L’enigma del ritratto della contessa di Challant
È il momento di scovare il ritratto di Bianca Maria, una
«figliuola assai bella, ma tanto viva e aggraziata che non poteva esser più»,
finita sul patibolo come mandante di un delitto passionale. I lettori d’età
romantica la riconobbero senz’altro nella distinta e matronale santa Caterina
d’Alessandria, raffigurata nel momento della decapitazione, negli affreschi della
cappella laterale dei Besozzi.
Secondo i commentatori dell’‘800, Luini sarebbe rimasto soggiogato
dal fascino della malfattrice, riscattandola dal delitto per farne una martire.
Ma oggi l’identificazione non regge davvero più. Perché?
1) La decorazione della Cappella Besozzi
risale al 1530, quando Bandello ha già lasciato Milano. È questo l’argomento
principale riportato dagli studiosi recenti, anche se in realtà un personaggio
itinerante come Bandello sarebbe potuto benissimo capitare a Milano nei primi
anni ’30, magari accolto dal vecchio amico Giampaolo Sforza, potente
fratellastro del duca Francesco II (figlio del Moro e della favorita Lucrezia
Crivelli), da poco maritatosi con Violante Bentivoglio.
2) Bandello parla di un «ritratto
dal vivo». Quindi bisogna pensare a un’opera esemplificata su un dipinto da
cavalletto o meglio su un disegno tratto dal volto della donna, forse in
presenza dello stesso scrittore. Quando gli artisti dell’epoca inseriscono
ritratti nelle loro composizioni, li rendono perspicui grazie alla postura
statica e convenzionale: di profilo o di tre quarti, talvolta con gli occhi rivolti
all’osservatore. La scena di santa Caterina non ha nulla del ritratto così
concepito.
3) Può anche darsi che, nel
dipingere la decapitazione di una santa, Luini abbia tratto personale
ispirazione dagli eventi di cronaca, ma senza spingersi a profanare l’immagine
sacra con i lineamenti di una criminale. È un procedimento che ha qualcosa di
caravaggesco, totalmente estraneo all’universo estetico del Rinascimento! Si
aggiunga che tutti i milanesi del tempo avrebbero saputo riconoscere i
lineamenti di Bianca Maria di Challant, visto che la testa mozza della donna
era stata esposta – a quanto si racconta – nella basilica di San Francesco
Grande, dando ai testimoni la terribile impressione di essere ancora viva.
Si
dovrà allora rintracciare un volto che: uno, ricordi un ritratto cinquecentesco;
due, sia eseguito nella parte pubblica accessibile ai fedeli; e tre, risalga preferibilmente
a prima del 1526. L’unica candidatura – davvero non ve ne sono altre – è il
viso di santa Lucia, nel riquadro sotto la lunetta di Ippolita, all’estrema
destra del tramezzo.
Sostanzialmente diversa dalle sante compagne, che hanno
tutte il volto tondeggiante (ricavato da cartoni più volte sfruttati dalla
bottega luinesca), la carnagione rosea, le labbra poco evidenziate, e sono
atteggiate in pose devote, con gli occhi rivolti in basso, per modestia, o al
cielo, in colloquio con Dio; santa Lucia guarda lo spettatore con quel sorriso
benevolo tipico dei ritratti muliebri di Luini: il volto perfettamente di tre
quarti, è ben fisionomizzato e leggermente scavato; la pelle è candida e come
imbellettata da tocchi vermigli sulla bocca e le guance (come nei ritratti di
Ippolita e suor Bianca); il naso è piccolo e affilato, come quello disegnato da
Ambrogio Noceto nell’Album della Trivulziana; i capelli sono raccolti da un
turbante, seconda la moda milanese degli anni francesi.
Luini può avere schizzato il volto di Bianca Maria in Casa
Bentivoglio, e poi averlo inserito come omaggio all’universo di affetti di
Ippolita. La giovane aveva frequentato la dimora dei Bentivoglio almeno fino
alla decapitazione del marito Ermes, del 22 ottobre 1519. Cosa facesse subito
dopo il tragico evento non si sa con certezza. È noto che l’11 marzo 1522 si
rimetterà alla protezione della marchesa del Monferrato, per poi risposarsi col
giovanissimo conte di Challant. E in quell’intervallo? Bandello riferisce che
Bianca Maria, negli anni del primo matrimonio, aveva il permesso di frequentare
esclusivamente i Bentivoglio. Per cui è lecito pensare che la sua prima idea di
vedova sia stata di riparare nelle braccia materne di Ippolita. La decisione
successiva di abbandonare l’amata Milano sarebbe la conseguenza della morte
della Bentivoglio, forse per segreto timore di finire anche lei in
convento.
