La zona di Porta Romana riveste grande importanza per la
concentrazione di archetipi culturali risalenti al mondo celtico e tramandatici
da leggende oggi ridotte a tizzoni che covano sotto la cenere.
Leggenda e archeologia si mischiano in questa zona,
fondendosi in un corpo unico di tradizione a volte enigmatica. Il dato si
presenta velato da etimologie enigmatiche, depistanti, che hanno sedimentato
secoli di interpretazioni spesso fantasiose.
La nostra esposizione non vuole togliere questo velo al mito
nell’illusione di cogliere una verità lunga duemila anni, ma si allinea
con le altre narrazioni di storia locale che hanno tramandato le nostre
leggende, perché le prossime generazioni possano continuare a raccontare il
nostro mondo magico. Soffiamo sul fuoco… e riaccendiamo la leggenda.
Iniziamo la storia del Sestiere di Porta Romana… da quando
non c’era, ossia dal VI-V sec. a.C., quando c’era solo un santuario – il medhelan
– per il raduno delle tribù insubriche in occasione delle feste annuali. In
questa zona – oggi densamente costruita - c’erano prati, un laghetto, un fiume
- il Seveso – e alcuni rigagnoli, una strada che in parte costeggiava il fiume
e alcuni viottoli di campagna, uno spazio per i giochi circondato da gradinate
in legno, un piccolo cimitero e qualche trattoria con cibi cotti da vendere:
suona molto simile a un moderno raduno per concerto? Se avete notato “il
cimitero”, avete intuito che è tutta un’altra storia.
Cosa aveva allora di così interessante questa zona, da aver
conservato per duemila e più anni un carattere sacro? Corrispondeva al punto a
Sud-Est dove dal santuario si osservava la levata eliaca di Antares,
la stella rossa della costellazione dello Scorpione, che brilla alla fine della
Via Lattea ed era perciò considerata dai Celti una porta per l’Aldilà.
La levata eliaca di Antares segnava la fine dell’estate (poi
di S. Martino) e il capodanno celtico. Si apriva, per così dire, la porta
dell’altro mondo, si onoravano i defunti e si scongiurava la morte con feste
orgiastiche. Le celebrazioni del capodanno avevano tre giorni preparatori, dove
si tenevano i giochi che avrebbero selezionato i guerrieri più valorosi, il
giorno del Capodanno, tre giorni finali per i giudizi della corte suprema, gli
scambi, i nuovi contratti.
In questo periodo era ancora naturale che vita e morte
fossero due parti dello stesso insieme, come il mantello di S. Martino, che si
assunse molto più castamente l’onere di ricordare la festa in età cristiana.
La Vigentina
La strada principale di cui abbiamo parlato è il corso di
Porta Vigentina, che proveniva da Opera, Locate e Siziano, dove si trovava il confine naturale con il territorio di Laevi e Marici,
segnato da una fascia di risorgive che creava le paludi.
Territorio ricco d’acqua e perciò ambito dalle prime popolazioni che si
stanziarono in Lombardia, ancora amanti delle paludi. Superata questa zona
paludosa di confine, si proseguiva per Pavia.
La strada non si fermava come oggi alla Crocetta in corso di
Porta Romana, ma proseguiva fino al medhelan, passando attraverso
l’attuale Università Statale (Ca’ Granda). Torniamo quindi sulla strada e
percorriamola da corso di Porta Vigentina verso piazza S. Stefano. Alla nostra
destra (all’altezza del Policlinico) avremmo visto una necropoli, divisa tra
quella che gli archeologi oggi chiamano di S. Antonino e l’altra di S. Stefano.
Alla nostra sinistra avremmo avuto un prato
che costeggiava un laghetto attraversato da un ponte mobile. Era un laghetto
naturale, niente più che un allargamento del letto del Seveso, spesso ridotto a
un pantano. Da S. Stefano la strada costeggiava il Seveso e proseguiva fino a
piazza Fontana, via S. Paolo, piazza Meda, via Morone, dove si congiungeva con
l’altra strada che portava al medhelan, la via Manzoni.
