Il Castello sforzesco attraverso i secoli
di Mauro
Colombo
1. La Porta Giovia nel sistema difensivo urbano
Le mura romane
Mediolanum ebbe le sue prime
vere mura alla fine del
I secolo avanti Cristo, sotto il principato di Ottaviano Augusto. Nel circuito di queste
mura (il cui tratto meglio conservato è custodito nelle cantine di via
S. Vito) si aprivano cinque porte sulle principali direttrici di traffico: Porta
Giovia tra via S. Giovanni sul Muro e via Cusani, Porta Cumana tra
via Cusani e via del Lauro, Porta Orientale o Argentea al
Còmpito di via S. Paolo, Porta Romana tra via Paolo da Cannobio e lo
scomparso vicolo di S. Vittorello, Porta Ticinese all'attuale Carrobio
(dopo l'ampliamento delle mura voluto dall'imperatore Massimiano si avranno
altre due porte, la Nuova nell'attuale via Manzoni all'altezza di via
Montenapoleone e la Tonsa al Verziere).
La Porta Giovia si apriva verso l'importante strada verso
il Seprio e ospitava ai suoi lati importanti sepolture, per lo più datate a
partire dall'età augustea. Molte lapidi sottratte a questo cimitero verranno
rimpiegate nella costruzione di edifici e basiliche in età tardo-imperiale
(es. S. Simpliciano e S. Carpoforo).
Come si presentava la Porta? Le radicali trasformazioni
subite da questa zona a partire dal XIV secolo non hanno lasciato neppure una
traccia della porta romana, ma non c'è motivo di escludere che si trattasse
di una normale porta a due fornici con torri arrotondate, come quella
superstite al Carrobio di Porta Ticinese.
Le mura comunali
La cinta costituita dalle mura romane era stata col tempo
gradualmente smantellata durante le invasioni barbariche dell'alto medioevo,
sia per scelte volontarie, nei tratti ove bloccava l'espansione urbana, sia
per incuria. A fianco della Porta Giovia, ad esempio, rimane il toponimo di S.
Giovanni al muro rotto ad indicare la devastazione subita dalle più antiche
mura urbiche.
Un primo lavoro di ripristino si ebbe con il regno di
Liutprando (secolo VIII), e successivamente per opera dell'arcivescovo
Ansperto (secolo IX).
Una nuova, e più estesa, cerchia difensiva venne però
realizzata solo a partire dal 1155, su progetto di mastro Guintellino. Consisteva in un cerchio irregolare, formato da un
profondo fossato, nella parte verso la campagna, affiancato, nella parte verso
la città, da un terrapieno formato dal materiale di risulta dello scavo del
fosso. La semplice, ma imponente, realizzazione venne battezzata ben presto
"cinta dei terraggi" (proprio perché fatta di terra). Il fossato
era riempito d'acqua, proveniente dal Seveso e dal Nirone, mentre lo scarico
della stessa era garantito dalla Vettabbia.
Dopo le devastazioni compiute dal Barbarossa, sui resti
di questa cinta fortificata si iniziarono all'incirca nel 1171 i lavori per
una più efficace linea difensiva, questa volta in muratura.
Questa nuova cerchia era caratterizzata da sette porte e
dodici pusterle, le une e le altre concepite come dei piccoli fortini. Per
altro, la pace di Costanza fece in parte abbandonare i lavori di
completamento. In ogni caso la nuova cinta diede un particolare e duraturo
assetto all'impianto urbanistico, tant'è che il fossato diventerà poi
l'alveo dei Navigli (cosiddetta cerchia dei Navigli).
La nuova Porta Giovia venne leggermente avanzata verso
gli orti coltivati a nord, che sfruttavano l'abbondanza di acque risorgive e
incanalate (borgo degli ortolani). Si apriva sempre lungo la strada verso il
Seprio, all'incirca ove oggi è la Rocchetta all'interno del Castello
Sforzesco. Sul suo lato orientale si trovava la Pusterla delle Azze (oggi zona
Lanza), così detta dalle accie, ossia le trame dei fustagni per la cui
lavorazione si sfruttavano le acque del Nirone che scendeva dal borgo degli
Ortolani (via Nicolini, piazza SS. Trinità). Tra la Porta Giovia e la
Pusterla delle Azze si svolgevano anche i mercati ortofrutticoli e del fieno,
ma si collocavano anche un gran numero di ostelli per pellegrini e viandanti,
stallazzi per i cambi dei cavalli, cappelle ricche di leggende e tradizioni,
come quella dei SS. Gervaso e Protaso. In questa zona a ridosso della Porta
Giovia si insediarono anche i primi Carmelitani giunti a Milano.
