancora oggi si trova.
 

Bibliografia

Le gesta di Ariberto

Annoni C., Monumenti della prima metà del sec. XI spettanti all'arcivescovo di Milano Ariberto da Intimiano, Milano 1872

Beat Brenk, La committenza di Ariberto d'Intimiano, in Millennio ambrosiano II, pp. 124-155

L'età comunale, Catalogo della mostra, pp. 288-89

Castiglione A., Antichità della chiesa di S. Dionigi, Milano 1617

Landolfo Seniore, La cronaca milanese, traduzione italiana con note storiche di Alessandro Visconti, Milano 1928    

Romussi C., Milano attraverso i suoi monumenti, op. cit., pp. 163-164

Storia di Milano, III, pp. 24-46, 47-71, 72-92, 93-110

Gli eretici di Monforte

Landolfo Seniore, La cronaca milanese, op. cit. cap. XXVII

Manselli R., L'eresia del Male, Napoli 1980, pp. 161-165

Rodolfo il Glabro, Storie dell'anno Mille

Violante C., Studi sulla cristianità medievale, Milano 1972, pp. 98-100

Volpe G., Movimenti religiosi e sette ereticali, Firenze 1977, pp. 20, 24  

ultimo aggiornamento: lunedì 29 luglio 2002

mariagrazia.tolfo@rcm.inet.it

torna all'inizio pagina