La tragica fine della contessa di Challant (novella I, IV)
Bandello non è a Milano al momento
dell’esecuzione, per cui riferisce i fatti come riferitigli dal poeta milanese
Antonio Sabino. Il novelliere insiste sulle basse origini della donna, che dice
figlia di un ricchissimo usuraio di Casalmonferrato. In realtà Bianca Maria
Gaspardone è figlia di conte, per quanto di recente nobiltà. Nel 1514, quando è
poco più che quindicenne, sposa Ermes Visconti, attirato dalla cospicua dote.
Dopo la morte del marito (giustiziato dai francesi per sospetto tradimento sulla
piazza d’armi del Castello), è accolta dai Bentivoglio. Grazie alla
straordinaria avvenenza è corteggiata da parecchi pretendenti. Nel 1522 il
potente signore valdostano Renato di Challant riesce a conquistarla, ma non a
farle apprezzare la vita solitaria nei castelli alpini, a lei che è abituata
alla mondanità di Milano.
Ritratto di Renato quinto conte di Challant
Federico Pastoris, I
signori di Challant nel castello di Issogne (1865, Torino, GAM)
Bianca Maria scappa nel 1524 a Pavia, dove mena «una
vita troppo libera e poco onesta», facendo «all’amore con questo e con quello».
«Ho ventidue anni e son già vedova due
volte. La sorte può mutare»: le fa dire Giacosa nella sua fortunata pièce
teatrale. La descrizione bandelliana di Pavia come di città mondana e
tentatrice può far oggi sorridere, ma coincide con la visione che nel passato
si aveva della vivace città universitaria. «Quis Papie demorans castus
habeatur?» (chi dimorando a Pavia potrebbe rimare casto?): cantavano i goliardi
del medioevo.
Solo a posteriori – scrive Bandello – si capiscono le
ragioni della gelosia del Visconti, dopo che la donna, libera dal controllo del
consorte, si è mostrata in tutta la sua congenita disonestà, fino alla condanna
per omicidio il 20 ottobre 1526. Eppure la dama aveva la fama di donna
«costumata», quando – pur non potendosi permettere le libertà delle signore
milanesi – praticava la Casa Bentivoglio. Con il senno di poi, Bandello la
descrive come una puledra irrequieta, tenuta a freno dal marito, che le
impedisce di presenziare alle occasioni mondane:
"ella ne le prime nozze era moglie del nostro signor Ermes
Vesconte, che Dio abbia in gloria, perciò che egli era riputato esser di lei
geloso. Del che era in Milano assai biasimato. Egli non permetteva che ella
praticasse in molti luoghi, se non in casa de la signora Ippolita Sforza e
Bentivoglia, ove spesso io la vedeva e seco domesticamente ragionava. Onde mi
ricordo che, essendo ella fanciulletta, e volontarosa, come le fanciulle sono,
d’andar a le feste con quella libertà che le donne milanesi vanno, pregò essa
signora Ippolita, che l’impetrasse dal marito di poter andar in certo luogo,
massimamente essendovi invitata. La signora Ippolita fece in effetto l’ufficio
a la presenza mia con il signor Ermes, un giorno che di compagnia eravamo noi
tre soli a ragionar insieme. Ascoltò il signor Ermes la richiesta fattagli, e
poi sorridendo così le rispose: […] Voi mi perdonarete s’io non lascio andar la
mia moglie ov’ella vuole e se non le do tanta libertà quanta in Milano si
costuma, perché io conosco il trotto e l’andar del mio polledro…."
Bandello racconta la dinamica dei fatti con il consueto
realismo. Nel secolo romantico, Giacosa e altri assolveranno la contessa dalla
taccia di femmina depravata, indicando come causa della condanna capitale il
rifiuto di lei a concedersi al duca di Borbone, governatore milanese. Ma
Bandello non mostra pietà per la «putta sfacciata», perfida e ninfomane, sempre
in cerca di un «gagliardo macinatore».