2. Le difese viscontee a Porta Giovia
La Rocca di Galeazzo II Visconti
Nella divisione del territorio fra i nipoti Matteo II,
Galeazzo II e Bernabò voluta dall'arcivescovo e signore di Milano Giovanni
Visconti, a Galeazzo II era toccata la Porta Giovia. Tutte le Porte vennero
debitamente potenziate e fortificate, in modo da farne delle Rocchette. La
più famosa e documentata a Milano era quella di Porta Romana utilizzata da
Bernabò e sopravissuta fino al suo atterramento voluto dal Piermarini.
La diffidenza che Galeazzo II e soprattutto sua moglie
Bianca di Savoia provavano nei confronti di Bernabò determinò lo spostamento
della coppia a Pavia, dove la coppia aveva fatto costruire un vero castello
atto all'abitazione, con un grande parco per l'allevamento dei cavalli. La
Rocca di Porta Giovia, edificata tra il 1358 e il 1368, rimase quale presidio militare di Galeazzo II a Milano e
quale residenza per i suoi soggiorni milanesi (mentre il palazzo visconteo
accanto all'arcivescovato - ora Palazzo Reale - non veniva usato perché
troppo vicino al temuto fratello).
Una parte del fossato comunale (c.d. fossato morto) si
trova ancora oggi all'interno del castello, così da dividerlo quasi in due:
di qua il grande cortile adibito a piazza d'armi, di là la Corte Ducale e la
Rocchetta, cuore del castello stesso.
Il castello di Filippo Maria
Fu l'ultimo dei Visconti, Filippo
Maria (1412-1447) ad eleggere la Rocca di Porta Giovia a sua residenza
milanese e quindi a trasformarla in un vero e proprio castello con pianta quadrangolare, chiamando presso di sé architetti del calibro di Filippo
Brunelleschi, il contributo concreto del quale resta però abbastanza oscuro.
Poiché attorno al castello fu scavato un largo fossato
(alimentato direttamente dalle acque del fossato cittadino), l'accesso era
garantito da due doppi ponti levatoi con relativi battiponte, uno sul lato
città, l'altro sul lato campagna.
All'epoca era già sicuramente esistente una cinta
muraria che proteggeva il castello nella parte esposta verso la campagna. E
proprio la campagna retrostante fu trasformata, per la gioia dei Visconti e
dei loro illustri ospiti, in un'immensa tenuta boschiva di 3 milioni di metri
quadri, che nelle epoche di maggior splendore fu popolata con animali esotici,
per rendere le battute di caccia più prestigiose.
Alla morte di Filippo Maria (1447), il castello di
Milano, con i suoi 180 metri di lato, era senz'altro il più grande fortilizio
realizzato in epoca viscontea.
3. Il periodo sforzesco
La parentesi repubblicana
Dopo Filippo Maria, che lasciava come unica erede la
figlia Bianca Maria sposata al condottiero Francesco Sforza, Milano si organizzò autonomamente dando vita
alla Repubblica Ambrosiana (1447-1450). In questo pur breve periodo i milanesi si accanirono con
violenza contro il castello visconteo, simbolo di oppressione e tirannide,
demolendolo in parte e smantellandone le opere difensive.
Comunque, l'architettura del castello era da considerarsi
ormai inadeguata rispetto all'evolversi delle tecniche militari, che
iniziavano ad introdurre l'uso delle artiglierie.
Francesco Sforza
Divenuto
signore di Milano Francesco I Sforza nel 1450,
si pose immediatamente mano alla ricostruzione del castello, che divenne il cardine di tutto
il sistema difensivo cittadino.
In realtà, tra i numerosi patti sottoscritti tra i
rappresentanti della città e lo Sforza, vi era quello di non riedificare il
castello di Porta Giovia. Il furbo condottiero venne però meno al proprio
impegno, spingendo una delegazione di cittadini ad invitarlo alla
ricostruzione, adducendo come motivi il decoro e la sicurezza della città.