Giochi e necropoli
Nel prato, dove oggi si trova il cortile maggiore e il
chiostro meridionale dell’Università, si costruivano le gradinate lignee e ci
si radunava in attesa che gli atleti, attraversato il ponte rituale,
iniziassero i combattimenti. Non li avremmo considerati molto sportivi, perché
– soprattutto in occasione del capodanno – combattevano bendati, con una mano
legata dietro la schiena e all’ultimo sangue. Si trattava infatti di un
sacrificio spontaneo e rituale per placare con il sangue i defunti, secondo
un’usanza comune a tutti gli indoeuropei. Erano detti andebata. Le anime
dei trapassati in quell’anno stazionavano davanti alla porta di Antares in
attesa di procedere oltre, ma questo passaggio richiedeva un’energia che le
anime più deboli di vecchi e bambini o malati gravi non potevano avere, per cui
si paventava il rischio che ci fosse un riflusso di morti nel mondo dei vivi. I
combattenti che si immolavano nei giochi erano forti e potevano presentarsi
all’appuntamento con l’apertura dello “stargate” di Antares a guidare senza
fallo le schiere di deboli trapassati.
Gli eroi sacrificati erano poi sepolti con tutti gli onori
nella vicina necropoli. Nel 1885 nel cortile della chiesa di S. Antonino si
rinvennero a – 2,50 m alcune tombe a cremazione con modesti anelli a globetti e
fibule a sanguisuga, tipici della tarda fase di Golasecca (410-350 a.C.): tutto
qui quello che rimase di questi eroi in viaggio per Antares?
Sempre in occasione del raduno di capodanno si portava a
casa il nuovo fuoco del falò sacro, si pronosticavano i destini dell’anno che
veniva, si uccidevano gli animali che sarebbero stati consumati in inverno, si
consumavano i nuovi cereali.
Ruote infuocate o forate
Anche il periodo coincidente con la mietitura di agosto era
importante; il raduno estivo durava quindici giorni e, oltre ai combattimenti,
si gareggiava in onore dello spirito del grano reciso facendo correre le ruote
infuocate.
Il rito delle ruote o covoni infuocati è documentato ovunque
e si è perpetuato in età cristiana nei falò di S. Giovanni Battista. A Milano è
legato alla zona di S. Vincenzo in Prato, ma per una distorsione etimologica i nostri cultori di storia locale hanno immortalato questo rito anche nella zona del Verziere. Che operazione hanno fatto i nostri storici?
La zona del Verziere in età longobarda aveva preso il
toponimo di “rauda” (terra da bonificare). Ricordiamo che a oriente della Vigentina c’era una
necropoli, nella quale si erano salvate dalle distruzioni due cappelle, S.
Stefano già degli Innocenti e S. Giacomo; per distinguerle dalle altre omonime
le due cappelle acquisirono il toponimo in rauda.
Perso nei secoli il significato dell’etimologia longobarda,
ma vivo nell’inconscio collettivo il rito delle ruote infuocate e dei
combattimenti, dal IX secolo le due chiese vennero associate alla lotte fra
ariani e cattolici nel IV secolo, soprattutto al tempo del vescovo Ambrogio,
quando il sangue sparso dai cattolici aveva formato delle ruote infuocate che
si erano fuse nelle facciate delle cappelle. Erano trascorsi circa mille anni e
ci volle il governo dei Franchi a Milano perché si fermassero sulla carta
questi aerei archetipi celtici.
Nella chiesa di S. Maria del Paradiso in corso di Porta
Vigentina si trova la famosa pietra del Tredesin de Mars, reperita nel
cimitero di Porta Orientale presso S. Dionigi e qui inserita nel pavimento
della navata centrale. Si tratta di una ruota di pietra, con un buco in mezzo,
dal quale si dipartono tredici raggi. Doveva essere una pietra tombale, perché
il foro nella pietra è detto in Oriente “porta della liberazione”, dalla quale
passa l’anima del defunto. La pietra entrò nel culto cristiano grazie
all’associazione con l’agiografia di S. Barnaba, protovescovo milanese.
Le pietre
In un santuario celtico potevano mancare riferimenti al
culto delle pietre? Non stiamo parlando di menhir o di massi erratici
considerati sacri, ma di semplici pietre che erano diventate oggetto di culto e
che rimasero nella devozione milanese per secoli.
Nella zona che stiamo analizzando c’era la pietra di S.
Vittorello, ricordata con una lapide posta in facciata della
chiesetta.
Si trattava di un sasso abbastanza grande da permettere ad Ambrogio, in fuga da Milano per sottrarsi all’elezione a vescovo, di riposarsi in
attesa dell’alba.
Un’altra pietra appartenente all’agiografia ambrosiana era a
S. Nazaro in Pietra Santa, chiesa posta all’altezza di via Rovello e distrutta
nel 1888 per l’apertura di via Dante. Qui la pietra era conservata all’interno
della chiesa e, a seconda delle tradizioni, sarebbe servita a S. Ambrogio da
inginocchiatoio oppure da predella per scacciare gli ariani. C’è anche un
“giallo” legato a questa pietra, che venne scippata dalla Confraternita di S.