"Questo don Pietro era giovine di ventidui anni, brunetto di
faccia ma proporzionato di corpo e d’aspetto malinconico, il quale veggendo un
dì la signora Bianca Maria, fieramente di lei s’innamorò. Ella conoscendolo e
giudicatolo piccione di prima piuma ed instrumento atto a far ciò che ella
tanto bramava, se le mostrava lieta in vista, e quanto poteva più l’adescava,
per meglio irretirlo e abbarbagliarlo. Egli, che più non aveva amato donna di
conto, stimando questa esser una de le prime di Milano, miseramente per amor di
lei si struggeva. A la fine ella se lo fece una notte andar a dormir seco, e
con amorevolissime accoglienze lo raccolse, e mostrandosi ben ebra de l’amor di
lui, li fece tante carezze e gli dimostrò tanta amorevolezza nel prender
amorosamente piacer insieme, che egli si reputava esser il più felice amante
che fosse al mondo, e in altro non pensando che in costei, così se le rendeva
soggetto, che ella non dopo molto entrata in certi ragionamenti, domandò di
singular grazia al giovine che volesse ammazzar il conte di Gaiazzo e il signor
Ardizzino.
Ma la disgraziata giovane, avendo di bocca sua confermata la
confessione de l’amante, fu condannata che le fosse mózzo il capo. Ella, udita
questa sentenza, e non sapendo che don Pietro era scappato per la più corta,
non si poteva disporre a morire. A la fine essendo condutta nel rivellino del
castello verso la piazza, e veduto il ceppo, si cominciò piangendo a disperare
e a domandar di grazia che, se volevano che morisse contenta, le lasciassero
veder il suo don Pietro; ma ella cantava a’ sordi. Così la misera fu
decapitata. E questo fin ebbe ella de le sue sfrenate voglie."
«Vi vo’ narrare un’istoria»
Qui
di seguito un breve regesto delle novelle di Matteo Bandello d’ambientazione milanese.
Si tenga presente che i nomi dei personaggi sono quasi sempre, dichiaratamente,
pseudonimi.
I. IX. Un marito, geloso della moglie
Caterina, ascolta di nascosto in San Angelo la confessione dell’adulterio di
lei e – appena fuori dalla chiesa – la uccide.
I. XXVI. La duchessa di Amalfi si sposa
in segreto con il maggiordomo Antonio Bologna. Una volta scoperta dai fratelli,
fugge con lui verso il nord Italia, rinunciando al titolo. Sorpresa in
un’imboscata, è fatta prigioniera con i due figli minori e con loro uccisa. Il
Bologna riesce per il momento a fuggire a Milano, accompagnato dal figlio
maggiore, ma è raggiunto anche lui dai sicari.
I. XXVIII. Cornelio, fuoriuscito
milanese a Mantova, torna nottetempo in città a ritrovare l’amata Camilla.
II. III. Il mercante di cavalli Guglielmo di Germania torna
a Milano a riscuotere un vecchio pagamento, ma trova – al posto del creditore
Ambrogio fuggito in campagna – un prelato amante della moglie. Gli chiede lo
stesso i soldi, perché grazie a lui ha potuto cavalcare con agio: non i cavalli
ma una bella puledra.
II. VIII. Crisoforo riesce a convincere
la bella Apatelea a giacersi con lui almeno una volta, minacciando di
calunniarla di fronte all’amante ufficiale e alla città intera.
II. XLVII. Simpliciano, giovane
azzimato, sempre vestito all’ultima moda e profumatissimo, viene ingannato
dalla donna che corteggia, che lo fa giacere con l’orrenda serva.
II. XLVIII. «Noi siamo su l’ultimo del
carnevale, e il tempo vorrebbe esser dispensato in giuochi festevoli e parlari
piacevoli, a ciò poi possiamo esser più forti a sopportar il peso de la
quadragesima che ci è su le porte». I frati di un convento di Milano si
spaventano nel trovare in una cella una meretrice che si è tinta per sbaglio
d’inchiostro
III. XXII. Ambrogiolo berrettaio va a
trovare di nascosto la Rosina,
in borgo di Porta Comasina. Sente il bisogno impellente di andare di corpo nel
cimitero di San Simpliciano, ma un buontempone lo spaventa fingendosi uno spirito.
Fermato dalla compagnia di Estorre Visconti, è in seguito liberato, ma non
prima che un soldato abbia approfittato della bella Rosina.
III. XXIV. Giovanni Antonio, figlio del
giardiniere di Palazzo Bentivoglio nel borgo di Porta Comasina, litiga con uno
sbirro di corte, ed è difeso dall’eroica sorella. I due sono risparmiati dalla
legge grazie all’intervento del Bentivoglio.