Per rendere meno indigesta la nuova fortezza, volle che
la facciata verso la città fosse ingentilita con delle finestre, a mo' di
palazzo, che poi però, quando la sua Signoria si era ormai affermata e
nessuno più poteva metterla in discussione, fece prontamente murare per
migliorare la sicurezza dell'intera rocca. Le finestre saranno riaperte solo
coi restauri moderni del Beltrami, come vedremo più avanti.
Le principali innovazioni architettoniche di questo
periodo furono le muraglie più spesse, atte a resistere ai colpi dei
proiettili, i torrioni più bassi e rotondi, camminamenti di ronda per la
difesa piombante e le indispensabili, moderne, aperture per le bocche da fuoco
(archibugiere, balestriere, bombardiere).
I due celebri torrioni circolari vennero edificati con
uno spessore di sette metri, abbelliti con pietre a bugnato regolare. Fu anche
aggiunto un grande stemma, che recava le iniziali FR. SF. e la vipera
viscontea, insegna adottata per dimostrare la continuità della stirpe
sforzesca da quella viscontea. All'interno, i torrioni contenevano delle celle
per i prigionieri.
Alla prima fase ricostruttiva parteciparono esperti
militari dell'epoca, quali Marcoleone da Nogarolo, Filippo d'Ancona, Giovanni
Solari, Jacopo da Cortona.
Vi lavorò anche Antonio Averulino, il Filarete, che
edificò nel 1452 la omonima torre, al centro della facciata rivolta verso la
città, anch'essa progettata per smorzare i toni eccessivamente cupi e
militareschi che il castello stava assumendo. Ispirata a quella presente nel
castello campestre di Cusago (tuttora esistente), inizialmente doveva essere
alta quanto le mura, ma essendosi innalzati i due torrioni circolari, la torre
filaretiana (che avrà vita breve) dovette essere alzata, aggiungendovi i due
sopralzi e la cupoletta.
La sovrintendenza generale ai lavori costruttivi venne
affidata a Bartolomeo Gadio, che manterrà l'incarico per ventisei anni,
durante i quali si portò a termine anche la ghirlanda, cioè la cortina
muraria a difesa del castello (ricavata sulla preesistente difesa viscontea) e
la strada segreta, o coperta, posta nella controscarpa del fossato.
Questa era una sorta di corridoio coperto a volta,
illuminata da finestrelle che si aprivano sul fossato, e prima che varie frane
e la costruzione della rete fognaria la interrompessero, aveva numerose
gallerie che portavano per diversi chilometri in aperta campagna.
Galeazzo Maria e Gian Galeazzo Sforza
Se Francesco Sforza aveva pensato, nell'opera
restauratrice, prevalentemente agli aspetti difensivi, il figlio Galeazzo si
occupò delle parti residenziali e rappresentative. Proseguì così la
sistemazione della Rocchetta, e completò la Corte ducale. Innalzò due nuove
ali, la prima per ospitare la sala Verde e la cappella ducale; la seconda con
il portico detto dell'elefante.
Morto improvvisamente nel 1476, vittima della congiura di
S. Stefano, la Signoria passò al giovane Gian Galeazzo, sotto tutela della
madre Bona di Savoia e del cancelliere Cicco Simonetta (vedi
pagina).
Nel 1477 Bona fece innalzare la torre centrale che ancora
porta il suo nome, col preciso compito di sorvegliare i movimenti interni al
castello e l'accesso alla Rocchetta.
Autore ne fu il marchese Lodovico Gonzaga, Signore di
Mantova. La torre fu progettata per contenere otto celle, a cominciare da
quella sotterranea, l'una sopra l'altra.
Nel corso dei secoli tuttavia perse la parte superiore, e
finì col terminare in una sorta di terrazza protetta da una ringhiera di
ferro.
Ludovico Maria detto il Moro
Liberatosi del Simonetta e scacciata Bona di Savoia,
Ludovico Maria assunse la tutela del Ducato facendo firmare al nipote una
lettera d'assenso, divenendo di fatto il nuovo signore dal 1480 al 1499.
Il Moro volle imprimere al Castello un'immagine più
residenziale e principesca, mitigando l'impronta guerresca ancora dominante
nonostante gli sforzi dei suoi predecessori. Per questa ragione chiamò a
corte artisti di spicco, tra i quali il Bramante e Leonardo.