Agata in S. Nazaro: in un documento del 1579 si ingiunge alla Confraternita di
restituire la pietra santa alla Confraternita di S. Gerolamo, che dall’XI
secolo gestiva la chiesa di S. Nazaro in Pietrasanta. Ora si trova nel battistero di S. Vincenzo in Prato.
Questi episodi collegati all’agiografia ambrosiana ci
evidenziano come, fino al XVI secolo, il culto delle pietre fosse ancora vivo e persistente nell’inconscio collettivo milanese. Soprattutto la pietra di S. Nazaro è indicativa della continuità simbolica, perché salire su una pietra aveva un preciso significato carismatico. Nelle cerimonie celtiche di
successione, sulla pietra era inciso un paio di piedi appartenuti al primo
capo; durante la cerimonia d’insediamento, il capo saliva sulla pietra e
s’impegnava a seguire le orme dei suoi predecessori.
Tutte le pietre di tradizione celtica vennero incluse in
agiografie cristiane e rimasero oggetto di culto della popolazione indigena.
Il Pons Necis
Altro elemento archetipico e risalente al mondo celtico è
“il ponte”. Una leggenda tramandatasi per secoli voleva che dal Bottonuto
partisse un ponte che, col trascorrere del tempo, diventò sempre più lungo.
La leggenda risultava incomprensibile, finché negli anni
Trenta del secolo scorso gli archeologi non scoprirono l’esistenza del laghetto
naturale creato dal Seveso, per cui al Bottonuto poteva trovarsi il capo di
ponte per attraversare il laghetto e raggiungere l’area dei giochi. Dal momento
che una pozza d’acqua, a volte in secca dato il carattere torrentizio del
Seveso, poteva essere tranquillamente aggirata via terra, è naturale pensare
che il ponte svolgesse una funzione rituale e magica: la sua traversata doveva
essere precaria e risultare psicologicamente lunghissima, perché il ponte
rimase nella memoria collettiva lungo fino a Nosedo! Superata la difficoltà del
ponte, il concorrente a guidare le anime oltre Antares poteva accedere agli andebata.
La cosa più affascinante è che il ponte era noto nel
medioevo come Pons Necis, che rimanda al latino necare, uccidere,
far morire fra atroci tormenti, spegnere, soffocare. Stiamo facendo etimologia
alla Isidoro di Siviglia?
Per spiegare la valenza degli attraversamenti rituali
lasciamo la parola a Renato Del Ponte:
“Il ponte è un elemento archetipico, il panthah
vedico, ossia il cammino angoscioso e pericoloso che solo pochissimi sono in
grado di percorrere senza aiuto, ponte collegante le due rive del cielo e della
terra separate dalle acque della manifestazione”
Il canonico di S. Nazaro Carlo Torre raccoglie la leggenda e
la riporta così: “Là dove s’innalza quell’obelisco, chiamato Crocetta del Bottonuto,
eravi quel famosissimo ponte costrutto d’archi, la cui lunghezza stendevasi
smisurata su per la strada Romana, e chiamavasi Arco Romano, e secondo Donato
Bosso arrivava fino a Noceta.”
Il Torre mette insieme la leggenda del ponte con la presenza
dell’arco trionfale di Porta Romana del IV secolo e sembra trasformare la
passerella rituale in un imponente ponte romano ad archi che, arrivando fino a
Nosedo, somiglia a un acquedotto.
Come si sa, Milano è la pura esemplificazione del principio
“nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”, perché dove un tempo
era il ponte rituale celtico, in età viscontea si trovò un passaggio
sopraelevato (come quello di Vigevano), che collegava i palazzi viscontei alla
Rocca di Porta Romana… ma questa è un’altra storia.
Il pozzo
Anche i pozzi sacri sono entrati nel nostro patrimonio di
leggende, soprattutto per quanto riguarda l’affogamento rituale. Per la
tradizione di questo rito dobbiamo ringraziare il cristianesimo con le
agiografie, come nel caso di S. Calimero, vescovo di Milano, affogato in un
pozzo dove poi sorse la chiesa a lui dedicata e ancora presente nell’omonima
via.
Secondo il De situ civitatis Mediolani, la cronaca
medievale che riprende l’agiografia, il pozzo si trovava presso il tempio di
Apollo, traduzione romana di Belenos, il dio celtico “luminoso” che curava con
l’acqua e che è da noi ricordato con una lapide (C.I.L. 5762). In luogo del
tempio, sempre secondo la leggenda, sarebbe sorta la chiesa di S. Apollinare, oggi scomparsa.