III. XXV. Giovanni Maria Visconti fa
seppellire vivo un prete che si rifiuta di officiare gratuitamente il funerale
di un povero milanese.
III. XXVI. Il capitano Biagino Crivelli
non riesce a ottenere da Ludovico il Moro un beneficio ecclesiastico per un suo
parente. Ammazza allora un prete decrepito di Montevecchia in Brianza, e fa
presente al duca che ormai non può più accampare scuse: in questo caso non è
proprio possibile che il beneficio sia già stato assegnato a qualcun altro.
III. XXXII. Nella sala verde del
Castello un buffone di corte sbeffeggia i supponenti frati carmelitani, al
cospetto del duca Galeazzo Maria Sforza.
III. XXXV. Un dottore convince con una
scusa un amico gentiluomo a cambiarsi d’abito con lui, approfittando del buio
della chiesa di San Nazaro. Subito dopo corre a casa dell’amico per giacersi
con la moglie.
III. XLV. Il duca Galeazzo Maria Sforza
fa suo consigliere il dottore Giovanni Andrea Cagnola, conosciutolo giusto e
saldo nei giudizi.
III. LIII. L’usuraio Tommasone Grasso
chiede a Bernardino da Siena in visita a Milano di predicare contro il vizio
dell’usura, con il segreto proposito di debellare la concorrenza.
III. LXV. La spassosa novella di monna
Bertuccia, scimmia da compagnia fuggita da una casa nella contrada di San
Giovanni sul Muro.
IV. XIII. Terza novella dedicata a
Galeazzo Maria Sforza, il duca gaudente, «troppo dedito a l’amore de le donne».
Qui il signore riesce a farla sotto il naso a un consigliere, spacciandogli per
un gesto di cortesia una visita a casa sua per trescare con la moglie.
IV. XXV. Una gentildonna vedova,
innamoratasi di un giovane alla Festa del Perdono, riesce a godere di lui per
sette anni, fino alla prematura morte dell’amante, senza mai rivelare la
propria identità.
Bibliografia essenziale
Lo
studio sulla personalità di Matteo Bandello e dei suoi legami con Milano è
stato condotto in gran parte sul testo delle Novelle, ricco di spunti e notizie autobiografiche, specie (ma non
solo) nelle lettere dedicatorie.
Le Novelle (Lucca, 1554) sono leggibili in
sillogi presenti in commercio:
Matteo Bandello, Novelle,
Rizzoli, Milano 1990.
Oppure
nell’edizione integrale, consultabile nelle principali biblioteche italiane:
Matteo Bandello, Tutte
le opere, a cura di Francesco Flora, Mondadori, Milano 1934.
O
infine consultabili sul sito web:
http://www.liberliber.it/biblioteca/b/bandello/index.htm
Utile
inoltre sui rapporti di Bandello con i Bentivoglio:
Carlo
Godi, Bandello. Narratori e dedicatari della prima parte
delle Novelle, Bulzoni, Roma 1996.
La
committenza Bentivoglio del ciclo di Bernardino Luini in San Maurizio è oggetto
di analisi in alcuni testi fondamentali:
Angelo Ottino Della Chiesa, San Maurizio al Monastero Maggiore, Cariplo, Milano 1962.
Giovanni Battista Sannazzaro, San Maurizio al Monastero Maggiore, Parrocchia di S. Maria alla
Porta, Milano 1981.
Maria Teresa Binaghi Olivari, I francesi a Milano (1499-1525): arti figurative e moda, in «Annali
dell’Istituto storico italo-germanico in Trento», V, 1979, pp. 86-116.
Sandrina Bandera, I
cicli pittorici, in Carlo Capponi (a cura di), San Maurizio al Monastero Maggiore di Milano, BPM, Milano 1998, pp.
46-83.
Dario Trento, Alessandro
e Ippolita Bentivoglio in San Maurizio, in Sandrina Bandera, Maria Teresa
Florio (a cura di), Bernardino Luini e la
pittura del Rinascimento a Milano. Gli affreschi di San Maurizio al Monastero
Maggiore, Skira, Milano 2000, pp. 37-44.
Maria Teresa
Fiorio, Paola Zanolini (a cura di), Arte
e musica in San Maurizio al Monastero Maggiore, BPM, Milano 2006.
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