Negli anni della loro permanenza a Milano, entrambi
presentarono numerosi progetti per quella che ormai era diventata la residenza
della famiglia ducale (fin dagli anni Sessanta del Quattrocento).
Attualmente, tuttavia, individuare le tracce del loro
operato risulta difficile. Del tutto labili sono gli indizi di un'attività
bramantesca. E' noto che verso il 1495 il cortile della Rocchetta, il
quadrilatero porticato posto nel vertice occidentale del castello cui si
accedeva originariamente solo dalla grande piazza d'armi tramite un ponte
levatoio, fu dotato del terzo ed ultimo fronte ad arcate su colonne. La
datazione, confermata dalla presenza degli emblemi prediletti dal Moro sulle
targhe che decorano i capitelli di disegno corinzio, ha suggerito
un'attribuzione al Bramante, ma nella arcate che posano direttamente su
colonne non si può individuare un suo contributo originale (contributo che la
preesistenza degli altri fronti non poteva comunque che limitare
pesantemente).
Sua deve sicuramente essere la cosiddetta "ponticella",
opera commissionata dal Moro a Bramante, secondo il suo allievo Cesare
Cesariano (1521), e identificata dal Beltrami nel piccolo ponte coperto
(databile al 1495 circa) che attraversa il fossato esterno al lato nord est
del castello, connettendo le stanze private del duca con l'area allora a
giardino compresa tra il fosso stesso e la ghirlanda.
Tra queste stanze private, v'era la "saletta
negra", che il Moro, dopo la morte della sposa Beatrice, aveva fatto
decorare da Leonardo ed in cui amava raccogliersi.
Il contributo di Leonardo è assai meglio precisabile, ma
resta documentato sostanzialmente solo da disegni: i suggestivi schizzi per
un'altissima torre-osservatorio al centro della facciata verso la città e
singolari tempietti a cupola per le torri angolari.
Non restano invece tracce di un padiglione a pianta
centrale realizzato nel giardino, e del famoso monumento equestre a Francesco
Sforza (il cui modello fu distrutto dai Francesi) che doveva essere posto in
una grandiosa nuova piazza rivolta verso la città.
La
creazione più famosa di Leonardo resta così il grande affresco sulla volta a
ombrello della sala "delle Asse", eseguito secondo un suo progetto
decorativo nel 1498 circa: una grande pergola verde di rami, annodati con i
famosi "vinci", che scaturivano da un circolo di alberi.
Leonardo è comunque ricordato per aver organizzato
coreografie e macchinari per allietare feste e stupire gli ospiti di corte.
Una delle più famose fu quella organizzata nella Sala
Verde della corte ducale, e detta Festa
del Paradiso. Leonardo creò sul palcoscenico una volta raffigurante il
Paradiso, con astri, divinità, angeli e quant'altro. Sul culmine della volta
l'artista collocò un bambino tutto nudo e dorato di vernice, con grande
ammirazione dei presenti. Le cronache ci dicono anche che quel bambino morì
atrocemente poco dopo la rappresentazione, a causa della doratura che gli
provocò ustioni su tutto il corpo.
Per quanto riguarda, infine, le mura urbane, erano in
pratica ancora quelle di epoca comunale-viscontea, con sette porte e undici
pusterle. In ogni caso la saldatura delle mura cittadine al castello risultava
decisamente più complessa, per la presenza di rivellini che, snodo tra mura
cittadine e mura castellane, smistavano i numerosi accessi al fortilizio,
rendendolo ancora più sicuro.
I due rivellini suddetti, uno chiamato di Porta Comasina
e l'altro di Porta Vercellina, si edificarono al centro del fossato, e
mediante ponticelle levatoie comunicavano con i rispettivi portoni di
ingresso.
Dei due, il rivellino tuttora superstite è quello di
Porta Vercellina, ove ora trovasi la via Minghetti.
Oggi della cinta muraria a protezione del castello, la
ghirlanda, e del suo fossato, restano solo le vestigia della porta detta del
Soccorso (verso la campagna) e i basamenti dei due piccoli torrioni tondi ai
lati (detti della Colubrina e della Vittoria).
4. Le dominazioni straniere
Il periodo francese
Nel 1499, il castellano Bernardino da Corte, tradendo il
giuramento fatto allo Sforza, si vendeva ai Francesi e al loro comandante, Gian
Giacomo Trivulzio. Milano cadde così nelle mani di Luigi XII, che
entrò in città il 6
ottobre. Nei dodici anni di dominazione francese, la preoccupazione maggiore
fu quella di isolare il castello dalla città (le cui case col tempo si erano
addossate sempre più al fortilizio), sulla scia di una precisa volontà già
individuabile nell'opera del Moro, che aveva fatto demolire le costruzioni
private che impedivano di individuare consistenze e direzioni degli attacchi
che il castello doveva subire.
Perduta la veste di reggia principesca, il castello
inizia il suo lento ma inarrestabile declino. Il cortile centrale cominciò ad
assumere l'aspetto di un cortilone di caserma. Col tempo si allestirono delle
botteghe per gli usi delle guarnigioni: panettieri, osterie, barbierie, fabbri
ferrai ed anche un piccolo ospedale.
Un duro colpo alla magnificenza del castello venne
inferto il 28 giugno 1521, quando esplose la torre del Filarete, nella cui
sommità i francesi avevano ammassato le polveri da sparo.
Anche se ora può sembrare strano, all'epoca dislocare la
polveriera in cima alle torri era considerata una cautela, poiché in caso di
esplosione si perdeva solo la parte alta della costruzione. Tuttavia la torre
filaretiana, o dell'orologio, come era detta all'epoca, andò totalmente
distrutta, e "li sassi e le pietre grossissime delle rovine volavano con
impeto incredibile spaventosamente qua e là per l'aria… e però furono
ammazzati più di centocinquanta fanti del Castello, ed il castellano della
Roccheta e quello del Castello…e rovinato tanto spazio di muro che al popolo
se si fosse mosso sarebbe stato facile molto l'occupare quella notte il
castello".
Quando le truppe imperiali sconfiggono i Francesi nella
battaglia di Pavia (24 febbraio 1525), per il Castello inizia un assedio di
ben quattordici mesi.
Al termine, il fortilizio è abbandonato nelle mani di
Francesco II Sforza, il quale però, sospettato di tradimento, è costretto a
sua volta a barricarsi e resistere per nove mesi alle truppe dell'imperatore.
Gli Spagnoli
Francesco II, che per poter mantenere il ducato dopo il
pesante assedio aveva pagato a Carlo V la considerevole cifra di 900.000
ducati, morì senza figli il 1° novembre del 1535.
Casa Sforza si estinguerà poco dopo, con la morte di
Gian Paolo (figlio naturale di Ludovico il Moro e di Lucrezia Crivelli), che
inutilmente aveva tentato di avanzare legittime pretese di successione sulla
Signoria del Ducato.
Così, città, territori e naturalmente castello vennero
offerti, da un'ambasceria di milanesi, all'imperatore Carlo V, il quale,
accettato il gentile dono, nominò Antonio de Leyva luogotenente imperiale e
governatore: Milano diventa un dominio spagnolo.
I problemi difensivi vennero quanto prima affrontati dai
nuovi padroni, ma i progetti restarono il più delle volte solo sulla carta.
Si discuteva principalmente se la soluzione migliore
fosse quella di realizzare una nuova cerchia murata, oppure raddoppiare il
castello, magari edificandone uno totalmente nuovo da sostituire al primo,
sempre più obsoleto davanti ai progressi delle tecniche militari. Questo
nuovo baluardo avrebbe dovuto vedere la luce a sud della città, verso Porta
Romana. Tuttavia l'ipotesi naufragò davanti ai preventivi di spesa, che
sarebbe stata a carico dell'imperatore e non della città.
Prevalse dunque il progetto per una nuova ed
inespugnabile cinta muraria che abbracciasse tutta la città, approvato e
sollecitato dal nuovo governatore Ferrante Gonzaga.
La prima pietra della mura spagnole (o bastioni) fu posta
nel 1548 presso la chiesa di S. Dionigi, vicino al lazzaretto, su progetto di
Giovanni Maria Olgiati. In realtà altre fonti spostano l'inizio dei lavori al
1552, come si potrebbe evincere dalla consultazione dei Registri delle
Fortificazioni, ove sono riportate ordinanze e capitolati d'appalto relativi
ai lavori e le suppliche dei cittadini desiderosi di essere risarciti per le
demolizioni e i danni subiti.
Alcuni sostengono che l'ambizioso progetto fosse il medesimo già accarezzato
dall'ultimo degli Sforza. In realtà questi aveva sì immaginato un
potenziamento delle difese cittadine, ma non in senso di maggiore estensione,
bensì attraverso la costruzione di una "tenaglia" appoggiata al
vertice nord-est del castello, verso il borgo degli Ortolani (attuale via
Canonica).
Resta
il fatto, comunque, che questa "tenaglia" difensiva un po'
misteriosa dovesse essere stata veramente realizzata prima delle mura
spagnole, le quali arrivarono a coprirne l'area solo nel 1592, anno della sua
presumibile demolizione. Resta un capitolo poco chiaro, affidato solo alla
memoria di una strada parallela a via Moscova, che porta ancora il nome di via
Porta Tenaglia, proprio dove teoricamente doveva trovarsi il suo vertice
estremo.
Queste ciclopiche mura presentavano, secondo il pensiero
di molti, eccessivi difetti. Primo fra tutti, si trattava di otto chilometri
di cinta, con relativi fossati, strade di arroccamento, e altri servizi, ma
solo le porte erano adeguatamente serrate da bastioni. Fortuna volle,
comunque, che nessun esercito straniero sottopose mai la cinta ad alcuna
verifica.
La bastionatura stellata del Castello
Dopo dodici anni dalla data di inizio della nuova e
grandiosa cinta, iniziarono anche i lavori (1560) per la realizzazione della
bastionatura del castello. A tal fine, si chiese alla cittadinanza un
contributo straordinario di 60.000 ducati.
La
somma fu anticipata dal banchiere Tommaso Marino (vedi
pagina), che dalla Spagna ottenne in cambio la cessione anticipata di due
annualità di dazi sul vino.
Nove anni dopo l'inizio dei lavori il primo baluardo
(verso la via Quintino Sella) vide finalmente la luce, e fu dedicato al
governatore Gabriele de Cueva, duca di Albuquerque. Seguirono poi a ruota i
baluardi S. Jago o S. Diego (via Ricasoli) e Padilla (puntato verso largo
Cairoli). La demolita "tenaglia" lasciò il posto ai baluardi Don
Pedro e Acugna. Il sesto baluardo, sull'attuale asse di corso Sempione, prese
il nome di Velasco.
Così, il castello fu totalmente isolato dalla città, e
diventerà subito qualcosa di a sé stante, slegato dal sistema difensivo
urbano.
Con Filippo IV (re dal 1621 al 1665) al giro già
macchinoso dei baluardi si aggiunse quello delle mezzelune, cosicché la
stella che arrivò a circondare il castello venne ad avere ben dodici punte.
Delle spese in preventivo nessuno se ne ricordava più, e si arrivò presto ad
un consuntivo di oltre un milione di ducati. A questi si aggiungeva una cifra
imprecisata, ma senza fine, per il mantenimento della guarnigione e delle
soldatesche che il sistema difensivo milanese, fulcro di un più vasto
sistema, attirava continuamente.
Una minuziosa e probabilmente fedele riproduzione del
castello è visibile in un affresco del Palazzo
Arese Borromeo di Cesano Maderno, databile intorno al 1655, che mostra a volo
d'uccello la complessa organizzazione difensiva che circondava il Castello.
Nell'affresco i torrioni appaiono cimati della merlatura: abbassare le torri
rientrava nella logica dettata dall'utilizzo della polvere da sparo.
Anche da ciò si evince come ormai l'antica reggia
principesca si era ridotta a fredda macchina da guerra, ed ogni suo angolo
trasformato in depositi di materiale bellico e caserme per le guarnigioni.
Nel periodo spagnolo anche il bellissimo bosco sforzesco
verso la campagna perse ogni pregio, dato che fu suddiviso in più
appezzamenti agricoli e affittato per le coltivazioni.
La parte verde più prossima al castello finì con
l'essere utilizzata per le adunate delle truppe e per le esercitazioni
militari, cosa che la rese un enorme spiazzo sterrato e fangoso.
Gli Austriaci e i Savoia
Nel
marzo del 1707 l'ottantenne generale marchese de Florida abbandona, con
l'onore delle armi, castello e città nelle mani dell'Austria.
Tuttavia nel 1733 la guerra di successione polacca vide
l'alleanza franco-sabauda, accordo militare che permise a Carlo Emanuele III
di Savoia di entrare in Milano. Il castellano Annibale Visconti si arrese dopo
una decina di giorni di battaglia, che ebbe come tragica conseguenza la
distruzione del borgo degli Ortolani.
Anche il castello ne uscì malandato, e i baluardi Acugna
e Velasco dovettero essere addirittura smantellati.
Le successive manovre politiche e militari non scalfirono
più il castello, destinato sempre più a divenire una sonnolente piazzaforte,
sede di una guarnigione austriaca con 2.000 soldati croati di guardia a 152
cannoni e 3.000 quintali di polvere pirica.
Il periodo napoleonico
Se il primo periodo napoleonico (1796-1799) non toccò la
struttura del castello, salvo la violenza del popolo che rovinò gli stemmi
sulle torri, le quali a loro volta rischiarono di essere abbattute, il
Bonaparte decise di interessarsi al fortilizio dopo la battaglia di Marengo.
Infatti, con decreto del 23 giugno 1800, ordinò la
totale demolizione dell'inutile fortilizio. Tuttavia i lavori si accanirono
solo contro le bastionature spagnole, che dal 1802 caddero pezzo dopo pezzo a
colpi di mina.
In pochi anni si arrivò così all'abbattimento di tutta
l'opera di protezione, costata almeno un secolo di appalti e migliaia di
ducati. Fu salvato invece il castello, che però appariva come un gigante
addormentato al centro di una vastissima area desolata.
Conseguentemente,
vennero presentati alcuni progetti urbanistici per la sua sistemazione. Tra
questi, uno di Luigi Canonica, con la sua "Città Buonaparte" e un
secondo, meritevolissimo, di Giovanni Antonio Antolini: il "Foro
Buonaparte". Il progetto Antolini, che prevedeva la costruzione di un
complesso di edifici monumentali destinati ad uso pubblico, di cui il
castello, rimaneggiato con forme classiche, doveva costituire la parte
centrale, pur inizialmente approvato e poi riveduto e corretto, non venne mai
realizzato, anche per un problema di costi eccessivi.
Mentre all'esterno si discuteva di urbanistica, l'interno
del castello veniva impunemente vilipeso: la leonardesca sala delle Asse, come
le sale vicine, fu intonacata e adibita a scuderia
L'ultima occupazione austriaca
Rientrati
gli Austriaci nel 1814, questi mantennero il castello nelle condizioni
lasciate da Napoleone, salvo i necessari restauri (esclusivamente pratici)
eseguiti dopo il brevissimo periodo di libertà ottenuto nelle epiche giornate
del 1848, durante il quale i cittadini si erano accaniti contro castello e
soprattutto contro le torri, che da quel frangente iniziarono a misurare la
metà dell'epoca sforzesca. Furono infatti demoliti 18 giri di bugne, sino
alla metà degli stemmi, cioè sino all'altezza delle mura di cortina.
5. La rinascita del castello
Il nuovo piano regolatore
Con l'unità d'Italia, la città iniziò una vertiginosa
espansione territoriale, favorita anche dall'annessione dei Corpi Santi
(1873), cioè i comuni e i borghi sviluppatisi al di fuori delle mura
spagnole. Queste cominciarono pertanto ad essere atterrate a partire dal 1885,
risultando ormai d'ostacolo allo sviluppo del tessuto urbano, anche se gli
ultimi tratti caddero solo nel 1946. Sopravvive oggi un baluardo a Porta
Romana (p. Medaglie d'oro), alcuni tratti a Porta Vigentina e il sopralzo a
Porta Venezia, attualmente percorribile in automobile.
Nel 1884 l'ing. Cesare Beruto elabora, su incarico della
giunta municipale, il primo vero piano regolatore organico che, pur con le
inevitabile modifiche e varianti, rimarrà alla base del riordino viario e
dell'ampliamento di Milano.
Fu così che andò distrutto il lazzaretto (1882-1890),
ormai alloggio abusivo per decine di famiglie del sottoproletariato urbano, e
al suo posto edificato un vasto quartiere di case per il popolo. A nulla
valsero le proteste di molti nemici della speculazione, tra i quali
l'architetto Luca Beltrami.
Questi
riuscì però a salvare dalla stessa tristissima fine il castello, secondo i
progetti del tempo destinato a fare posto ad un lunghissimo corso che avrebbe
dovuto congiungere il Duomo, attraverso la neonata via Dante, all'attuale
corso Sempione. Si dice che, sapendosi in città che tale progetto nascondeva
in realtà intenti di speculazione edilizia privata, qualcuno riuscì a farlo
cadere con l'ironia: fingendo grande apprezzamento, chiese di demolire anche
il Duomo, di modo che il corso così ideato potesse raggiungere agevolmente il
corso Venezia e continuare oltre, per lo stradone di Loreto (oggi corso Buenos
Ayres).
I restauri di Luca Beltrami
Al
Beltrami furono affidati i lavori di ristrutturazione e reintegrazione del
castello, che iniziarono nel 1893. La sua paziente e meticolosa opera fu
condotta sempre sulla base di rilievi e documenti dell'epoca sforzesca.
La prima opera di restauro riguardò il torrione a destra
di chi guarda, il quale fu sfruttato per inserire al suo interno un enorme
serbatoio d'acqua potabile, su proposta dell'assessore Saldini. Nel 1905 fu
completato il secondo torrione, anche questo adibito a serbatoio per l'acqua.
Nel 1893-1894 si pose mano alla torre di Bona di Savoia,
a spese del Comitato Cittadino promotore delle Esposizioni Riunite, che si
tennero in quegli anni proprio al castello.
Anche la torre del Filarete fu ricostruita, ispirandosi
ai graffiti presenti a Chiaravalle (vedi)
e alla Madonna Lia del pittore leonardesco Francesco Napoletano (vedi):
prima dell'opera in muratura, tuttavia, si preferì appoggiare alla facciata
una imponente sagoma di legno a grandezza naturale, onde verificare l'impatto
visivo che una simile torre avrebbe avuto guardando il fortilizio dalla via
Dante.
Nell'inverno del 1893-1894, per iniziativa di Paul
Muller-Walde si iniziarono anche le prime indagini per scoprire le tracce
originali della decorazione della sala delle Asse, intonacata, come detto, dai
Francesi invasori.
Il 24 settembre 1904 il Beltrami restituì alla
cittadinanza il castello voluto dai Visconti, che però fu ribattezzato "Sforzesco",
come segno del recupero del tempo in cui aveva vissuto la sua migliore
stagione.
La retrostante piazza d'armi fu trasformata in parco
cittadino dall'architetto Emilio Alemagna nel 1894 (lo stesso architetto che
aveva già riqualificato i Giardini Pubblici nel 1881) (vedi
la pagina sui Giardini).
Nonostante l'ingente spesa (1.700.000 lire), solo 21
ettari vennero veramente destinati a verde. Il restante spazio fu infatti
occupato da case e strade.
Altro spazio fu poi tolto agli alberi quando nel 1931
vide la luce il tanto criticato Palazzo dell'Arte.
Pagine utili sul Castello Sforzesco
In italiano: Sito ufficiale del Castello Sforzesco;
Wikipedia;
Visione panoramica;
In inglese: Foto
Bibliografia
Beltrami, Luca, Guida storica al castello di Milano
(1368-1894), Milano 1894
Beltrami, Luca, Il castello di Milano sotto il dominio
dei Visconti e degli Sforza, Milano 1894
Beltrami, Luca, Il castello sforzesco dal febbraio
1911 al novembre 1913, Milano 1916
Bologna, Giulia, Il castello di Milano, Milano
1986
Calvi, Felice, Il castello visconteo-sforzesco nella
storia di Milano, Milano, Vallardi 1894 [rist. Milano, R.A.R.A. 1993]
Casati, Carlo, Vicende edilizie del castello di Milano,
Milano 1876
Fava, Franco, Storia di Milano, Milano 1997
Lopez, Guido, Il castello sforzesco di Milano,
Milano 1986
Mirabella Roberti, M. – Vincenti, A. – Tabarelli, G.M.,
Milano città fortificata, Milano 1983
Mirabelli Roberti, Mario, Milano Romana, Milano
1984
Monti, A. – Arrigoni, P., La vita nel castello
sforzesco attraverso i tempi, Milano 1931
Sonzogno, Lorenzo, Il castello di Milano: cronaca di
cinque secoli, Milano 1837
Ultima modifica: giovedì 05 settembre 2002
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